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Del mio conforto, e quale io allor vidi Negli occhi santi amor, qui l'abbandono; Non perch' io pur del mio parlar diffidi, 10 Ma la mente che non può reddire per Sopra sè tanto, s' altri non la guidi. Tanto poss' io di quel punto ridire, Che, rimirando lei, lo mio affetto Libero fu da ogni altro disire. Fin che il piacere eterno, che diretto Raggiava in Beatrice, dal bel viso Mi contentava col secondo aspetto, Vincendo me col lume d' un sorriso, Ella mi disse: Volgiti ed ascolta, Che non pur ne' miei occhi è Paradiso.' Come si vede qui alcuna volta

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L'affetto nella vista, s' ello è tanto Che da lui sia tutta l' anima tolta, Così nel fiammeggiar del fulgor santo, 25 A ch' io mi volsi, conobbi la voglia In lui di ragionarmi ancora alquanto. Ei cominciò: 'In questa quinta soglia 28 Dell' arbore che vive della cima,

E frutta sempre, e mai non perde foglia, Spiriti son beati, che giù, prima 31

Qual era trai cantor del cielo artista. Io mi rivolsi dal mio destro lato

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Per vedere in Beatrice il mio dovere, O per parlare o per atto segnato, E vidi le sue luci tanto mere,

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Tanto gioconde, che la sua sembianza Vinceva gli altri e l' ultimo solere. E come per sentir più dilettanza

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Bene operando l'uom di giorno in giorno S'accorge che la sua virtute avanza; Si m'accors' io che il mio girare intorno Col cielo insieme avea cresciuto l' arco, 62

Veggendo quel miracol più adorno. E quale è il trasmutare in picciol varco 64 Di tempo in bianca donna, quando il volto

Suo si discarchi di vergogna il carco; Tal fu negli occhi miei, quando fui volto, 67 Per lo candor della temprata stella Sesta, che dentro a sè m' avea ricolto. Io vidi in quella giovial facella Lo sfavillar dell' amor che li era, Segnare agli occhi miei nostra favella. E come augelli surti di riviera,

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Che venissero al ciel, fur di gran voce, Si ch' ogni Musa ne sarebbe opima. Però mira nei corni della croce ;

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Parea ciascuna rubinetto, in cui
Raggio di sole ardesse si acceso,
Che ne' miei occhi rifrangesse lui.
E quel che mi convien ritrar testeso,
Non portò voce mai, nè scrisse in-
chiostro,

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II

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Nè fu per fantasia giammai compreso ; Ch' io vidi, ed anco udii parlar lo rostro, E sonar nella voce ed 'Io' e 'Mio,' Quand'era nel concetto 'Noi' e 'Nostro.' E cominciò: 'Per esser giusto e pio Son io qui esaltato a quella gloria, Che non si lascia vincere a disio; Ed in terra lasciai la mia memoria Si fatta, che le genti li malvage Commendan lei, ma non seguon la storia.'

Così un sol calor di molte brage

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Si fa sentir, come di molti amori Usciva solo un suon di quella image. Ond' io appresso: 'O perpetui fiori Dell' eterna letizia, che pur uno Parer mi fate tutti i vostri odori, Solvetemi spirando il gran digiuno Che lungamente m' ha tenuto in fame, Non trovandogli in terra cibo alcuno. Ben so io che, se in cielo altro reame La divina giustizia fa suo specchio, Che 'l vostro non l'apprende con velame. Sapete come attento io m' apparecchio 31 Ad ascoltar; sapete quale è quello Dubbio, che m'è digiun cotanto vecchio.' Quasi falcone ch' esce del cappello, Move la testa, e coll' ali si plaude, Voglia mostrando e facendosi bello, Vid' io farsi quel segno, che di laude Della divina grazia era contesto, Con canti, quai si sa chi lassù gaude. Poi cominciò: 'Colui che volse il sesto 40 All' estremo del mondo, e dentro ad

esso

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Quando si partiranno i due collegi, L'uno in eterno ricco, e l' altro inope. Che potran dir li Persi ai vostri regi, 112 Come vedranno quel volume aperto, Nel qual si scrivon tutti i suoi dispregi? Li si vedrà tra l' opere d' Alberto Quella che tosto moverà la penna, Per che il regno di Praga fia deserto. Li si vedrà il duol che sopra Senna Induce, falseggiando la moneta, Quei che morrà di colpo di cotenna. Li si vedrà la superbia ch' asseta,

