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degli altri pianeti. Che quando vedranno la Terra fare ogni cosa che fanno essi, e divenuta uno di loro, non vorranno più restarsene così lisci, semplici e disadorni, così deserti e tristi, come sono stati sempre; e che la Terra sola abbia quei tanti ornamenti: ma vorranno ancora essi i lor fiumi, i lor mari, le loro montagne, le piante, e fra le altre cose i loro animali e abitatori; non vedendo ragione alcuna di dovere essere da meno della Terra in nessuna parte. Ed eccovi un altro rivolgimento grandissimo nel mondo; e una infinità di famiglie e di popolazioni nuove, che in un momento si vedranno venir su da tutte le bande, come funghi.

Sole. E tu le lascerai che vengano; e sieno quante sapranno essere: chè la mia luce e il calore basterà per tutte, senza che io cresca la spesa però; e il mondo avrà di che cibarle, vestirle, alloggiarle, trattarle largamente, senza far debito.

Copernico. Ma pensi vostra signoria illustrissima un poco più oltre, e vedrà nascere ancora un altro scompiglio. Che le stelle, vedendo che voi vi siete posto a sedere, e non già su uno sgabello, ma in trono; e che avete dintorno questa bella corte e questo popolo di pianeti; non solo vorranno sedere ancor esse e riposarsi, ma vorranno altresì regnare: e chi ha da regnare, ci hanno a essere i sudditi, però vorranno avere i loro pianeti, come avrete voi; ciascuna i suoi propri. I quali pianeti nuovi, converrà che sieno anche abitati e adorni come è la Terra. E qui non vi starò a dire del povero genere umano, divenuto poco più che nulla già innanzi, in rispetto a questo mondo solo; a che si ridurrà egli quando scoppieranno fuori tante migliaia di altri mondi, in maniera che non ci sarà una minutissima stelluzza della via lattea, che non abbia il suo. Ma considerando solamente l'interesse vostro, dico che per insino a ora voi siete stato, se non primo nell' universo, certamente secondo, cioè a dire dopo la Terra, e non avete avuto nessuno uguale; atteso che le stelle non si sono ardite di pareggiarvisi: ma in questo nuovo stato dell'universo avrete tanti uguali, quante saranno le stelle coi loro mondi. Sicchè guardate che questa mutazione che noi vogliamo fare, non sia con pregiudizio della dignità vostra.

Sole. Non hai tu a memoria quello che disse il vostro Cesare quando egli, andando per l'Alpi, si abbattè a passare vicino a quella borgatella di certi poveri Barbari: che gli sarebbe piaciuto più se egli fosse stato il primo in quella borgatella, che di essere il secondo in Roma? E a me similmente dovrebbe piacer più di esser primo in questo mondo nostro che secondo nell' universo. Ma non è l'ambizione quella che mi muove a voler mutare lo stato presente delle cose: solo è l'amor della quiete, o, per dir più proprio, la pigrizia.

1

In maniera che dell' avere uguali o non averne, e di essere nel primo luogo o nell' ultimo, io non mi curo molto: perchè diversamente da Cicerone, ho riguardo più all'ozio che alla dignità.

Copernico. Cotesto ozio, illustrissimo, io per la parte mia, il meglio che io possa, m'ingegnerò di acquistarvelo. Ma dubito, anche riuscendo la intenzione, che esso non vi durerà gran tempo. E prima, io sono quasi certo che non passeranno molti anni, che voi sarete costretto di andarvi aggirando come una carrucola da pozzo, o come una macina; senza mutar luogo però. Poi, sto con qualche sospetto che pure alla fine, in termine di più o men tempo, vi convenga anco tornare a correre: io non dico, intorno alla Terra; ma che monta a voi questo? e forse che quello stesso aggirarvi che voi farete, servirà di argomento per farvi anco andare. Basta, sia quello che si voglia; non ostante ogni malagevolezza e ogni altra considerazione, se voi perseverate nel proposito vostro, io proverò di servirvi; acciocchè, se la cosa non mi verrà fatta, voi pensiate ch'io non ho potuto, e non diciate che io sono di poco animo.

Sole Bene sta, Copernico mio: prova.

Copernico. Ci resterebbe una certa difficoltà solamente.
Sole. Via, qual è?

Copernico. Che io non vorrei, per questo fatto, essere abbruciato vivo, a uso della fenice: perchè accadendo questo, io sono sicuro di non avere a risuscitare dalle mie ceneri come fa quell' uccello, e di non vedere mai più, da quell' ora innanzi, la faccia della signoria vostra.

