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d'amore, ovver precetti morali, ma esposti senza una scintilla di fuoco poetico. Dante fu il primo che ardisse di levarsi sublime, di cantar cose a cui niuno avea ardito rivolgersi, di animare la poesia e di parlare un linguaggio sin allora non conosciuto. Ammiriam dunque in lui ciò che anche al presente è più facile ammirar che imitare; e scusiamo in lui que' difetti che debbonsi anzi attribuire al tempo in cui visse il poeta, che al poeta medesimo. Io non entrerò qui a rigettare i sogni del p. Arduino che pretese di togliere a Dante la gloria di questo lavoro (Mém. de Trév. 1717, août), e se pur essi han bisogno di confutazione, ciò è stato già fatto dall'eruditissimo sig. marchese ab. Giuseppe Scarampi ora degnissimo vescovo di Vigevano (Innanzi al t. 1 dell' ediz. di Dante in Ver. 1749). Solo non è da omettere che Dante avea cominciata quest'opera in versi latini, e oltre i tre primi versi che il Boccaccio ne recita nella Vita di lui, alcuni codici si conservano che ne hanno un numero anche maggiore (V. Pelli loc. cit. S. 17 p. 111 nota 3). Ma ei fu saggio in mutare consiglio; poichè verisimilmente egli avrebbe ottenuta fama minore assai scrivendo in latino, come è avvenuto al Petrarca.

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Appena la Commedia di Dante fu publi

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cata, ch'ella divenne tosto l'oggetto dell' ammirazione di tutta l'Italia. E ne son pruova non solo i moltissimi codici che ne abbiamo, scritti in quel secol medesimo, ma più ancora i comenti con cui molti presero ad illustrarla. E tra' primi a farlo furono, come ben conveniva, Pietro e Jacopo figliuoli di Dante, delle cui fatiche sopra il poema del del padre, che ancor si giacciono inedite, parlano il sig. Pelli (§. 4) e l'ab. Mehus (Vita Ambr. camald. p. 180), il qual secondo scrittore accenna ancora (Ib. e p. 137) i Comenti di Accorso de' Bonfantini Francescano, di Micchino da Mezzano canonico di Ravenna, di un anonimo che scrivea nel 1334, e di più altri spositori di Dante in questo secol medesimo. Giovanni Visconti arcivescovo e signor di Milano circa l'anno 1350 radunò sei de' più dotti uomini che fossero in Italia, due teologi, due filosofi e due di patria Fiorentini, e commise loro che un ampio comento scrivessero sulla Commedia di Dante, di cui al presente conservasi copia nella Biblioteca Laurenziana in Firenze (Mehus loc. cit.). Chi fossero questi comentatori, non è ben certo; ma il Mehus paragonando il comento che Jacopo dalla Lana in questo medesimo secolo scrisse su Dante, e che vedesi anche alle stampe, e le Chiose sullo

stesso poeta attribuite al Petrarca, che nella citata biblioteca si trovano, ne congettura che amendue fosser tra quelli, che vennero in tal lavoro impiegati. L'ab. de Sade però si crede ben fondato a pensare ( Mém. de Petr. t. 3. p. 515.), che il Petrarca non iscrivesse comento alcuno su Dante. Il fondamento, a cui egli si appoggia, è una lettera del Petrarca al Boccaccio, che trovasi nell'edizione delle Lettere di questo poeta, fatta in Ginevra l'anno 1601, in cui egli si duole di esser creduto invidioso della fama di Dante. Ei veramente non nomina mai questo poeta, ma, a parere dell'ab. de Sade, parla in tal modo ch'è evidente che parla di Dante. Ei dunque, rispondendo al Boccaccio che lodato avea questo poeta, gli dice ch'egli è ben giusto ch'ei si mostri grato a colui, ch'è stato la prima guida ne' suoi studi; che ben dovute sono le lodi di cui l'onora; ch'esse sono assai più pregevoli degli applausi del volgo; e che egli stesso con colui si congiunge a lodar quel poeta volgare nello stile, ma nobilissimo ne' pensieri. Quindi si duole di ciò che spargeasi, ch'ei fosse invidioso del gran nome di cui quegli godeva; dice ch' ei non l'avea veduto che una volta sola essendo fanciullo, o a dir meglio, che una volta gli era stato mostrato a dito; che quegli

avea vissuto con suo padre e con suo avolo, più vecchio del primo, più giovane del secondo; e che suo padre e quel poeta erano stati nel medesimo giorno espulsi dalla lor patria. Poscia confessa, ch'ei non erasi guari curato di averne le poesie, non perchè non le avesse in gran pregio, ma perchè essendosi allor dato a verseggiar volgarmente, temeva di divenir copiatore, se avesse lette le altrui poesie, e avea risoluto di formarsi uno stile che fosse tutto suo proprio e originale. Siegue indi a replicare mille proteste ch'ei non ne è punto invidioso, che stima e apprezza moltissimo quel poeta, e che gli spiace anzi il vederne i versi sì sconciamente sfigurati da coloro che per le vie gli andavano canticchiando. Nel qual parlare però osserva l'ab. de Sade, che vedesi un non so che di sforzato, per cui quanto più il Petrarca si studia di persuaderci che ei non era punto invidioso, anzi che toglierlo, ci accresce il sospetto ch'ei veramente il fosse alquanto; e da ciò ne ricava il medesimo autore, che non è punto probabile che il Petrarca si facesse a scrivere comenti su Dante. Dopo aver recata quasi interamente questa lunghissima lettera, l'ab. de Sade si volge agl' Italiani, e si maraviglia che niuno tra essi abbia fatta di essa menzione, e con un amaro

insulto conchiude: il faut avouer, qu'il y a dans votre littérature des choses singulières, et tout-àfait inconcevables (p. 514). A me sembra però, ch'ei non avesse a maravigliarsi cotanto che gl' Italiani non avesser parlato di questa lettera che non si trova che nella edizione assai rara del 1601, e in cui Dante non è espressamente nominato. Io non ho veduta questa edizione, nè posso perciò giudicare se questa lettera sia veramente secondo lo stil del Petrarca, poichè lo scrittor francese non ce l'ha data che in francese. Ma io confesso che incontro in essa qualche difficoltà, la quale vedrei volentieri sciolta dall' ab. de Sade. Io lascio da parte una contraddizione in cui cade il Petrarca, s' egli è autor della lettera, poichè dopo aver detto che i suoi proprj versi italiani sono abbandonati al popolo, il quale gli sfigura cantandoli, poco appresso dice ch'ei non invidia a Dante gli applausi del volgo, de' quali gode di essere privo con Virgilio e con Omero. Lascio quel vantarsi ch' ei fa di aver voluto essere scrittor originale, il che non mi pare proprio del pensar del Petrarca ch'è sempre modesto nel parlar di se stesso. Ma due errori io trovo in questa lettera, i quali non so persuadermi che si potessero commettere dal Petrarca. Si dice in essa che il padre de

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