V. A UN VINCITORE NEL PALLONE. Di gloria il viso e la gioconda voce, E quanto al femminile ozio sovrasti Te rigoglioso dell' età novella Oggi la patria cara Gli antichi esempi a rinnovar prepara. Non colorò la destra Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo, Che stupito mirò l' ardua palestra, Nè la palma beata e la corona D' emula brama il punse. E nell' Alfeo Delle cavalle vincitrici asterse Tal che le greche insegne e il greco acciaro Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi Nelle pallide torme; onde sonaro Di sconsolato grido L'alto sen dell' Eufrate e il servo lido. Della virtù nativa Le riposte faville? e che del fioco Da poi che Febo instiga, altro che giuoco A noi di lieti Inganni e di felici ombre soccorse Natura stessa: e là dove l' insano Costume ai forti errori ésca non porse, Negli ozi oscuri e nudi Mutò la gente i gloriosi studi. Tempo forse verrà ch' alle ruine Delle italiche moli Insultino gli armenti, e che l' aratro Dal rimembrar delle passate imprese. Chiaro per lei stato saresti allora Che del serto fulgea, di ch' ella è spoglia, Spinto al varco leteo, più grata riede. VI. BRUTO MINORE. Poi che divelta, nella tracia 1 polve L'italica virtute, onde alle valli A spezzar le romane inclite mura Si usa qui la licenza, usata da diversi autori antichi, di attribuire alla Tracia la città e la battaglia di Filippi, che veramente furono nella Macedonia. Similmente nel nono Canto si seguita la tradizione volgare intorno agli amori infelici di Saffo poetessa, benchè il Visconti ed altri critici moderni distinguano due Saffo; l' una famosa per la sua lira, e l'altra per l' amore sfortunato di Faone, quella contemporanea d' Alceo, e questa più moderna. Chiama i gotici brandi; Sudato, e molle di fraterno sangue, E di feroci note Invan la sonnolenta aura percote. Stolta virtù, le cave nebbie, i campi Son le tue scole, e ti si volge a tergo A cui templi chiedeste, e frodolenta Dunque tanto i celesti odii commove Ne' giusti e pii la sacra fiamma stringi? Schiavi di morte: e se a cessar non vale Si consola il plebeo. Men duro è il male Guerra mortale, eterna, o fato indegno, Di cedere inesperto; e la tiranna Tua destra, allor che vincitrice il grava, Quando nell' alto lato L'amaro ferro intride, E maligno alle nere ombre sorride. Spiace agli Dei chi violento irrompe Tanto valor ne' molli eterni petti. Ma libera ne' boschi e pura etade Reina un tempo e Diva. Or poi ch' a terra Sparse i regni beati empio costume, Virile alma ricusa, Riede natura, e il non suo dardo accusa? Serena adduce al non previsto passo Al misero desio nulla contesa O tenebroso ingegno. A voi, fra quante Se il fato ignavo pende, Soli, o miseri, a voi Giove contende. É tu dal mar cui nostro sangue irriga, Candida luna, sorgi, E l' inquieta notte e la funesta Tu si placida sei? Tu la nascente Lieti vedesti, e i memorandi allori; Sotto barbaro piede Ritornerà quella solinga sede. Ecco tra nudi sassi o in verde ramo E la fera e l' augello, Del consueto obblio gravido il petto, L'alta ruina ignora e le mutate Sorti del mondo: e come prima il tetto Rosseggerà del villanello industre, Al mattutino canto Quel desterà le valli, e per le balze Agiterà delle minori belve. Oh casi! oh gener vano! abbietta parte Siam delle cose; e non le tinte glebe, Non gli ululati spechi Nè scolorò le stelle umana cura. འ Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi E non la notte moribondo appello; Precipitano i tempi; e mal s'affida L'onor d' egregie menti e la suprema Tratti l'ignota spoglia; E l'aura il nome e la memoria accoglia. VII. ALLA PRIMAVERA, O DELLE FAVOLE ANTICHE. Perchè i celesti danni Ristori il sole, e perchè l' aure inferme Gli augelli al vento, e la diurna luce La bella età, cui la sciagura e l' atra Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti Primavera odorata, inspiri e tenti Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara? |