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maggior diletto si poteva trarre dagli studi della virtù e della gloria, che dall' ozio, dalla negligenza, e dall' uso delle voluttà del corpo; nelle quali cose quegli riponeva il sommo bene degli uomini. Ed affermava che la dottrina epicurea, proporzionatissima all' età moderna, fu del tutto aliena dal

l'antica.

Nella filosofia, godeva di chiamarsi socratico; e spesso, come Socrate, s'intratteneva una buona parte del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e massime con alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era somministrata dall' occasione. Ma non frequentava, come Socrate, le botteghe de' calzolai, de' legnaiuoli, de' fabbri e degli altri simili; perchè stimava che se i fabbri e i legnaiuoli di Atene avevano tempo da spendere in filosofare, quelli di Nubiana, se avessero fatto altrettanto, sarebbero morti di fame. Nè anche ragionava, al modo di Socrate, interrogando e argomentando di continuo; perchè diceva che, quantunque i moderni sieno più pazienti degli antichi, non si troverebbe oggi chi sopportasse di rispondere a un migliaio di domande continuate, e di ascoltare un centinaio di conclusioni. E per verità non avea di Socrate altro che il parlare talvolta ironico e dissimulato. E cercando l'origine della famosa ironia socratica, diceva: Socrate nato con animo assai gentile, e però con disposizione grandissima ad amare; ma sciagurato oltre modo nella forma del corpo; verisimilmente fino nella giovanezza disperò di potere essere amato con altro amore che quello dell' amicizia, poco atto a soddisfare un cuore delicato e fervido, che spesso senta verso gli altri un affetto molto più dolce. Da altra parte, con tutto che egli abbondasse di quel coraggio che nasce dalla ragione, non pare che fosse fornito bastantemente di quello che viene dalla natura, nè delle altre qualità che in quei tempi di guerre e di sedizioni, e in quella tanta licenza degli Ateniesi, erano necessarie a trattare nella sua patria i negozi pubblici. Al che la sua forma ingrata e ridicola gli sarebbe anche stata di non piccolo pregiudizio appresso a un popolo che, eziandio nella lingua, faceva pochissima differenza dal buono al bello, e oltre di ciò deditissimo a motteggiare. Dunque in una città libera, e piena di strepito, di passioni, di negozi, di passatempi, di ricchezze e di altre fortune; Socrate povero, rifiutato dall' amore, poco atto ai maneggi pubblici; e nondimeno dotato di un ingegno grandissimo, che aggiunto a condizioni tali, doveva accrescere fuor di modo ogni loro molestia; si pose per ozio a ragionare sottilmente delle azioni, dei costumi e delle qualità de' suoi cittadini: nel che gli venne usata una certa ironia; come naturalmente doveva accadere a chi si trovava impedito di aver parte, per dir così, nella vita. Ma la mansuetudine e la

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magnanimità della sua natura, ed anche la celebrità che egli si venne guadagnando con questi medesimi ragionamenti, e dalla quale dovette essergli consolato in qualche parte l' amor proprio; fecero che questa ironia non fu sdegnosa ed acerba, ma riposata e dolce.

Così la filosofia per la prima volta, secondo il famoso detto di Cicerone, fatta scendere dal cielo, fu introdotta da Socrate nella città e nelle case; e rimossa dalla speculazione delle cose occulte, nella quale era stata occupata insino a quel tempo, fu rivolta a considerare i costumi e la vita degli uomini, e a disputare delle virtù e dei vizi, delle cose buone ed utili, e delle contrarie. Ma Socrate da principio non ebbe in animo di fare quest' innovazione, nè d'insegnar che che sia, nè di conseguire il nome di filosofo: che a quei tempi era proprio dei soli fisici o metafisici; onde egli per quelle sue tali discussioni e quei tali colloqui non lo poteva sperare: anzi professò apertamente di non saper cosa alcuna: e non si propose altro che d' intrattenersi favellando dei casi altrui; preferito questo passatempo alla filosofia stessa, niente meno che a qualunque altra scienza ed a qualunque arte, perchè inclinando naturalmente alle azioni molto più che alle speculazioni, non si volgeva al discorrere, se non per le difficoltà che gl' impedivano l'operare. E nei discorsi, sempre si esercitò colle persone giovani e belle più volentieri che cogli altri; quasi ingannando il desiderio, e compiacendosi d' essere stimato da coloro da cui molto maggiormente avrebbe voluto essere amato. E perciocchè tutte le scuole dei filosofi greci nate da indi in poi derivarono in qualche modo dalla socratica, concludeva l' Ottonieri, che l'origine di quasi tutta la filosofia greca, dalla quale nacque la moderna, fu il naso rincagnato, e il viso da satiro, di un uomo eccellente d' ingegno e ardentissimo di cuore. Anche diceva, che nei libri dei Socratici, la persona di Socrate è simile a quelle maschere, ciascuna delle quali nelle nostre commedie antiche ha da per tutto un nome, un abito, un' indole; ma nel rimanente varia in ciascuna commedia.

