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E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita

Piaggia ch' io miro, ogni goder ch' io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.

XXIII.

CANTO NOTTURNO

DI UN PASTORE ERRANTE DELL' ASIA 1.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di rïandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore.

Plusieurs d'entre eux (parla di una delle nazioni erranti dell' Asia) passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins. Il Barone di Meyendorff, «Voyage d'Orenbourg à Boukhara, fait en 1820», appresso il Journal des Savans 1826, septembre p. 518.

Sorge in sul primo albore,

Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,

Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L'ora, e quando poi gela,

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s' affretta.

Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch' arriva

Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu vòlto
Abisso orrido, immenso,

Ov' ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale

È la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,

Ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore

Il prende a consolar dell' esser nato.

Poi che crescendo viene,

L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell' umano stato:

Altro ufficio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perchè dare al sole,

Perchè reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale

È lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che si pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,

E perir della terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi

Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,

Del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera,

A chi giovi l'ardore, e che procacci

Il verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

Che son celate al semplice pastore.

Spesso quand' io ti miro

Star così muta in sul deserto piano,

Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia

Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo Infinito seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba,

E dell' innumerabile famiglia;

Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D' ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,

Per tornar sempre là donde son mosse;

Uso alcuno, alcun frutto

Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

Che degli eterni giri,

Che dell' esser mio frale,

Qualche bene o contento

Avrà fors' altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!

Non sol perchè d' affanno
Quasi libera vai;

Ch' ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all' ombra, sovra l' erbe,
Tu se' queta e contenta;

E gran parte dell' anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggio sovra l'erbe, all' ombra,
E un fastidio m' ingombra

La mente; ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perchè giacendo

A bell' agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s' io giaccio in riposo, il tedio assale 1?

Forse s'avess' io l' ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all' altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

E funesto a chi nasce il dì natale.

Il signor Rothe, traducendo in bei versi tedeschi questo componimento, accusa gli ultimi sette versi della presente stanza di tautologia, cioè di ripetizione delle cose dette avanti. Segue il pastore: ancor io godo pochi piaceri (godo ancor poco); nè mi lagno di questo solo, cioè che il piacere mi manchi; mi lagno dei patimenti che provo, cioè della noia. Questo non era detto avanti. Poi, conchiudendo, riduce in termini brevi la quistione trattata in tutta la stanza; perchè gli animali non s' annoino, e l'uomo si: la quale se fosse tautologia, tutte quelle conchiusioni dove per evidenza si riepiloga il discorso, sarebbero tautologic.

XXIV.

LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA.

Passata è la tempesta;

Odo augelli far festa, e la gallina,

Tornata in su la via,

Che ripete il suo verso.

Ecco il sereno

Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,

E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorìo,

Torna il lavoro usato.

L'artigiano a mirar l'umido cielo,

Con l'opra in man, cantando,

Fassi in su l' uscio; a prova

Vien fuor la femminetta a côr dell' acqua

Della novella piova;

E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero

Il grido giornaliero.

Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:

E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passeggier che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core.

Si dolce, si gradita

Quand' è, com' or, la vita?

Quando con tanto amore

L'uomo a' suoi studi intende?

O torna all' opre? o cosa nova imprende?

Quando de' mali suoi men si ricorda?

Piacer figlio d' affanno;

Gioia vana, ch' è frutto

Del passato timore, onde si scosse

E paventò la morte

Chi la vita abborria;

Onde in lungo tormento,

Fredde, tacite, smorte,

Sudar le genti e palpitâr, vedendo

Mossi alle nostre offese

Folgori, nembi e vento.

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