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Ora, un certo qual pericolo sovrasta. L'Italia s'è ricomposta, ha conseguito una capitale, e quella capitale non è, nè poteva esser Firenze. Essa è invece la città su cui s'impernia tutta la vita italiana: come s'è visto, insieme colla vita politica, colla civile, colla religiosa, anche la vita linguistica. C'è luogo quindi a temere che il centro di gravità tenda a spostarsi. Contro un pericolo siffatto non vedo quale altro rimedio possa esserci all' infuori di un fervore di vita intellettuale, che mantenga a Firenze, cosi mirabilmente disposta dalla natura e dalla storia, il carattere di Atene italiana. A quest'opera, sommamente salutare e benefica, non solo per la patria piccina, ma anche per la grande, tutti possono efficacemente contribuire. Contribuisca anzitutto ciascuno col coltivare la mente sua propria. E cooperatrice efficacissima, anzi indispensabile senz'altro, è a dire la donna. Chè, ivi non è coltura durevole e schietta, dove la donna non è colta; la donna, prima educatrice delle nuove generazioni; stimolatrice insieme e riposo dell'ingegno umano; allettamento e anima di quei ritrovi, per opera dei quali il pensiero e la parola ce lo dica la Francia del passato possono meglio che con qualsivoglia altro mezzo ingentilirsi e affinarsi. Ma badi bene la coltura di non lasciarsi salire in groppa quella odiosa strega che è la pedanteria. Se questo avesse a se

guire, bisognerebbe correre a sbarrare le strade e chiudere il passo anche a lei. Meglio allora sempre per la donna rimanersene coi pregi che si trova aver da natura.

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APPENDICE.

Sarà, credo, opportuno ch'io non lasci vagare stampata questa mia conferenza, senza dire aperto cosa pensi di certe opinioni messe fuori di recente, alle quali vedo farsi un'accoglienza, che non avrei immaginato quando parlavo al pubblico dalla sala Ginori.

Nel 1884, quell'insigne romanista che è Ernesto Monaci, sostenne, in un articolo ingegnoso pubblicato nella Nuort Antologia (15 agosto), che il vero focolare della nostra prima scuola poetica, fosse, nonostante il nome consacrato dall'uso già ai tempi di Dante, Bologna, non la Sicilia. Ivi si sarebbe primamente fissata anche la nostra lingua letteraria. Alcuni anni appresso il prof. Augusto Gaudenzi

uno studioso che dalla sua rocca della storia del diritto può, bene armato e arredato, far proficue scorreric in altri dominii prima in una rivista (L'Università, m, 204 seg.), poi soprattutto in un libro (I sumi, le forme e le parole dell'odierno dialeto della città di Bologna, Torino, Loescher, 1889), riprese la seconda parte dell'idea del Monaci, determinandola in modo considerevolmente diverso; e alla teorica mise per fondamento dati suoi proprii, e antiche scritture, di cui egli stesso era stato ritrovato sagace.

Stando a lui, la lingua letteraria avrebbe propriamente la sua culla nelle scuole di arte notarile dell' Università bɔ

lognese.

Non è senza meraviglia che alle deduzioni del Gaudenzi ho visto assentire, dando conto del libro, due cultori valentissimi degli studi linguistici: il Salvioni (Giornale storico della letteratura italiana XVI, 378) e il Meyer-Lübke (Literaturblatt für germanische und romanische Philologie, xu, 25). Almeno, che il Meyer-Lübke assenta, mi par chiaro da certe frasi e dalla mancanza di ogni obiezione; quanto al Salvioni, il suo assenso è esplicito, con certi allontanamenti tuttavia. Mentre cioè per il Gaudenzi la lingua prevalsa a Bologna fa la toscana, per il Salvioni invece, più ragionevolmente di certo, era un contemperamento delle varic parlate italiane. Con ciò egli ritorna all'idea primitiva del Monaci; ma non si perita di dire che il Gaudenzi" dimostra il fatto in modo ben più sicuro „.

Ora, dove stia codesta dimostrazione, per mia parte confesso proprio di non capire. Se i testi del Gaudenzi sono assai notevoli e se è da essere riconoscentissimi a chi ce li ha dati, i ragionamenti che muovono da essi si trascirano innanzi a fatica di congettura in congettura e non reggono a un esame, per poco attento che sia. Bologna, gran fucina di coltura, ha di certo anche nella storia della nostra lingua un'importanza ragguardevole; ma ridurre dentro di essa soltanto la formazione del volgare illustre, è un rimpicciolire il problema; quanto poi al metterne per l'appunto la nascita nelle scuole di notariato è un immiserire le cose in modo addirittura compassionevole. Ne si capisce che si dia tanto peso a Guido Fava, che, se

fu bolognese, scrisse la maggior sua opera in Toscana, e non si pensi a Buoncompagno, che, toscanissimo e insegnando lettere a Bologna, tra tante sue opere non ce ne lasciò nessuna in volgare. Ai documenti del Gaudenzi basterebbe contrapporne due soli: da un lato l'iscrizione di Ferrara, che molto tempo prima ci dà esempio di un volgare scritto che non è davvero il ferrarese, pur contenendo elementi dialettali, ed uno emiliano caratteristico; dall'altro, i frammenti fiorentini del 1211, di cui s'è vista la portata cronologica. E dov'è la ricca fioritura di carte volgari, di cui, se la teorica del Gaudenzi fosse vera, noi avremo bene il diritto di far domanda, soprattutto alla sua Bologna? Se il volgare deve per solito servire ai notai solo per le spiegazioni verbali alle parti contraenti, non sappiam dayvero che importanza abbia da avere questo ordine di fatti per la fissazione della lingua scritta.

Ben altro ci sarebbe a dire; ma rimetto l'esposizione a miglior tempo. Intanto mi basta di aver levato la voce per mettere in guardia contro di ciò che a me pare un errore non meno grave che nuovo.

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