Non lasciò scritta cosa alcuna di filosofia, nè d' altro che non appartenesse a uso privato. E dimandandolo alcuni perchè non prendesse a filosofare anche in iscritto, come soleva fare a voce, e non deponesse i suoi pensieri nelle carte, rispose: il leggere è un conversare che si fa con chi scrisse. Ora, come nelle feste e nei sollazzi pubblici, quelli che non sono o non credono di essere parte dello spettacolo, prestissimo si annoiano; così nella conversazione è più grato generalmente il parlare che l'ascoltare. Ma i libri per necessità sono come quelle persone che stando cogli altri, parlano sempre esse, e non ascoltano mai. Per tanto è di bisogno che

il libro dica molto buone e belle cose, e dicale molto bene; acciocchè dai lettori gli sia perdonato quel parlar sempre. Altrimenti è forza che così venga in odio qualunque libro, come ogni parlatore insaziabile.

CAPITOLO SECONDO.

Non ammetteva distinzione dai negozi ai trastulli; e sempre che era stato occupato in qualunque cosa, per grave che ella fosse, diceva d' essersi trastullato. Solo se talvolta era stato qualche poco d' ora senza occupazione, confessava non avere avuto in quell' intervallo alcun passatempo.

Diceva che i diletti più veri che abbia la nostra vita, sono quelli che nascono dalle immaginazioni false; e che i fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto.

Assomigliava ciascuno de' piaceri chiamati comunemente reali, a un carciofo di cui, volendo arrivare alla castagna, bisognasse prima rodere e trangugiare tutte le foglie. E soggiungeva che questi tali carciofi sono anche rarissimi; che altri in gran numero se ne trovano; simili a questi nel di fuori, ma dentro senza castagna; e che esso, potendosi difficilmente adattare a ingoiarsi le foglie, era contento per lo più di astenersi dagli uni e dagli altri.

Rispondendo a uno che l' interrogò, qual fosse il peggior momento della vita umana, disse: eccetto il tempo del dolore, come eziandio del timore, io per me crederei che i peggiori momenti fossero quelli del piacere: perchè la speranza e la rimembranza di questi momenti, le quali occupano il resto della vita, sono cose migliori e più dolci assai degli stessi diletti. E paragonava universalmente i piaceri umani agli odori: perchè giudicava che questi sogliano lasciare maggior desiderio di sè, che qualunque altra sensazione, parlando proporzionatamente al diletto; e di tutti i sensi dell' uomo, il più lontano da potere esser fatto pago dai propri piaceri, stimava che fosse l'odorato. Anche paragonava gli odori all' aspettativa de' beni; dicendo che quelle cose odorifere che sono buone a mangiare, o a gustare in qualunque modo, ordinariamente vincono coll' odore il sapore; perchè gustati piacciono meno ch'a odorarli, o meno di quel che dall'odore si stimerebbe. E narrava che talvolta gli era avvenuto di sopportare impazientemente l' indugio di qualche bene, che egli era già certo di conseguire; e ciò non per grande avidità che sentisse di detto bene, ma per timore di scemarsene il godimento con fare intorno a questo troppe immaginazioni, che glielo rappresentassero molto maggiore di quello che egli sarebbe riuscito. E che intanto aveva fatta ogni diligenza,

per divertire la mente dal pensiero di quel bene, come si fa dai pensieri de' mali.

Diceva altresì che ognuno di noi, da che viene al mondo, è come uno che si corica in un letto duro e disagiato: dove subito posto, sentendosi stare incomodamente, comincia a rivolgersi sull' uno e sull' altro fianco, e mutar luogo e giacitura a ogni poco; e dura così tutta la notte, sempre sperando di poter prendere alla fine un poco di sonno, e alcune volte credendo essere in punto di addormentarsi; finchè venuta l'ora, senza essersi mai riposato, si leva.

Osservando insieme con alcuni altri certe api occupate nelle loro faccende, disse: beate voi se non intendete la vostra infelicità.

Non credeva che si potesse nè contare tutte le miserie degli uomini, nè deplorarne una sola bastantemente.

