Esser beato non consente il cielo
A natura terrena. Amar tant' oltre Non è dato con gioia. E ben per patto In poter del carnefice ai flagelli, Alle ruote, alle faci ito volando
Sarei dalle tue braccia; e ben disceso Nel paventato sempiterno scempio.
O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra Gl' immortali beato, a cui tu schiuda Il sorriso d' amor! felice appresso
Chi per te sparga con la vita il sangue! Lice, lice al mortal, non è già sogno Come stimai gran tempo, ahi lice in terra Provar felicità. Ciò seppi il giorno
Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte Questo m' accadde. E non però quel giorno Con certo cor giammai, fra tante ambasce, Quel fiero giorno biasimar sostenni.
Or tu vivi beata, e il mondo abbella, Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno Non t' amerà quant' io t' amai. Non nasce Un altrettale amor. Quanto, deh quanto Dal misero Consalvo in sì gran tempo Chiamata fosti, e lamentata, e pianta! Come al nome d' Elvira, in cor gelando, Impallidir; come tremar son uso All' amaro calcar della tua soglia, A quella voce angelica, all aspetto
Di quella fronte, io ch' al morir non tremo! Ma la lena e la vita or vengon meno Agli accenti d' amor. Passato è il tempo, Nè questo dì rimemorar m' è dato. Elvira, addio. Con la vital favilla La tua diletta immagine si parte
Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave Non ti fu quest' affetto, al mio feretro Dimani all' annottar manda un sospiro.
Tacque: nè molto andò, che a lui col suono
Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo Suo dì felice gli fuggìa dal guardo.
Cara beltà che amore
Lunge m' inspiri o nascondendo il viso, Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne' campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso; Forse tu l' innocente
Secol beasti che dall' oro ha nome, Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch' a noi t'asconde, agli avvenir prepara? Viva mirarti omai
Nulla speme m' avanza;
S'allor non fosse, allor che ignudo e solo Per novo calle a peregrina stanza Verrà lo spirto mio. Già sul novello Aprir di mia giornata incerta e bruna, Te viatrice in questo arido suolo Io mi pensai. Ma non è cosa in terra Che ti somigli; e s' anco pari alcuna Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, Saria, così conforme, assai men bella. Fra cotanto dolore
Quanto all' umana età propose il fato, Se vera e quale il mio pensier ti pinge, Alcun t' amasse in terra, a lui pur fôra Questo viver beato:
E ben chiaro vegg' io siccome ancora Seguir loda e virtù qual ne' prim' anni L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse Il ciel nullo conforto ai nostri affanni; E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india. Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m' abbandona;
E per li poggi, ov' io rimembro e piagno I perduti desiri, e la perduta
Speme de' giorni miei; di te pensando
A palpitar mi sveglio. E potess' io, Nel secol tetro e in questo äer nefando, L'alta specie serbar; chè dell' imago,
Poi che del ver m' è tolto, assai m' appago. Se dell' eterne idee
L' una sei tu, cui di sensibil forma Sdegni l'eterno senno esser vestita, E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita; O s'altra terra ne' superni giri Fra mondi innumerabili t' accoglie, E più vaga del Sol prossima stella T'irraggia, e più benigno etere spiri; Di qua dove son gli anni infausti e brevi, Questo d' ignoto amante inno ricevi.
