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l'uomo dee ritrarre innanzi tutto. E non ostanti i suoi sterminati studi, soleva dire che quando lo scrittore toglie la penna, dee dimenticare il più possibile che vi è libri e sapere al mondo, e dee manifestare il puro e spontaneo concetto della sua mente.

Estimava assai più difficile l' eccellente prosa che gli cecellenti versi, perchè diceva, che gli uni somigliano una donna riccamente abbigliata, l' altra una donna ignuda. E profondamente consapevole di poter tutto scrivendo, sembrava quasi trastullarsi colle più difficili difficoltà della prosa italiana. Per questo e per la carità che, in mezzo a un giusto disdegno, egli ebbe pur sempre alla cara patria, inclinatosi a mostrare negli Spogli (onde poi il solertissimo Manuzzi fece sì prezioso tesoro nel suo gran vocabolario), nella Crestomazia italiana e nell' Interpretazione del Petrarca, come s'abbia a studiare la lingua, lo stile e il sentimento dei grandi scrittori; dopo essersi esercitato a diletto nei latini, imprese a volgarizzare i greci da senno. Egli mostrò nel Manuale di Epitteto, nei Discorsi morali d' Isocrate, nella Favola di Prodico e in un Frammento dell' Impresa di Senofonte, che così come a nessun greco era ancora seguito di rivivere nella lingua italiana, così a tutti sarebbe possibile, solo che a far rivivere i grandi ingegni attendessero solo i grandi ingegni. Se non era la congenita malattia, l' intempestiva morte e, forse, la mistica diversità onde questi due divini ingegni contemplarono l'universo, non è dubbio ch' egli avrebbe attinto Platone. E Platone, fatto rivivere in Italia da un Leopardi, avrebbe segnata una grande e nuova èra delle lettere italiane.

Considerato, per tal modo, questo portentoso ingegno, non solo, quanto è stato possibile, nella sua propria essenza, ma ancora nelle varie forme onde si è venuto di mano in mano palesando, è tempo ormai di considerar l' uomo tutto insieme nelle sue attenenze, o accidentali o naturali, sia cogli altri uomini sia con sè medesimo; e, in somma, ne' suoi successi e ne' suoi costumi.

Nato sulla cima di un monte (dove l'antico Piceno si piacque di porre le sue città), d'una famiglia gentile, costumata e religiosa, la tenerezza paterna e fraterna, il cielo, le stelle, la luna nascente dall' acque e il sole cadente dietro le lontane vette dell' Apennino, furono i suoi primi sentimenti e le sue prime gioie. Egli si preparò alla vita come a un giorno festivo; e le sue prime parole furono una benedizione degli uomini e della natura che parevano così carezzevolmente accompagnarlo. Ma poi che la provetta età e la smisurata altezza del suo ingegno gli ebber renduta più necessaria la grandezza dei concittadini che la bontà dei consanguinei, ed il male inemendabile che poscia l' estinse, gli ebbe penetrato

talmente l'ossa e le midolle che le nevi della montagna non gli furono più sopportabili, nell' acerbezza de' suoi dolori, egli si chiamò tradito da quegli uomini e da quella natura stessa che aveva già benedetta, dispregiò gli uni e maledisse l' altra; e, benchè insino alle lacrime dolentissimo de' suoi cari congiunti, il più costante desiderio della sua vita fu d' andarne a vivere altrove.

Spinto da così fieri stimoli, nel novembre del 22 venne a Roma, dove contemplò avidamente nelle eterne cose quella più che umana antichità ch' egli aveva tanto contemplata negli eterni volumi. Poscia s' involse non meno avidamente fra i codici, massime della Barberiniana, v' imprese un catalogo dei manoscritti greci, ed altri gravi e stupendi lavori; e se la natura e la fortuna non gli avessero così iniquamente mancato, l'immortale Mai, ch' egli tanto e tanto meritamente ammirò, non sarebbe stato più solo. Visitato e carezzato a ventiquattro anni dai più gravi oltramontani che dimoravano allora in quella città, il sommo Niebuhr faceva pubblica fede al mondo della presente futura grandezza del giovane recanatese; ed in nome della dottissima Germania, che egli così nobilmente rappresentava, gli offerì indarno in Prussia, quel che non gli avrebbe offerto indarno e mai non gli offerò l' infelicissima Italia, una cattedra di filosofia greca. Poscia, vagando tuttavia solitario, interrogò lungamente quei silenzi e quelle ruine, e lungamente, in sul tramonto del dì, pianse, al lontano pianto delle campane, la passata e morta grandezza. E nel maggio del 23 si ritrasse mesto e taciturno alla solitudine natia.