A quella questione di Orazio, come avvenga che nessuno è contento del proprio stato, rispondeva: le cagione è, che nessuno stato è felice. Non meno i sudditi che i principi, non meno i poveri che i ricchi, non meno i deboli che i potenti, se fossero felici, sarebbero contentissimi della loro sorte, e non avrebbero invidia all' altrui: perocchè gli uomini non sono più incontentabili, che sia qualunque altro genere: ma non si possono appagare se non della felicità. Ora, essendo sempre infelici, che maraviglia è che non sieno mai contenti?

Notava che posto caso che uno si trovasse nel più felice stato di questa terra, senza che egli si potesse promettere di avanzarlo in nessuna parte e in nessuna guisa; si può quasi dire che questi sarebbe il più misero di tutti gli uomini. Anche i più vecchi hanno disegni e speranze di migliorar condizione in qualche maniera. E ricordava un luogo di Senofonte, dove consiglia che avendosi a comperare un terreno, si compri di quelli che sono male coltivati; perchè, dice un terreno che non è per darti più frutto di quello che dà, non ti rallegra tanto, quanto farebbe se tu lo vedessi andare di bene in meglio; e tutti quegli averi che noi veggiamo che vengono vantaggiando, ci danno molto più contento che gli

altri.

All' incontro notava che niuno stato è così misero, il quale non possa peggiorare; e che nessun mortale, per infelicissimo che sia, può consolarsi nè vantarsi, dicendo essere in tanta infelicità, che ella non comporti accrescimento. Ancorchè la speranza non abbia termine, i beni degli uomini sono terminati; anzi a un di presso il ricco e il povero, il signore e il servo, se noi compensiamo le qualità del loro stato colle as

1 Oeconom. cap. 20, § 23.

suefazioni e coi desiderii loro, si trovano avere generalmente una stessa quantità di bene. Ma la natura non ha posto alcun termine ai nostri mali; e quasi la stessa immaginativa non può fingere alcuna tanta calamità, che non si verifichi di presente o già non sia stata verificata, ó per ultimo non si possa verificare, in qualcuno della nostra specie. Per tanto, laddove la maggior parte degli uomini non hanno in verità che sperare alcuno aumento della quantità di bene che posseggono; a niuno mai nello spazio di questa vita può mancar materia non vana di timore; e se la fortuna presto si riduce in grado, che ella veramente non ha virtù di beneficarci da vantaggio, non perde però in alcun tempo la facoltà di offenderci con danni nuovi e tali da vincere e rompere la stessa fermezza della disperazione.

Ridevasi spesse volte di quei filosofi che stimarono che l'uomo si possa sottrarre dalla podestà della fortuna, disprezzando e riputando come altrui tutti i beni e i mali che non è in sua propria mano il conseguire o evitare, il mantenere o liberarsene; e non riponendo la beatitudine e l' infelicità propria in altro, che in quel che dipende totalmente da esso lui. Sopra la quale opinione, tra le altre cose, diceva: lasciamo stare che se anche fu mai persona che cogli altri vivesse da vero e perfetto filosofo, nessuno visse nè vive in tal modo seco medesimo; e che tanto è possibile non curarsi delle cose proprie più che delle altrui, quanto curarsi delle altrui come fossero proprie. Ma dato che quella disposizione d'animo che dicono questi filosofi, non solo fosse possibile, che non è, ma si trovasse qui vera ed attuale in uno di noi; vi fosse anche più perfetta che essi non dicono, confermata e connaturata da uso lunghissimo, sperimentata in mille casi; forse perciò la beatitudine e l'infelicità di questo tale non sarebbero in potere della fortuna? Non soggiacerebbe alla fortuna quella stessa disposizione d' animo, che questi presumono che ce ne debba sottrarre? La ragione dell' uomo non è sottoposta tutto giorno a infiniti accidenti? innumerabili morbi che recano stupidità, delirio, frenesia, furore, scempiaggine, cento altri generi di pazzia breve o durevole, temporale o perpetua; non la possono turbare, debilitare, stravolgere, estinguere? La memoria, conservatrice della sapienza, non si va sempre logorando e scemando dalla giovanezza in giù? quanti nella vecchiaia tornano fanciulli di mente! e quasi tutti perdono il vigore dello spirito in quella età. Come eziandio per qualunque mala disposizione del corpo, anco salva ed intera ogni facoltà dell' intelletto e della memoria, il coraggio e la costanza sogliono, quando più, quando meno, languire; e non di rado si spengono. In fine, è grande stoltezza confessare che il nostro corpo è soggetto alle cose che non sono

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