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<< adorno Latino et belle ragioni riprova tutti i vulgari d'Italia. Questo Dante per suo sapere «fu alquanto presuntuoso et schifo et isde«gnoso, et quasi a guisa di Philosopho mal gratioso non bene sapeva conversare co' Laici, « ma per l'altre sue virtudi et scientia et valore

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di tanto Cittadino ne pare, che si convenga « di darli perpetua memoria in questa nos<< tra Cronica, con tutto che per le sue nobili « opere lasciate a noi in iscritture facciasi di lui vero testimonio et honorabile fama alla « nostra Città. » La taccia d'uom troppo libero nel favellare e di costumi alquanto aspri e spiacevoli gli si appone ancora da Domenico d' Arezzo e da Secco Polentone ( Ap. Mehus l. c. p. 169, 175). Al qual carattere Benvenuto da Imola aggiugne (l. c. p. 1209) quello di una singolar astrazione di mente, allorquando immergevasi nello studio, e ne reca in pruova ciò che gli avvenne in Siena, ove essendosi abbattuto a trovar nella bottega di uno speziale un libro da lui fin allora inutilmente cercato, appoggiato a un banco si pose a leggerlo con tale attenzione, che da nona sino a vespero si stette ivi immobile, senza punto avvedersi dell' immenso strepito che menava nella contigua strada un accompagnamento di nozze, che di colà venne a passare.

Il Villani nel passo da me recato ci parla di quasi tutte l'opere che ci son rimaste di Dante. Io non farò che accennare le più importanti notizie intorno alle altre, per istendermi alquanto più su quella a cui sola egli è debitore del nome di cui gode tuttora fra' dotti. La Vita nuova è una storia de' giovanili suoi amori con Beatrice, frammischiata a diversi componimenti che per essa compose. Il Comento su quattordici sue canzoni, di cui parla il Villani, è quella opera che vien detta il Convivio, la qual però fu da lui lasciata imperfetta, poichè non comprende che tre sole canzoni col lor comento. Il libro de Monarchia fu da lui scritto in latino, e in esso prese a difendere i diritti imperiali, e scrisse perciò di essi e dell'autorità della Chiesa, come poteva aspettarsi da un Gibellino, che dal contrario partito riconosceva il suo esilio e tutte le sue sventure. In latino pure egli scrisse i libri de Vulgari Eloquentia, i quali, essendo dapprima usciti alla luce solo nella lor traduzione italiana, furon creduti supposti a Dante; nè si riconobbero come opera di lui, se non quando ne fu publicato l' original latino in Parigi nel 1577. Abbiamo ancora di Dante la traduzione in versi italiani de' Salmi Penitenziali, del Simbolo Apostolico, dell' Orazione Domenicale c

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di altri simili cose sacre; le quai poesie, troppo diverse della Divina Commedia, sono state di nuovo date alla luce dall' abate Quadrio l'anno 1752. Delle quali opere, e di alcune contese, a cui esse han data occasione, delle lettere scritte da Dante, delle poesie italiane e latine, e di una canzon provenzale che di lui abbiamo, veggansi le tante volte lodate Memorie del sig. Pelli (S. 17 e 18.); a cui però io debbo aggiugnere che le poesie sacre che vanno unite a' Salmi Penitenziali tradotti da Dante, credonsi dal celebre Apostolo Zeno non già di Dante, ma o di Antonio dal Beccaio Ferrarese, o di qualche altro poeta contemporaneo del Petrarca (Lettere t. 1. p. 91.) lo passo senz' altro a dire del gran lavoro a cui egli volle dare il nome di Commedia. Essa è, come è noto ad ognuno, la descrizione di una visione, in cui finge di essere stato condotto a veder l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. E checchessia del tempo in cui ei la scrivesse, di che si è detto poc' anzi, è certo ch' ei finge di averla avuta l'anno 1300 dal lunedì santo fino al solenne giorno di Pasqua, come dai vari passi di essa raccogliesi chiaramente. Per qual ragione ei volesse così chiamare un'opera a cui pareva che tutt' altro titolo convenisse, si è lungamente e nojosamente disputato da molti,

La più probabile origine di questo nome a me sembra quella che si adduce dal marchese Maffei, e prima di lui era stata recata da Torquato Tasso (V. Pelli §. 17.), cioè che avendo Dante distinti tre stili, il sublime da lui detto tragico, il mezzano ch'ei chiamò comico, e l'infimo ch'ei disse elegiaco, diede il titolo di Commedia al suo poema, perchè ei si prefisse di scriverlo nello stile di mezzo. Ma non così ne han giudicato i più saggi discernitori del bello e del sublime poetico, che han rimirato e rimiran tuttora la Commedia di Dante, come uno de' più maravigliosi lavori che dall' umano ingegno si producesser giammai. Lasciamo stare l'erudizione per quei tempi vastissima, che vi s'incontra, per cui Dante è stato detto a ragione profondo teologo non meno che filosofo ingegnoso, poichè egli mostra di aver appreso quanto in quelle scienze poteasi allora apprendere, e consideriamo la Commedia di Dante solo in quanto ella è poesia. Io so che essa non è nè commedia, nè poema epico, nè alcun altro regolare componimento. E qual maraviglia s'essa non è ciò che Dante non ha voluto che fosse? So che vi si leggon sovente cose inverisimili e strane; che le imagini sono talvolta del tutto contro natura; ch' ei fa parlare Virgilio in

modo cui certo ei non avrebbe tenuto; che molto vi ha di languido, e che di alcuni Canti appena si può sostener la lettura; che i versi hanno spesso spesso un' insofferibil durezza, e che le rime non rare volte sono così sforzate e strane che ci destano alle risa; che in somma Dante ha non pochi e non leggeri difetti che da niun uomo, il qual non sia privo di buon senso, potranno giammai scusarsi. Ma, in mezzo a tutti questi difetti, non possiamo a meno di non riconoscere in Dante tai pregi che sarebbe a bramare di vederli ne' nostri poeti più spesso che non si veggono. Una vivacissima fantasia, un ingegno acuto, uno stile a quando a quando sublime, patetico, energico che ti solleva e rapisce, imagini pittoresche, fortissime invettive, tratti teneri e passionati, ed altri somiglianti ornamenti onde è fregiato questo, o poema, o, comunque vogliam chiamarlo, lavoro poetico, sono un ben abbondante compenso de' difetti e delle macchie che in esso s'incontrano. E assai più chiaramente vedremo qual lode debbasi a Dante, se poniam mente a' tempi in cui egli visse. Qual era stata fin allora la poesia italiana? Poco altro più che un semplice accozzamento di parole rimate, con sentimenti per lo più languidi e freddi, e tutti comunemente

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