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Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero

Dell' aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe palese; e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo

Magnanimo colui

Che sè schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli asti il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell' alma generoso ed alto,
Non chiama sè nè stima

Ricco d' ôr nè gagliardo,

E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente

Non fa risibil mostra;

Ma sè di forza e di tesor mendico

Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.

Magnanimo animale

Non credo io già, ma stolto

Quel che, nato a perir, nutrito in pene,

Dice, a goder son fatto.

E di fetido orgoglio

Empie le carte, eccelsi fati e nove

Felicità, quali il ciel tutto ignora,

Non pur quest' orbe, promettendo in terra

A popoli che un' onda

Di mar commosso, un fiato

D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, ch' avanza

A gran pena di lor la rimembranza.

Nobil natura è quella

Ch' a sollevar s'ardisce

Gli occhi mortali incontra

Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,

Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;

Quella che grande e forte

Mostra sè nel soffrir, nè gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi

D'ogni altro danno, accresce

Alle miserie sue, l'uomo incolpando

Del suo dolor, ma dà la colpa a quella

Che veramente è rea, che de' mortali
È madre in parto ed in voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,

Siccom'è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,

Tutti fra sè confederati estima

Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo

Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese

Dell' uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,

Stolto crede così, qual fôra in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,

Gl' inimici obbliando, acerbe gare

Imprender con gli amici,

E sparger fuga e fulminar col brando

Infra i propri guerrieri.

Così fatti pensieri

Quando fien, come fur, palesi al volgo,

E quell' orror che primo

Contra l'empia natura

Strinse i mortali in social catena

Fia ricondotto in parte

Da verace saper, l' onesto e il retto

Conversar cittadino,

E giustizia e pietade altra radice

Avranno allor che non superbe fole,

Ove fondata probità del volgo

Così star suole in piede

Quale star può quel c'ha in error la sede.

Sovente in queste piagge,

Che, desolate, a bruno

Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, Seggo la notte; e su la mesta landa

In purissimo azzurro

Veggo dall' alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio

Il mare, e tutto di scintille in giro

Per lo vôto seren brillare il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Ch' a lor sembrano un punto,

E sono immense in guisa

Che un punto a petto a lor son terra e mare

Veracemente; a cui

L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l' uomo è nulla, -

Sconosciuto è del tutto: e quando miro
Quegli ancor più senz' alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,

Ch' a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,

Del numero infinite e della mole,

Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle

O sono ignote, o così paion come

Essi alla terra, un punto

Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole

Dell' uomo? E rimembrando

Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

Il suol ch' io premo; e poi dall' altra parte,
Che te signora e fine

Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, e in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell' universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co' tuoi piacevolmente; e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume

Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m' assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d' arbor cadendo un picciol pomo, Cui là nel tardo autunno

Maturità senz' altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi
Cavati in molle gleba

Con gran lavoro, e l' opre,

E le ricchezze ch' adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre

In un punto; così d'alto piombando,
Dall' utero tonante

Scagliata al ciel profondo

Di ceneri, di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa

Di bollenti ruscelli,

O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba

Di liquefatti massi

E di metalli e d' infocata arena

Scendendo immensa piena,

Le cittadi che il mar là su l'estremo

Lido aspergea, confuse

E infranse e ricoperse

In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove

Sorgon dall' altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura

L' arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme

Dell' uom più stima o cura

Ch' alla formica e se più rara in quello
Che nell' altra è la strage,

Non avvien ciò d'altronde

Fuor che l' uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento

Anni varcâr poi che spariro, oppressi
Dall' ignea forza, i popolati seggi,

E il villanello intento

Ai vigneti che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,

Ancor leva lo sguardo

Sospettoso alla vetta

Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso

Il meschino in sul tetto

Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall' inesausto grembo

Sull' arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina

E di Napoli il porto e Mergellina.

E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato

Suo nido, e il picciol campo

Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge,

inesorato

Durabilmente sopra quei si spiega.
Torna al celeste raggio,

Dopo l'antica obblivion, l' estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra

Avarizia o pietà rende all' aperto;
E dal deserto fôro

Diritto infra le file

De' mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,

Ch' alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell' orror della secreta notte
Per li vacui teatri,

Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face

Che per vôti palagi atra s' aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre

Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

Così, dell' uomo ignara, e dell' etadi

Ch' ei chiama antiche, e del seguir che fanno Dopo gli avi i nepoti,

Sta natura ognor verde, anzi procede

Per si lungo cammino,

Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l' uom d'eternità s' arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,

Che di selve odorate

Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco

Già noto, stenderà l' avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:

Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove

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