Quivi, mentre l' inesorabile natura avanzava, senza mai posare, nel suo mortifero lavoro, egli pianse, oltre a due anni, i desiderii e le speranze perdute; e nel luglio del 25 gli parve trarsi dagli artigli della morte quando viaggiò, per Bologna, a Milano, dove il tipografo Stella l'invocava come prezioso ed inesausto tesoro di erudizione. Quindi gl'indizi e la fama anticipata d' un gran freddo futuro lo risospinsero a Bologna, ch' era stanza allora d' ospitalità, d' onesta letizia e di sapere. In Bologna, com'è variata Italia nella sua divina bellezza, s' innebriò di cordialità, non altrimenti che in Roma s'era innebbriato di grandezza; v' attese con diletto alla correzione delle sue poesie, che si stampavano quivi stesso, e delle sue prose, che si stampavano in Milano: e (salva una breve corsa a Ravenna, ove si compiacque di contemplare gli ultimi aneliti dell' antichità) vi dimorò insino al novembre del 26, che si rimise in Recanati.

Ma quell' incomprensibile, e quasi più che umano, dolore, che fu principio e fine di tutto l' essere del Leopardi, non lo lasciava mai riposare fra le dolcezze familiari, che sono pur sempre o il maggior bene o il minor male che gli uomini

s' abbiano sulla terra. Dall' abisso medesimo del suo dolore egli aspirava, per l' insanabile instinto della specie umana, a quella felicità onde aveva letto, cantato e discorso il vano e il nulla. E sempre dietro al suo fuggitivo fantasma, ripartiva novamente di colà dove pur dianzi, disperato di raggiungerlo, s'era tornato. Nell' aprile del 27 si ricondusse a Bologna, donde, dopo due mesi, si recò a Firenze.

Ivi gli si scoperse una nuova scena: non la romana; non la lombarda: ma una più bella ed incantevole; e pure sempre italiana. L'olezzo de' fiori, l'armonia della lingua, la grazia inenarrabile delle donne, l' innocenza del reggimento, le curve svelte e, per così dire, aeree dell' architettura, un non so che di carezzevole e di casalingo che gli parve arcanamente scusare le pareti domestiche, un non so che d' attico e di leggiadro ch' egli aveva creduto insino allora un' idea ed ora la trovava una cosa sensibile ed esistente, gli rappresentarono un sogno leggerissimo ond' egli sorvolò più mesi il suo dolore ed oso novamente credere alla felicità. E recatosi nel novembre in Pisa, la pace, la quiete, il dilettoso silenzio, l' allegra solitudine e i soli tepidi e quasi orientali dell' inverno e della primavera sopravvegnente, gl' infusero un nuovo raggio di vita; e la speranza rinasceva nel suo cuore impietrito come l'erba e i fiori fra le lastre di quelle vie. Nel giugno seguente ritornò in Firenze, e sospirato assai più angosciosamente di Vittorio, che il mondo non fosse tutto Toscana, si ridusse, fra le malinconie del novembre, a Recanati.

Quivi, nell' orribile inverno trascorso fra il 29 e il 30, gli s'agghiacciarono l'ultima volta i sospiri sulle labbra e le lacrime sugli occhi. Si cantò da sè stesso il canto della morte nelle Ricordanze, e poi risorto, nella primavera, si ricantò da sè stesso il Risorgimento. E stretti l'ultima volta al suo cuore i suoi cari genitori, i suoi fratelli, Carlo (il suo, più che fratello, amico) e la sua celeste sorella Paolina, se ne svelse dolorosamente, per non doverli mai più rivedere sulla

terra.

Riviaggiò, fra l' aprile e il maggio, per Bologna a Firenze, con animo di fermarsi quivi indefinitamente. Si riparavano allora in quella ospitale città, per elezione o per destino, quanto viveva d' uomini più virtuosi e sapienti in tutta la sventurata Italia. Si stringeva la nobilissima e peregrina colonia intorno a Giovan Batista Niccolini, Gino Capponi e Giuliano Frullani, nobilissimo ed innocente triumvirato paesano, deputato a mostrare quel che fosse ultimo nella scienza e nella virtù, come i due antichi triumvirati quel che fosse ultimo nella malvagità e nella tirannia. Il Leopardi svisceratamente amò i peregrini e i paesani, e svisceratamente ne fu riamato ed agli uni ed agli altri, sotto il dolcissimo nome di

suoi amici di Toscana, dedicò tutti i suoi più preziosi tesori, le sue poesie e le sue prose nella bella edizione che ne diede, e il suo alto dolore nell' affettuosa lettera che vi prepose.

Ma nè gli amici, nè la primavera o la state, nè la Toscana stessa e i suoi incanti, valsero a fermare o a pur mitigare l'improba mano della matrigna natura, che veniva da sè stessa spietatamente distruggendo il più delicato de' suoi lavori. Il male del Leopardi era indefinibile, perchè, consistendo nelle più riposte fonti della vita, era, come la vita stessa, inesplicabile. Le ossa si rammollivano e disfacevano ogni di più, e negavano il loro ancorchè debole sostegno alle misere carni che le ricoprivano. Le carni stesse dimagravano e isterilivano ogni dì, perchè i visceri del nutrimento ne rifiutavano loro l'assimilazione. I polmoni, stretti in troppo angusto spazio, e parte non sani, si dilatavano a fatica. A fatica il cuore si sprigionava dalla linfa, onde uno stanco riassorbimento lo gravava. Il sangue, che mal si rinnovava nello stentato ed affannoso respiro, si rivolgeva freddo, bianco e lentissimo per le vene affievolite. E, in somma, tutto il misterioso circolo della vita, che a così grande stento si moveva, sembrava ad ora ad ora di dover fermare per sempre. Forse che la grande spugna cerebrale, principio è fine di quel misterioso circolo, aveva succhiato prepotentemente tutte le forze vitali, e consumato, ella sola, e in poco d'ora, quel ch' era destinato a bastare, e per gran tempo, al tutto. Ma, che che si sia, la vita del Leopardi non era più un correre, come in tutti gli uomini, ma più veramente un precipitare verso la morte.

