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in facoltà nostra, e contuttociò negare che l' animo, il quale dipende dal corpo quasi in tutto, soggiaccia necessariamente a cosa alcuna fuori che a noi medesimi. E conchiudeva, che l'uomo tutto intero, e sempre, irrepugnabilmente è in potestà della fortuna.

Dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo : a conoscere quanto sia più spediente il non esser nato.

CAPITOLO TERZO.

In proposito di certa disavventura occorsagli, disse: il perdere una persona amata, per via di qualche accidente repentino, o per malattia breve e rapida, non è tanto acerbo, quanto è vedersela distruggere a poco a poco (e questo era accaduto a lui) da una infermità lunga, dalla quale ella non sia prima estinta, che mutata di corpo e d'animo, e ridotta già quasi un' altra da quella di prima. Cosa pienissima di miseria; perocchè in tal caso la persona amata non ti si dilegua dinanzi lasciandoti, in cambio di sè, la immagine che tu ne serbi nell' animo, non meno amabile che fosse per lo passato; ma ti resta in sugli occhi tutta diversa da quella che tu per l'addietro amavi: in modo che tutti gl' inganni dell' amore ti sono strappati violentemente dall' animo; e quando ella poi ti si parte per sempre dalla presenza, quell' immagine prima, che tu avevi di lei nel pensiero, si trova essere scancellata dalla nuova. Così viene a perdere la persona amata interamente; come quella che non ti può sopravvivere nè anche nella immaginativa; la quale, in luogo di alcuna consolazione, non ti porge altro che materia di tristezza. E in fine, queste simili disavventure non lasciano luogo alcuno di riposarsi in sul dolore che recano.

Dolendosi uno di non so qual travaglio, e dicendo: se potessi liberarmi da questo, tutti gli altri che ho, mi sarebbero leggerissimi a sopportare; rispose: anzi allora sarebbero gravi, ora ti sono leggeri.

Dicendo un altro: se questo dolore fosse durato più, non sarebbe stato sopportabile; rispose: anzi, per l' assuefazione, l'avresti sopportato meglio.

E in molte cose attenenti alla natura degli uomini, si discostava dai giudizi comuni della moltitudine, e da quelli anco dei savi talvolta. Come, per modo di esempio, negava che al dimandare e al pregare, sieno opportuni i tempi di qualche insolita allegrezza di quelli a cui le dimande o le preghiere sono da porgere. Massimamente, diceva, quando la instanza non sia tale, che ella, per la parte di chi è pregato o richiesto, si possa soddisfare presentemente, con solo o poco più che un semplice acconsentirla; io reputo che nelle persone il

giubilo sia cosa, a impetrar che che sia da esse, non manco inopportuna e contraria, che il dolore. Perciocchè l' una e l'altra passione riempiono parimente l' uomo del pensiero di sè medesimo in guisa, che non lasciano luogo a quelli delle cose altrui. Come nel dolore il nostro male, così nella grande allegrezza il bene, tengono intenti e occupati gli animi, e inetti alla cura dei bisogni e desiderii d' altri. Dalla compassione specialmente sono alienissimi l' uno e l' altro tempo; quello del dolore, perchè l' uomo è tutto vôlto alla pietà di sè stesso; quello della gioia, perchè allora tutte le cose umane, e tutta la vita, ci si rappresentano lietissime e piacevolissime; tanto che le sventure e i travagli paiono quasi immaginazioni vane, o certo se ne rifiuta il pensiero, per essere troppo discorde dalla presente disposizione del nostro animo. I migliori tempi da tentar di ridurre alcuno a operar di presente, o a risolversi di operare, in altrui beneficio, sono quelli di qualche allegrezza placida e moderata, non istraordinaria, non viva; o pure, ed anco maggiormente, quelli di una cotal gioia, che, quantunque viva, non ha soggetto alcuno determinato, ma nasce da pensieri vaghi, e consiste in una tranquilla agitazione dello spirito. Nel quale stato, gli uomini sono più disposti alla compassione che mai, più facili a chi li prega, e talvolta abbracciano volentieri l'occasione di gratificare gli altri, e di volgere quel movimento confuso e quel piacevole impeto de' loro pensieri, in qualche azione lodevole.