Sole. Senti, Copernico: tu sai che un tempo, quando voi altri filosofi non eravate appena nati, dico al tempo che la poesia teneva il campo, io sono stato profeta. Voglio che adesso tu mi lasci profetare per l'ultima volta, e che per la memoria di quella mia virtù antica, tu mi presti fede. Ti dico io dunque che forse, dopo te, ad alcuni i quali approveranno quello che tu avrai fatto, potrà essere che tocchi qualche scottatura, o altra cosa simile; ma che tu per conto di questa impresa, a quel ch' io posso conoscere, non patirai nulla. E se tu vuoi essere più sicuro, prendi questo partito; il libro che tu scriverai a questo proposito, dedicarlo al papa 1. In questo modo, ti prometto che nè anche hai da perdere il canonicato.

1 Copernico in effetto lo dedicò al pontefice Paolo terzo.

DIALOGO

DI PLOTINO E DI PORFIRIO.

Una volta essendo io Porfirio entrato in pensiero di levarmi di vita, Plotino se ne avvide; e venutomi innanzi improvvisamente, che io era in casa; e dettomi, non procedere si fatto pensiero da discorso di mente sana, ma da qualche indisposizione malinconica; mi strinse che io mutassi paese. Porfirio nella vita di Plotino. Il simile in quella di Porfirio scritta da Eunapio: il quale aggiunge che Plotino distese in un libro i ragionamenti avuti con Porfirio in quella occasione.

Plotino. Porfirio, tu sai ch' io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dèi maravigliare se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una certa curiosità; perchè nasce da questo, che tu mi stai sul cuore. Già sono più giorni che io ti veggo tristo e pensieroso molto; hai una certa guardatura, e lasci andare certe parole; in fine, senza altri preamboli e senza aggiramenti, io credo che tu abbi in capo una mala intenzione.

Porfirio. Come che vuoi tu dire?

Plotino. Una mala intenzione contro te stesso. Il fatto è stimato cattivo augurio a nominarlo. Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero; non far questa ingiuria a tanto amore che noi ci portiamo insieme da tanto tempo. So bene che io ti fo dispiacere a muoverti questo discorso; e intendo che ti sarebbe stato caro di tenerti il tuo proposito celato: ma in cosa di tanto momento io non poteva tacere; e tu non dovresti aver a male di conferirla con persona che ti vuol tanto bene quanto a sè stessa. Discorriamo insieme riposatamente, e andiamo pensando le ragioni: tu sfogherai l'animo tuo meco, ți dorrai, piangerai; chè io merito da te questo: e in ultimo io non sono già per impedirti che tu non facci quello che noi troveremo che sia ragionevole, e di tuo utile.

Porfirio. Io non ti ho mai disdetto cosa che tu mi domandassi, Plotino mio. Ed ora confesso a te quello che avrei voluto tener segreto, e che non confesserei ad altri per cosa alcuna del mondo; dico che quel che tu immagini della mia intenzione, è la verità. Se ti piace che noi ci ponghiamo a ragionare sopra questa materia; benchè l' animo mio ci ripugna molto, perchè queste tali deliberazioni pare che si

compiacciano di un silenzio altissimo, e che la mente in così fatti pensieri ami di essere solitaria e ristretta in sè medesima più che mai; pure io sono disposto di fare anche di ciò a tuo modo. Anzi incomincerò io stesso; e ti dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un fastidio della vita; da un tedio che io provo, così veemente, che si assomiglia a dolore e a spasimo; da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa che mi occorre nella giornata. Di maniera che non solo l'intelletto mio, ma tutti i sentimenti, ancora del corpo, sono (per un modo di dire strano, ma accomodato al caso) pieni di questa vanità. E qui primieramente non mi potrai dire che questa mia disposizione non sia ragionevole: se bene io consentirò facilmente che ella in buona parte provenga da qualche mal essere corporale. Ma ella nondimeno è ragionevolissima: anzi, tutte le altre disposizioni degli uomini fuori di questa, per le quali, in qualunque maniera, si vive, e stimasi che la vita e le cose umane abbiano qualche sostanza, sono, qual più qual meno, rimote dalla ragione, e si fondano in qualche inganno e in qualche immaginazione falsa. E nessuna cosa è più ragionevole che la noia. I piaceri son tutti vani. Il dolore stesso, parlo di quel dell' animo, per lo più è vano perchè se tu guardi alla causa ed alla materia, a considerarla bene, ella è di poca realtà o di nessuna. Il simile dico del timore; il simile della speranza. Solo la noia, la quale nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno; mai non è fondata sul falso. E si può dire che, essendo tutto l' altro vano, alla noia riducasi, e in lei consista, quanto la vita degli uomini ha di sostanzievole e di reale.

