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Bis unquam coeli ianua reclusa? Così quel lume; ond' io m' attesi a lui. 31 Poscia rivolsi alla mia Donna il viso, E quinci e quindi stupefatto fui; Chè dentro agli occhi suoi ardeva un riso 34 Tal, ch' io pensai co' miei toccar lo fondo

Della mia grazia e del mio Paradiso. Indi ad udire ed a veder giocondo, Giunse lo spirto al suo principio cose Ch' io non intesi, sì parlò profondo : Nè per elezion mi si nascose,

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Ma per necessità, chè il suo concetto Al segno dei mortal si soprappose. E quando l'arco dell' ardente affetto 43 Fu si sfocato che il parlar discese Inver lo segno del nostro intelletto; La prima cosa che per me s' intese, 'Benedetto sie tu,' fu, 'Trino ed Uno, Che nel mio seme sei tanto cortese.' E seguitò: Grato e lontan digiuno, 49 Tratto leggendo nel magno volume U' non si muta mai bianco nè bruno, Soluto hai, figlio, dentro a questo lume 52 In ch' io ti parlo, mercè di colei Ch' all' alto volo ti vesti le piume. Tu credi che a me tuo pensier mei

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Da quel ch' è primo, così come raia Dall' un, se si conosce, il cinque e il sei.

E però chi io mi sia, e perch' io paia 58
Più gaudioso a te, non mi domandi,
Che alcun altro in questa turba gaia.
Tu credi il vero; chè minori e grandi 61
Di questa vita miran nello speglio,
In che, prima che pensi, il pensier pandi.
Ma perchè il sacro amore, in che io veglio
Con perpetua vista, e che m' asseta 65
Di dolce disiar, s' adempia meglio,

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Pria ch'io parlassi, ed arrosemi un cenno Che fece crescer l' ali al voler mio. Poi cominciai così: 'L'affetto e il senno, 73 Come la prima Equalità v' apparse, D' un peso per ciascun di voi si fenno; Perocchè il Sol, che v' allumò ed arse 76 Col caldo e con la luce, è sì iguali, Che tutte simiglianze sono scarse. Ma voglia ed argomento nei mortali, Per la cagion ch' a voi è manifesta, Diversamente son pennuti in ali. Ond' io che son mortal, mi sento in questa

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Mia donna venne a me di val di Pado,
E quindi il soprannome tuo si feo.
Poi seguitai lo imperador Corrado,
Ed ei mi cinse della sua milizia,
Tanto per bene oprar gli venni in grado.
Dietro gli andai incontro alla nequizia 142
Di quella legge, il cui popolo usurpa,
Per colpa dei pastor, vostra giustizia.
Quivi fu' io da quella gente turpa.

Disviluppato dal mondo fallace,
Il cui amor molte anime deturpa,
E venni dal martiro a questa pace.'

Ben si convien che la lunga fatica Tu gli raccorci con l' opere tue. Fiorenza dentro dalla cerchia antica Ond' ella toglie ancora e terza e nona, Si stava in pace, sobria e pudica. Non avea catenella, non corona,

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Non donne contigiate, non cintura Che fosse a veder più che la persona. Non faceva nascendo ancor paura La figlia al padre, chè il tempo e la dote

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CANTO DECIMOSESTO.

poca nostra nobiltà di sangue! Se gloriar di te la gente fai

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Onde Beatrice, ch' era un poco scevra, 13
Ridendo, parve quella che tossio
Al primo fallo scritto di Ginevra.
Io cominciai: 'Voi siete il padre mio, 16
Voi mi date a parlar tutta baldezza,
Voi mi levate si ch' io son più ch' io.
Per tanti rivi s' empie d' allegrezza
La mente mia, che di sè fa letizia,
Perchè può sostener che non si spezza.
Ditemi dunque, cara mia primizia, 22
Quai fur li vostri antichi, e quai fur gli
anni

Che si segnaro in vostra puerizia,
Ditemi dell' ovil di San Giovanni

Quanto era allora, e chi eran le genti Tra esso degne di più alti scanni.' Come s'avviva allo spirar dei venti