Negava similmente che l'infelice, narrando o come che sia dimostrando i suoi mali, riporti per l' ordinario maggior compassione e maggior cura da quelli che hanno con lui maggiore conformità di travagli. Anzi questi in udire le tue querele, o intendere la tua condizione in qualunque modo, non attendono ad altro, che ad anteporre seco stessi, come più gravi, i loro a' tuoi mali: e spesso accade che, quando più ti pensi che sieno commossi sopra il tuo stato, quelli t' interrompono narrandoti la sorte loro, e sforzandosi di persuaderti che ella sia meno tollerabile della tua. E diceva che in tali casi avviene ordinariamente quello che nella Iliade si legge di Achille, quando Priamo supplichevole e piangente gli è prostrato ai piedi: il quale finito che ha quel suo lamento miserabile, Achille si pone a piangere seco, non già dei mali di quello, ma delle sventure proprie, e per la ricordanza del padre, e dell' amico ucciso. Soggiungeva, che ben suole alquanto conferire alla compassione l' avere sperimentato altre volte in sè quegli stessi mali che si odono o veggono essere in altri, ma non il sostenerli al presente.

Diceva che la negligenza e l'inconsideratezza sono causa di commettere infinite cose crudeli o malvage; e spessissimo hanno apparenza di malvagità e crudeltà: come, a cagione di

esempio, in uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo passatempo, lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia; non per animo duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando colla mente il loro disagio. E stimava che negli uomini l'inconsideratezza sia molto più comune della malvagità, della inumanità e simili; e da quella abbia origine un numero assai maggiore di cattive opere: e che una grandissima parte delle azioni e dei portamenti degli uomini che si attribuiscono a qualche pessima qualità morale, non sieno veramente altro che inconsiderati.

Disse in certa occasione, essere manco grave al benefatfore la piena ed espressa ingratitudine, che il vedersi rimunerare di un beneficio grande con uno piccolo, col quale il beneficato, o per grossezza di giudizio o per malvagità, si creda o si pretenda sciolto dall'obbligo verso lui; ed esso apparisca ricompensato, o per civiltà gli convenga far dimostrazione di tenersi tale: in modo che dall' una parte, venga ad essere defraudato anche della nuda e infruttuosa gratitudine dell'animo, la quale verisimilmente egli si aveva promessa in qualunque caso; dall' altra parte, gli sia tolta la facoltà di liberamente querelarsi dell' ingratitudine, o di apparire, siccome egli è nell' effetto, male e ingiustamente corrisposto.

Ho udito anche riferire come sua questa sentenza. Noi siamo inclinati e soliti a presupporre in quelli coi quali ci avviene di conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri pregi veri, o che noi c'immaginiamo, e per conoscere la bellezza o qualunque altra virtù d'ogni nostro detto o fatto; come ancora molta profondità, ed un abito grande di meditare, e molta memoria, per considerare esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sempre a mente; eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non iscopriamo in coloro queste tali parti, o non confessiamo tra noi di scoprirvele.

CAPITOLO QUARTO.

Notava che talora gli uomini irresoluti sono perseverantissimi nei loro propositi, non ostante qualunque difficoltà; e questo per la stessa loro irresolutezza; atteso che a lasciare la deliberazione fatta, converrebbe si risolvessero un' altra volta. Talora son prontissimi ed efficacissimi nel mettere in opera quello che hanno risoluto: perchè temendo essi medesimi d'indursi di momento in momento ad abbandonare il partito preso, e di ritornare in quella travagliosissima perplessità e sospensione d'animo, nella quale furono prima di determinarsi; affrettano la esecuzione, e vi adoprano ogni loro forza; stimolati più dall' ansietà e dall' incertezza di vincere

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sè medesimi, che dal proprio oggetto dell' impresa, e dagli altri ostacoli che essi abbiano a superare per conseguirlo.

Diceva alle volte ridendo, che le persone assuefatte a comunicare di continuo cogli altri i propri pensieri e sentimenti, esclamano, anco essendo sole, se una mosca le morde, o che si versi loro un vaso, o fugga loro di mano; e che per lo contrario quelle che sono usate di vivere seco stesse e di contenersi nel proprio interno, se anco si sentono cogliere da un' apoplessia, trovandosi pure in presenza d' altri, non aprono

bocca.

Stimava che una buona parte degli uomini, antichi e moderni, che sono riputati grandi o straordinari, conseguissero questa riputazione in virtù principalmente dell' eccesso di qualche loro qualità sopra le altre. E che uno in cui le qualità dello spirito sieno bilanciate e proporzionate fra loro; se bene elle fossero o straordinarie o grandi oltre modo, possa con difficoltà far cose degne dell' uno o dell' altro titolo, ed apparire ai presenti o ai futuri nè grande nè straordinario.