Valicato, per un gran mare di dolore materiale ed intellettuale, tutto l'inverno fra il 30 e il 31, afferrò l' invocata primavera, e parve ancora qualche momento risorgere. Ma la sopravvegnente estate l'aggravò sì fattamente, che l' approssimare dell' autunno e, più ancora, dell' altro inverno, empì gli amici di spavento. I quali consigliatolo di ridursi a passare in Roma le due temute stagioni, vi si ridusse docilmente ai primi dì dell' ottobre. E sospirata alcun dì la grazia e la leggiadria toscana, dopo che si fu riavuto e rifatto di quell'aria e di quella luce, ricominciò l'antico vagare per quelle eterne bellezze, e un dì, pronunziò sorridendo, che s' era riconciliato con Roma. Non gli accadde, a questa volta, di fremere o di piangere, perchè l' età del fremito e del pianto era fuggita: ma sorrideva amaramente del tristo fine a cui riesce ogni cosa più grande e dei fastidiosi e lugubri vermi che si generano dalla putrefazione dei più nobili cadaveri. E nondimeno non conobbe mai una primavera toscana chi non intende che ai primi fiori ch' egli vide spuntare fra quelle ruine, desiderò irresistibilmente di ricondursi in Firenze dove giunse in effetto sul primo appropinquare dell' aprile.

Quivi, finchè i germi di vita e di sanità che gli si erano innestati nel Mezzodì prosperarono, traversò recipientemente la primavera e la state. E fu talora che, nell' ebbra stupefazione di quell' aure odorose ed incantatrici, sospirò l' ultima volta a una felicità sovrumana alla quale non giunse mai nessun uomo, e dalle cui ombre (quando l'autunno e il verno ebbero mortificate quell' aure e consumati e uccisi quei germi) precipitò nelle più atroci realtà dell' inesorabile morbo che lo distruggeva.

Se Roma ha potuto tanto, che cosa non potrà Napoli?.... Questo fu il pensiero che soccorse alla mente de' suoi medici e de' suoi più affezionati amici, in tanta disperazione d'ogni altro umano rimedio. Nè egli fu già duro o indocile al loro affetto e scampato, come per miracolo, dai rigori dell' inverno, e veduto, nella primavera e nell' estate seguente, che nè quei fiori nè quelle grazie erano più bastanti a mitigare la fierezza de' suoi mali, in sui primi dì di settembre del 33 si partì, che sentiva tuttavia di febbre, di Firenze, e, venuto a piccolissime giornate per la via di Perugia, lasciò la febbre agli alberghi, e pervenne, mediocremente sollevato, in Roma. Quivi dimorò il rimanente del settembre; ed, abbracciato, per l' ultima volta, il suo amorosissimo cugino Melchiorri, giunse in Napoli il secondo dì dell' ottobre.

Quivi è incredibile a dire quanto si confortasse e si ricreasse di quella stagione, dell' aere e di quel vivere rigoglioso ed allegro. Abitò comunemente il poggio suburbano di Capodimonte: se non se il maggio e l' ottobre, che si riduceva a un casinuccio in su le falde del Vesuvio. Minacciato, per istrana vicenda, ora di tisico, ora d'idropisia, schermiva alternatamente l' una colla sottigliezza dell' aria del Vesuvio, l' altro colla dolcezza dell' aria di Capodimonte. Passeggiava ora per Toledo, ora lungo il curvo e spazioso lido del mare. Visitava assai frequentemente ora Mergellina e Posilipo, ora Pozzuoli e Cuma. Scendeva da Capodimonte alle catacombe, e dal Vesuvio a Pompei o ad Ercolano: e come in Roma aveva apostrofato agli antichi o in mezzo al fôro o sotto gli archi trionfali, quivi ragionava dimesticamente con loro nelle loro più segrete stanze e nei loro ricetti più occulti.

La novità e la salubrità squisitissima dell' aria, l'affettuosa compagnia di alcuni paesani, la visitazione continua e diversa di tutti i più dotti stranieri ch' ivi abbondantemente capitavano, e quel suo nuovo vivere aperto e sciolto e al tutto fuori dell' uso della sua abituale disposizione, parvero allentare, e forse allentarono effettivamente, per quattro lunghi anni, l'operosa e instancabile attività del malore. Egli riebbe miracolosamente l' ordinato esercizio di molte operazioni vitali che insino dalla prima infanzia aveva provate disordinatissime;

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