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Carbone in fiamma, così vidi quella
Luce risplendere a' miei blandimenti:
E come agli occhi miei si fe' più bella, 31
Così con voce più dolce e soave,
Ma non con questa moderna favella,
Dissemi: 'Da quel dì che fu detto AVE, 34
Al parto in che mia madre, ch'è or
santa,

S' alleviò di me ond' era grave,
Al suo Leon cinquecento cinquanta

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E trenta fiate venne questo foco A rinfiammarsi sotto la sua pianta. Gli antichi miei ed io nacqui nel loco 40 Dove si trova pria l' ultimo sesto

Da quel che corre il vostro annual gioco.

Basti de' miei maggiori udirne questo; 43
Chi ei si furo, ed onde venner quivi,
Più è tacer che ragionare onesto.
Tutti color ch' a quel tempo eran ivi

Da poter arme tra Marte e il Batista, Erano il quinto di quei che son vivi. Ma la cittadinanza, ch' è or mista

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Copre e discopre i liti senza posa, Cosi fa di Fiorenza la fortuna ; Perchè non dee parer mirabil cosa Ciò ch' io dirò degli alti Fiorentini, Onde la fama nel tempo è nascosa. Io vidi gli Ughi, e vidi i Catellini, Filippi, Greci, Ormanni ed Alberichi, Già nel calare, illustri cittadini; E vidi così grandi come antichi, Con quel della Sannella, quel dell' Arca, E Soldanieri, ed Ardinghi, e Bostichi. Sopra la porta, che al presente è carca 94 Di nuova fellonia di tanto peso Che tosto fia jattura della barca, Erano i Ravignani, ond' è disceso

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Il conte Guido, e qualunque del nome Dell' alto Bellincion ha poscia preso. Quel della Pressa sapeva già come Regger si vuole, ed avea Galigaio Dorata in casa sua già l' elsa e il pome. Grande era già la colonna del vaio, Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci, E Galli, e quei che arrossan per lo staio. Lo ceppo di che nacquero i Calfucci 106 Era già grande, e già erano tratti Alle curule Sizii ed Arrigucci. O quali io vidi quei che son disfatti 109Per lor superbia e le palle dell' oro Fiorian Fiorenza in tutti suoi gran fatti,

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Parole gravi; avvenga ch' io mi senta Ben tetragono ai colpi di ventura. Per che la voglia mia saria contenta D' intender qual fortuna mi s' appressa; Chè saetta previsa vien più lenta.' Così diss' io a quella luce stessa Che pria m' avea parlato, e come volle Beatrice, fu la mia voglia confessa. Nè per ambage, in che la gente folle Già s' inviscava, pria che fosse anciso L' Agnel di Dio che le peccata tolle, Ma per chiare parole, e con preciso Latin, rispose quell' amor paterno, Chiuso e parvente del suo proprio riso: 'La contingenza, che fuor del quaderno 37 Della vostra materia non si stende, Tutta è dipinta nel cospetto eterno.

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Si che se loco m' è tolto più caro, Io non perdessi gli altri per miei carmi. Giù per lo mondo senza fine amaro, E per lo monte, del cui bel cacume Gli occhi della mia Donna mi levaro, E poscia per lo ciel di lume in lume, 115 Ho io appreso quel che, s' io ridico, A molti fia sapor di forte agrume; E s' io al vero son timido amico, Temo di perder viver tra coloro Che questo tempo chiameranno antico.' La luce in che rideva il mio tesoro

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Parran faville della sua virtute In non curar d' argento nè d' affanni. Le sue magnificenze conosciute

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per altro argomento che non paia.' 142

E lascia pur grattar dov' è la rogna; Chè se la voce tua sarà molesta Nel primo gusto, vital nutrimento Lascerà poi quando sarà digesta. Questo tuo grido farà come vento, Che le più alte cime più percote; E ciò non fa d' onor poco argomento, Però ti son mostrate in queste rote, Nel monte, e nella valle dolorosa, Pur l' anime che son di fama note; Chè l'animo di quel ch' ode non posa, 139 Nè ferma fede per esemplo ch' haia La sua radice incognita e nascosa,

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