Questo affannoso e travagliato sonno Che noi vita nomiam, come sopporti, Pepoli mio? di che speranze il core Vai sostentando? in che pensieri, in quanto O gioconde o moleste opre dispensi L'ozio che ti lasciâr gli avi remoti, Grave retaggio e faticoso? È tutta, In ogni umano stato, ozio la vita,
Se quell' oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all' intento Giugner mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. La schiera industre Cui franger glebe o curar piante e greggi Vede l'alba tranquilla e vede il vespro, Se oziosa dirai, da che sua vita È per campar la vita, e per se sola La vita all' uom non ha pregio nessuno, Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni Tragge in ozio il nocchiero: ozio il perenne Sudar nelle officine, ozio le vegghie Son de' guerriere e il perigliar nell' armi; E il mercatante avaro in ozio vive: Chè non a sè, non ad altrui, la bella
Felicità, cui solo agogna o cerca La natura mortal, veruno acquista Per cura o per sudor, vegghia o periglio. Pur all' aspro desire onde i mortali
Già sempre infin dal dì che il mondo nacque D' esser beati sospiraro indarno, Di medicina in loco apparecchiate Nella vita infelice avea natura Necessità diverse, a cui non senza Opre e pensier si provvedesse, e pieno, Poi che lieto non può, corresse il giorno All' umana famiglia; onde agitato E confuso il desio, men loco avesse Al travagliarne il cor. Così de' bruti La progenie infinita, a cui pur solo, Nè men vano che a noi, vive nel petto Desio d'esser beati; a quello intenta Che a lor vita è mestier, di noi men tristo Condur si scopre e men gravoso il tempo, Nè la lentezza accagionar dell' ore.
Ma noi, che il viver nostro all' altrui mano Provveder commettiamo, una più grave Necessità, cui provveder non puote Altri che noi, già senza tedio e pena Non adempiam: necessitate, io dico, Di consumar la vita: improba, invitta Necessità, cui non tesoro accolto, Non di greggi dovizia, o pingui campi, Non aula puote e non purpureo manto Sottrar l'umana prole. Or s' altri, a sdegno I vòti anni prendendo, e la superna Luce odiando, l'omicida mano, I tardi fatti a prevenir condotto, In sè stesso non torce; al duro morso Della brama insanabile che invano Felicità richiede, esso da tutti Lati cercando, mille inefficaci Medicine procaccia, onde quell' una Cui natura apprestò, mal si compensa.
Lui delle vesti e delle chiome il culto E degli atti e dei passi, e i vani studi Di cocchi e di cavalli, e le frequente Sale, e le piazze romorose, e gli orti; Lui giochi e cene e invidiate danze Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto, Nell' imo petto, grave, salda, immota
Come colonna adamantina, siede
Noia immortale, incontro a cui non puote Vigor di giovanezza, e non la crolla Dolce parola di rosato labbro,
E non lo sguardo tenero, tremante, Di due nere pupille, il caro sguardo, La più degna del ciel cosa mortale.
Altri, quasi a fuggir vòlto la trista Umana sorte, in cangiar terre e climi L'età spendendo, e mari e poggi errando, Tutto l' orbe trascorre, ogni confine Degli spazi che all' uom negl' infiniti Campi del tutto la natura aperse. Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside Su l' alte prue la negra cura, e sotto Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno Felicità; vive tristezza e regna.
Havvi chi le crudeli opre di marte Si elegge a passar l' ore, e nel fraterno Sangue la man tinge per ozio; ed havvi Chi d'altrui danni si conforta, e pensa Con far misero altrui far sè men tristo, Sì che nocendo usar procaccia il tempo. E chi virtute o sapienza ed arti Perseguitando; e chi la propria gente Conculcando e l' estrane, o di remoti Lidi turbando la quïete antica
Col mercatar, con l' armi, e con le frodi, La destinata sua vita consuma.
Te più mite desio, cura più dolce Regge nel fior di gioventù, nel bello April degli anni, altrui giocondo e primo Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto A chi patria non ha. Te punge e move Studio de' carmi e di ritrar parlando Il bel che raro e scarso e fuggitivo Appar nel mondo, e quel che, più benigna Di natura e del ciel, fecondamente A noi la vaga fantasia produce,
E il nostro proprio error. Ben mille volte Fortunato colui che la caduca
Virtù del caro immaginar non perde Per volger d' anni; a cui serbare eterna La gioventù del cor diedero i fati; Che nella ferma e nella stanca etade, Così come solea nell' età verde, In suo chiuso pensier natura abbella,
« ÖncekiDevam » |