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Che fa lo Scotto e l' Inghilese folle, Si che non può soffrir dentro a sua meta.

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Di quel che guarda l' isola del foco, Dove Anchise fini la lunga etate; Ed a dare ad intender quanto è poco, 133 La sua scrittura fien lettere mozze, Che noteranno molto in parvo loco. E parranno a ciascun l' opere sozze Del barba e del fratel, che tanto egregia Nazione, e due corone han fatte bozze. E quel di Portogallo, e di Norvegia Lì si conosceranno, e quel di Rascia Che mal ha visto il conio di Vinegia. O beata Ungaria, se non si lascia Più malmenare! E beata Navarra, Se s' armasse del monte che la fascia! E creder dee ciascun che già, per arra 145 Di questo, Nicosia e Famagosta Per la lor bestia si lamenti e garra, Che dal fianco dell' altre non si scosta.' 148

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Per lo suo becco in forma di parole, Quali aspettava il core ov' io le scrissi. 'La parte in me che vede, e pate il sole 31 Nell' aquile mortali,' incominciommi, Or fisamente riguardar si vuole, Perchè dei fochi, ond' io figura fommi, 34 Quelli onde l'occhio in testa mi scintilla, E' di tutti i lor gradi son li sommi. Colui che luce in mezzo per pupilla, Fu il cantor dello Spirito Santo, Che l'arca traslatò di villa in villa. Ora conosce il merto del suo canto, In quanto effetto fu del suo consiglio, Per lo remunerar ch' è altrettanto. Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, 43 Colui che più al becco mi s' accosta, La vedovella consolò del figlio.

Ora conosce quanto caro costa

Non seguir CRISTO, per l' esperienza

Di questa dolce vita, e dell' opposta.

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E quel che segue in la circonferenza
Di che ragiono, per l' arco superno,
Morte indugiò per vera penitenza,
Ora conosce che il giudizio eterno
Non si trasmuta, quando degno preco
Fa crastino laggiù dell' odierno.
L'altro che segue, con le leggi e meco, 55
Sotto buona intenzion che fe' mal frutto,
Per cedere al pastor, si fece Greco,
Ora conosce come il mal dedutto
Dal suo bene operar non gli è nocivo,
Avvegna che sia il mondo indi distrutto.
E quel che vedi nell' arco declivo,
Guglielmo fu, cui quella terra plora
Che piange Carlo e Federico vivo.
Ora conosce come s' innamora

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Lo ciel del giusto rege, ed al sembiante Del suo fulgore il fa vedere ancora. Chi crederebbe giù nel mondo errante, 67 Che Rifeo Troiano in questo tondo Fosse la quinta delle luci sante.? Ora conosce assai di quel che il mondo 70 Veder non può della divina grazia, Benchè sua vista non discerna il fondo.' Quale allodetta che in aere si spazia Prima cantando, e poi tace contenta Dell' ultima dolcezza che la sazia, Tal mi sembiò l' imago della imprenta 76 Dell' eterno piacere, al cui disio Ciascuna cosa, quale ell' è, diventa. Ed avvegna ch' io fossi al dubbiar mio 79 Lì quasi vetro allo color che il veste, Tempo aspettar tacendo non patio; Ma della bocca: 'Che cose son queste?' 82 Mi pinse con la forza del suo peso; Per ch' io di corruscar vidi gran feste. Poi appresso con l'occhio più acceso Lo benedetto segno mi rispose, Per non tenermi in ammirar sospeso: 'Io veggio che tu credi queste cose, Perch' io le dico, ma non vedi come; Si che, se son credute, sono ascose, Fai come quei che la cosa per nome Apprende ben; ma la sua quiditate Veder non può, se altri non la prome. Regnum coelorum violenza pate

