Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera Del viver che daranno a te le stelle, Certo del tuo costume
Non ti dorrai; chè di natura è frutto Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza La detestata soglia Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all' altrui core, E lor fia vôto il mondo, e il dì futuro Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest' anni miei? che di me stesso ? Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.
Sempre caro mi fu quest' ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell' ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quïete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s' annega il pensier mio;
E il naufragar m' è dolce in questo mare.
Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagua. O donna mia, Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la notturna lampa;
Tu dormi, chè t' accolse agevol sonno Nelle tue chete stanze; e non ti morde Cura nessuna; e già non sai nè pensi Quanta piaga m' apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno Appare in vista, a salutar m' affaccio, E' antica natura onnipossente,
Che mi fece all' affanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo di fu solenne: or da' trastulli Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti Piacquero a te: non io, non già ch' io speri, Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo. O giorni orrendi In così verde etade! Ahi, per la via Odo non lunge il solitario canto Dell' artigian, che riede a tarda notte, Dopo i sollazzi, al suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il core, Al pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito Il di festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. Or dov'è il suono Di que' popoli antichi? or dov'è il grido De' nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio Che n' andò per la terra e l' oceáno? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s' aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia Ch' egli era spento, io doloroso, in veglia, Premea le piume; ed alla tarda notte Un canto che s' udia per li sentieri Lontanando morire a poco a poco, Già similmente mi stringeva il core.
O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l' anno, sovra questo colle Io venía pien d' angoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparìa, chè travagliosa Era mia vita: ed è, nè cangia stile, O mia diletta luna. E pur mi giova La ricordanza, e il noverar l'etate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso, Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l' affanno duri!
Era il mattino, e tra le chiuse imposte Per lo balcone insinuava il Sole
Nella mia cieca stanza il primo albore;
Quando in sul tempo che più lieve il sonno E più soave le pupille adombra, Stettemi allato e riguardommi in viso Il simulacro di colei che amore
Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto. Morta non mi parea, ma trista, e quale Degl' infelici è la sembianza. Al capo Appressommi la destra, e sospirando, Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna Serbi di noi? Donde, risposi, e come Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto Di te mi dolse e duol! nè mi credea Che risaper tu lo dovessi; e questo Facea più sconsolato il dolor mio.
Ma sei tu per lasciarmi un' altra volta?
Io n' ho gran tema. Or dimmi, e che t' avvenne? Sei tu quella di prima? E che ti strugge Internamente? Oblivione ingombra
I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno; Disse colei. Son morta, e mi vedesti L'ultima volta, or son più lune. Immensa Doglia m' oppresse a queste voci il petto. Ella seguì: nel fior degli anni estinta, Quand'è il viver più dolce, e pria che il core Certo si renda com' è tutta indarno L' umana speme. A desiar colei
Che d' ogni affanno il tragge, ha poco andare L'egro mortal; ma sconsolata arriva La morte ai giovanetti, e duro è il fato Di quella speme che sotterra è spenta. Vano è saper quel che natura asconde Agl' inesperti della vita, e molto All' immatura sapienza il cieco Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara, Taci, taci, diss' io, chè tu mi schianti Con questi detti il cor. Dunque sei morta, O mia diletta, ed io son vivo, ed era Pur fisso in ciel che quei sudori estremi Cotesta cara e tenerella salma Provar dovesse, a me restasse intera Questa misera spoglia? Oh quante volte In ripensar che più non vivi, e mai Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo, Creder nol posso! Ahi ahi, che cosa è questa Che morte s' addimanda? Oggi per prova Intenderlo potessi, e il capo inerme Agli atroci del fato odii sottrarre! Giovane son, ma si consuma e perde La giovanezza mia come vecchiezza; La qual pavento, e pur m' è lunge assai. Ma poco da vecchiezza si discorda
Il fior dell' età mia. Nascemmo al pianto, Disse, ambedue; felicità non rise
Al viver nostro; e dilettossi il cielo
De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio, Soggiunsi, e di pallor velato il viso Per la tua dipartita, e se d' angoscia Porto gravido il cor; dimmi: d'amore Favilla alcuna, o di pietà, giammai Verso il misero amante il cor t' assalse Mentre vivesti? Io disperando allora E sperando traea le notti e i giorni; Oggi nel vano dubitar si stanca La mente mia. Che se una volta sola Dolor ti strinse di mia negra vita, Non mel celar, ti prego, e mi soccorra La rimembranza or che il futuro è tolto Ai nostri giorni. E quella: ti conforta, O sventurato. Io di pietade avara Non ti fui mentre vissi, ed or non sono, Chè fui misera anch' io. Non far querela Di questa infelicissima fanciulla. Per le sventure nostre, e per l'amore Che mi strugge, esclamai; per lo diletto Nome di giovanezza e la perduta Speme dei nostri dì, concedi, o cara, Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
Di baci la ricopro, e d' affannosa
Dolcezza palpitando all' anelante Seno la stringo, di sudore il volto Ferveva e il petto, nelle fauci stava La voce, al guardo traballava il giorno. Quando colei teneramente affissi
Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro, Disse, che di beltà son fatta ignuda? E tu d'amore, o sfortunato, indarno Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio. Nostre misere menti e nostre salme Son disgiunte in eterno. A me non vivi, E mai più non vivrai: già ruppe il fato La fe che mi giurasti. Allor d'angoscia Gridar volendo, e spasimando, e pregne Di sconsolato pianto le pupille,
Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi Pur mi restava, e nell' incerto raggio Del Sol vederla io mi credeva ancora.
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