Plotino. Sia così. Non voglio ora contraddirti sopra questa parte. Ma noi dobbiamo adesso considerare il fatto che tu vai disegnando: dico, considerarlo più strettamente, e in sè stesso. Io non ti starò a dire che sia sentenza di Platone, come tu sai, che all' uomo non sia lecito, in guisa di servo fuggitivo, sottrarsi di propria autorità da quella quasi carcere nella quale egli si ritrova per volontà degli Dei; ciòè privarsi della vita spontaneamente.

Porfirio. Ti prego, Plotino mio, lasciamo da parte adesso Platone, e le sue dottrine e le sue fantasie. Altra cosa è lodare, comentare, difendere certe opinioni nelle scuole e nei libri, ed altra è seguitarle nell'uso pratico. Alla scuola e nei libri, siami stato lecito approvare i sentimenti di Platone e seguirli; poichè tale è l' usanza oggi: nella vita, non che gli approvi, io piuttosto gli abbomino. So che egli si dice che Platone spargesse negli scritti suoi quelle dottrine della vita

avvenire, acciocchè gli uomini, entrati in dubbio e in sospetto circa lo stato loro dopo la morte; per quella incertezza, e per timore di pene e di calamità future, si ritenessero nella vita dal fare ingiustizia, e dalle altre male opere. Che se io stimassi che Platone fosse stato autore di questi dubbi e di queste credenze; e che elle fossero sue invenzioni; io direi tu vedi, Platone, quanto o la natura o il fato o la necessità, o qual si sia potenza autrice e signora dell'universo, è stata ed è perpetuamente inimica alla nostra specie. Alla quale molte, anzi innumerabili ragioni potranno contendere quella maggioranza che noi, per altri titoli, ci arroghiamo di avere tra gli animali; ma nessuna ragione si troverà che le tolga quel principato che l'antichissimo Omero le attribuiva; dico il principato della infelicità. Tuttavia la natura ci destinò per medicina di tutti i mali la morte: la quale, da coloro che non molto usassero il discorso dell' intelletto, saria poco temuta; dagli altri desiderata. E sarebbe un conforto dolcissimo nella vita nostra, piena di tanti dolori, l'aspettazione e il pensiero del nostro fine. Tu con questo dubbio terribile suscitato da. te nelle menti degli uomini, hai tolta da questo pensiero ogni. dolcezza, e fattolo il più amaro di tutti gli altri. Tu sei cagione che si veggano gl' infelicissimi mortali temere più il porto che la tempesta; e rifuggire coll' animo da quel solo rimedio e riposo loro, alle angosce presenti e agli spasimi della vita. Tu sei stato agli uomini più crudele che il fato o la necessità o la natura. E non si potendo questo dubbio in alcun modo sciorre, nè le menti nostre esserne liberate mai, tu hai recati per sempre i tuoi simili a questa condizione, che essi avranno la morte piena d' affanno, e più misera che la vita. Perciocchè per opera tua, laddove tutti gli altri animali muoiono senza timore alcuno. la quiete e la sicurtà dell' animo sono escluse in perpetuo dall' ultima ora dell' uomo. Questo mancava, o Platone, a tanta infelicità della specie umana.

Lascio che quello effetto che ti avevi proposto, di ritenere gli uomini dalle violenze e dalle ingiustizie, non ti è venuto fatto. Perocchè quei dubbi e quelle credenze spaventano tutti gli uomini in sulle ore estreme, quando essi non sono atti a nuocere nel corso della vita, spaventano frequentemente i buoni, i quali hanno volontà non di nuocere, ma di giovare; spaventano le persone timide e deboli di corpo, le quali alle violenze e alle iniquità non hanno nè la natura inclinata, nè sufficiente il cuore e la mano. Ma gli arditi, e i gagliardi, e quelli che poco sentono la potenza dell' immaginativa; in fine coloro ai quali in generalità si richiederebbe altro freno che della sola legge; non ispaventano esse nè tengono dal male

'Diogene Laerzio, Vit. Plat. segm. 80.

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