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XVIII.

ALLA SUA DONNA.

nen

Cara beltà che amore

Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,

Fuor se nel sonno il core

Ombra diva mi scuoti,

O ne' campi ove splenda

Piú vago il giorno e di natura il riso;

Forse tu l'innocente

Secol beasti che dall'oro ha nome,

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S'allor non fosse, allor che ignudo e solo

Per novo calle a peregrina stanza

Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s'anco pari alcuna

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Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria cosí conforme, assai men bella.

Fra cotanto dolore

Quanto all'umana età propose il fato,

Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:

E ben chiaro vegg' io siccome ancora
Seguir loda e virtú qual ne' prim' anni
L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;

E teco la mortal vita saria

Simile a quella che nel cielo india.

Per le valli, ove suona

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Del faticoso agricoltore il canto,

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Ed io seggo e mi lagno

Del giovanile error che m'abbandona;

E per li poggi, ov' io rimembro e piagno

I perduti desiri, e la perduta

Speme de' giorni miei; di te pensando,

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A palpitar mi sveglio. E potessio,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L'alta specie serbar; che dell'imago,
Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.

Se dell'eterne idee

L'una sei tu, cui di sensibil forma

Sdegni l'eterno senno esser vestita,

E fra caduche spoglie

LEOPARDI, Opere approvate. - Vol. I, Poesie,

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Provar gli affanni di funerea vita;

O s'altra terra ne' superni giri
Fra' mondi innumerabili t'accoglie,
E piú vaga del Sol prossima stella
T'irraggia, e piú benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d'ignoto amante inno ricevi.

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XIX.

AL CONTE

CARLO PEPOLI.

Questo affannoso e travagliato sonno
Che noi vita nomiam, come sopporti,
Pepoli mio? di che speranze il core
Vai sostentando? in che pensieri, in quanto
O gioconde o moleste opre dispensi
L'ozio che ti lasciar gli avi remoti,
Grave retaggio e faticoso? È tutta,
In ogni umano stato, ozio la vita,

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Se quell'oprar, quel procurar che a degno
Obbietto non intende, o che all'intento
Giunger mai non potria, ben si conviene

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Ozioso nomar. La schiera industre

Cui franger glebe o curar piante e greggi

Vede l'alba tranquilla e vede il vespro,

Se oziosa dirai, da che sua vita

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È per campar la vita, e per se sola

La vita all'uom non ha pregio nessuno,

Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni

Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne

Sudar nelle officine, ozio le vegghie

Son de' guerrieri e il perigliar nell'armi;
E il mercatante avaro in ozio vive:

Che non a se, non ad altrui, la bella
Felicità, cui solo agogna e cerca
La natura mortal, veruno acquista

Per cura o per sudor, vegghia o periglio.
Pure all'aspro desire onde i mortali

Già sempre infin dal dí che il mondo nacque
D'esser beati sospiraro indarno,

Di medicina in loco apparecchiate

Nella vita infelice avea natura

Necessità diverse, a cui non senza

Opra e pensier si provvedesse, e pieno,
Poi che lieto non può, corresse il giorno
All' umana famiglia; onde agitato

E confuso il desio, men loco avesse
Al travagliarne il cor. Cosí de' bruti
La progenie infinita, a cui pur solo,
Né men vano che a noi, vive nel petto
Desio d'esser beati; a quello intenta

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Che a lor vita è mestier, di noi men tristo
Condur si scopre e men gravoso il tempo,
Né la lentezza accagionar dell' ore.

Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano
Provveder commettiamo, una piú grave
Necessità, cui provveder non puote
Altri che noi, già senza tedio e pena
Non adempiam: necessitate, io dico,
Di consumar la vita: improba, invitta
Necessità, cui non tesoro accolto,

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