Distingueva nelle moderne nazioni civili tre generi di persone. Il primo, di quelle in cui la natura propria, ed anco in gran parte la natura comune degli uomini, si trova mutata e trasformata dall' arte, e dagli abiti della vita cittadinesca. Di questo genere di persone diceva essere tutte quelle che sono atte ai negozi privati o pubblici; a partecipare con diletto nel commercio gentile degli uomini, e riuscire scambievolmente grate a quelli coi quali si abbattono a convivere, o a praticare personalmente in uno o altro modo; in fine, all'uso della presente vita civile. E a questo solo genere, parlando universalmente, diceva toccare ed appartenere nelle dette nazioni la stima degli uomini. Il secondo, essere di quelli in cui la natura non si trova mutata bastantemente dalla sua prima condizione; o per non essere stata, come si dice, coltivata; o perciocchè, per sua strettezza e insufficienza, fu poco atta a ricevere e a conservare le impressioni e gli effetti dell' arte, della pratica e dell' esempio. Questo essere il più numeroso dei tre; ma disprezzato non manco da sè medesimo che dagli altri, degno di piccola considerazione; e in somma consistere in quella gente che ha o merita nome di volgo, in qualunque ordine e stato sia posta dalla fortuna. Il terzo, incomparabilmente inferiore di numero agli altri due, quasi così disprezzato come il secondo, e spesso anco maggiormente, essere di quelle persone in cui la natura, per soprabbondanza di forza, ha resistito all'arte del nostro presente vivere, ed esclusala e ributtata da sè; non ricevutone se non così piccola parte, che questa alle dette persone non è bastante per l'uso dei negozi e per governarsi cogli uomini, nè per sapere anco riuscire conversando, nè dilettevoli nè pregiate. E suddivideva questo

genere in due specie: l' una al tutto forte e gagliarda; disprezzatrice del disprezzo che le è portato universalmente, e spesso più lieta di questo, che se ella fosse onorata; diversa dagli altri non per sola necessità di natura, ma eziandio per volontà e di buon grado; rimota dalle speranze o dai piaceri del commercio degli uomini, e solitaria nel mezzo delle città, non meno perchè fugge essa dall' altra gente, che per essere fuggita. Di questa specie soggiungeva non si trovare se non rarissimi. Nella natura dell' altra, diceva essere congiunta e mista alla forza una sorta di debolezza e di timidità; in modo che essa natura combatte seco medesima. Perocchè gli uomini di questa seconda specie, non essendo di volontà punto alieni dal conversare cogli altri, desiderando in molte e diverse cose di rendersi conformi o simili a quelli del primo genere, dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui si veggono essere, e di parere da meno di uomini smisuratamente inferiori a sè d'ingegno e d'animo; non vengono a capo, non ostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all' uso pratico della vita, nè di rendersi nella conversazione tollerabili a sè, non che altrui. Tali essere stati negli ultimi tempi, ed essere all' età nostra, se bene l' uno più, l' altro meno, non pochi degl' ingegni maggiori e più delicati. E per un esempio insigne, recava Gian Giacomo Rousseau; aggiungendo a questo un altro esempio, ricavato dagli antichi, cioè Virgilio del quale nella Vita latina che porta il nome di Donato grammatico, è riferito coll' autorità di Melisso pure grammatico, liberto di Mecenate, che egli fu nel favellare tardissimo, poco diverso dagl' indòtti. E che ciò sia vero, e che Virgilio, per la stessa maravigliosa finezza dell' ingegno, fosse poco atto a praticare cogli uomini, gli pareva si potesse raccorre molto probabilmente, sì dall' artificio sottilissimo e faticosissimo del suo stile, e sì dalla propria indole di quella poesia; come anche da ciò che si legge in sulla fine del secondo delle Georgiche. Dove il poeta, contro l'uso dei Romani antichi, e massimamente di quelli d' ingegno grande, si professa desideroso della vita oscura e solitaria; e questo in una cotal guisa, che si può comprendere che egli vi è sforzato dalla sua natura, anzi che inclinato; e che l' ama più come rimedio o rifugio, che come bene. E perciocchè, generalmente parlando, gli uomini di questa e dell' altra specie non sono avuti in pregio, se non se alcuni dopo morti, e quelli del secondo genere vivi, non che morti, sono in poco o niun conto; giudicava potersi affermare in universale, che ai nostri tempi, la stima comune degli uomini non si ottenga in vita

1 Cap. 6.

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