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All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;

Tu sí placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni

Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando ne' danni
Del servo italo nome,

Sotto barbaro piede

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Rintronerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo

E la fera e l'augello,

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Siam delle cose; e non le tinte glebe,

Non gli ululati spechi

Turbò nostra sciagura,

Né scolorò le stelle umana cura.

Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi

Regi, o la terra indegna,

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E non la notte moribondo appello:
Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placar singulti, ornàr parole e doni
Di vil caterva? In peggio

Precipitano i tempi; e mal s'affida
A putridi nepoti

L'onor d'egregie menti e la suprema
De' miseri vendetta. A me dintorno
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, e il nembo

Tratti l'ignota spoglia;

E l'aura il nome e la memoria accoglia.

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Perché i celesti danni
Ristori il sole, e perché l'aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
Delle nubi la grave ombra s'avvalla;
Credano il petto inerme

Gli augelli al vento, e la diurna luce
Novo d'amor desio, nova speranza
Ne' penetrati boschi e fra le sciolte
Pruine induca alle commosse belve;
Forse alle stanche e nel dolor sepolte
Umane menti riede

La bella età, cui la sciagura e l'atra
Face del ver consunse

Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti

Di febo i raggi al misero non sono

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In sempiterno? ed anco,

Primavera odorata, inspiri e tenti

Questo gelido cor, questo ch'amara

Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?

Vivi tu, vivi, o santa

Natura? vivi e il dissueto orecchio
Della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
Placido albergo e specchio

Furo i liquidi fonti. Arcane danze
D'immortal piede i ruinosi gioghi
Scossero e l'ardue selve (oggi romito
Nido de' venti): e il pastorel ch'all'ombre
Meridiane incerte ed al fiorito

Margo adducea de' fiumi

Le sitibonde agnelle, arguto carme
Sonar d'agresti Pani

Udí lungo le ripe; e tremar l'onda
Vide e stupí, che non palese al guardo
La faretrata Diva

Scendea ne' caldi flutti, e dall'immonda
Polve tergea della sanguigna caccia
Il niveo lato e le verginee braccia.

Vissero i fiori e l'erbe,

Vissero i boschi un dí. Conscie le molli
Aure, le nubi e la titania lampa

Fur dell' umana gente, allor che ignuda
Te per le piagge e i colli,

Ciprigna luce, alla deserta notte

Con gli occhi intenti il viator seguendo,
Te compagna alla via, te de' mortali
Pensosa immaginò. Che se gl'impuri
Cittadini consorzi e le fatali
Ire fuggendo e l'onte,

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Gl' ispidi tronchi al petto altri nell'ime
Selve remoto accolse,

Viva fiamma agitar l' esangui vene,

Spirar le foglie, e palpitar segreta

Nel doloroso amplesso

Dafne o la mesta Filli, o di Climene
Pianger credé la sconsolata prole

Quel che sommerse in Eridano il sole.

Né dell' umano affanno,

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Rigide balze, i luttuosi accenti

Voi negletti ferir mentre le vostre

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Paurose latebre Eco solinga,

Non vano error de' venti,

Ma di ninfa abitò misero spirto,
Cui grave amor, cui duro fato escluse

Delle tenere membra. Ella per grotte,
Per nudi scogli e desolati alberghi,

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Le non ignote ambasce e l'alte e rotte
Nostre querele al curvo

Etra insegnava. E te d' umani eventi
Disse la fama esperto,

Musico augel che tra chiomato bosco
Or vieni il rinascente anno cantando,
E lamentar nell'alto

Ozio de' campi, all'aer muto e fosco,
Antichi danni e scellerato scorno,
E d'ira e di pietà pallido il giorno.

Ma non cognato al nostro
Il gener tuo; quelle tue varie note

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