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Da caldo amore e da viva speranza, Che vince la divina volontate; Non a guisa che l' uomo all' uom sopranza, Ma vince lei perchè vuole esser vinta, 98 E vinta vince con sua beninanza,

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La prima vita del ciglio e la quinta
Ti fa maravigliar, perchè ne vedi
La region degli Angeli dipinta.
Dei corpi suoi non uscir, come credi, 103
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede,
Quel dei passuri, e quel dei passi piedi ;
Chè l' una dello Inferno, u' non si riede 106
Giammai a buon voler, tornò all' ossa,
E ciò di viva speme fu mercede;
Di viva speme, che mise la possa

Ne' preghi fatti a Dio per suscitarla, Si che potesse sua voglia esser mossa. L' anima gloriosa onde si parla,

Tornata nella carne, in che fu poco, Credette in Lui che poteva aiutarla; E credendo s' accese in tanto foco

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Di vero amor, ch' alla morte seconda Fu degna di venire a questo gioco. L'altra, per grazia che da si profonda 118 Fontana stilla, che mai creatura

Non pinse l'occhio infino alla prim' onda,

Tutto suo amor laggiù pose a drittura; 121

Per che di grazia in grazia Dio gli aperse L'occhio alla nostra redenzion futura: Ond' ei credette in quella, e non sofferse

Da indi il puzzo più del paganesmo, 125 E riprendiene le genti perverse. Quelle tre donne gli fur per battesmo, 127 Che tu vedesti dalla destra rota, Dinanzi al battezzar più d' un millesmo. O predestinazion, quanto remota È la radice tua da quegli aspetti Che la prima cagion non veggion tota!

E voi, mortali, tenetevi stretti

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A giudicar; chè noi che Dio vedemo Non conosciamo ancor tutti gli eletti;

Ed enne dolce così fatto scemo,

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CANTO VENTESIMOPRIMO.

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Già eran gli occhi miei rifissi al volto
Della mia Donna, e l' animo con essi,
E da ogni altro intento s' era tolto;
E quella non ridea, ma: 'S' io ridessi,' +
Mi cominciò, 'tu ti faresti quale
Fu Semelè, quando di cener fessi;
Chè la bellezza mia, che per le scale
Dell' eterno palazzo più s' accende,
Com' hai veduto, quanto più si sale,
Se non si temperasse, tanto splende,
Che il tuo mortal potere al suo fulgore
Sarebbe fronda che tuono scoscende.
Noi sem levati al settimo splendore,
Che sotto il petto del Leone ardente
Raggia mo misto giù del suo valore.
Ficca diretro agli occhi tuoi la mente, 16
E fa di quegli specchi alla figura,
Che in questo specchio ti sarà parvente.'
Chi sapesse qual era la pastura

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Tanto che nol seguiva la mia luce. Vidi anco per li gradi scender giuso Tanti splendor, ch' io pensai ch' ogni lume

Che par nel ciel quindi fosse diffuso. E come per lo natural costume

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Le pole insieme al cominciar del giorno Si movono a scaldar le fredde piume; Poi altre vanno via senza ritorno, Altre rivolgon sè onde son mosse, Ed altre roteando fan soggiorno; Tal modo parve a me che quivi fosse In quello sfavillar che insieme venne, Si come in certo grado si percosse ; E quel che presso più ci si ritenne, Si fe' si chiaro, ch' io dicea pensando : 'Io veggio ben l' amor che tu m' accenne.'

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