Non di greggi dovizia, o pingui campi,
Non aula puote e non purpureo manto
Sottrar l' umana prole. Or s'altri, a sdegno
I vòti anni prendendo, e la superna Luce odiando, l'omicida mano,
Medicine procaccia, onde quell' una Cui natura apprestò, mal si compensa.
Lui delle vesti e delle chiome il culto E degli atti e dei passi, e i vani studi Di cocchi e di cavalli, e le frequenti Sale, e le piazze romorose, e gli orti, Lui giochi e cene e invidiate danze
Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto, Nell' imo petto, grave, salda, immota
Come colonna adamantina, siede
Noia immortale, incontro a cui non puote Vigor di giovanezza, e non la crolla. Dolce parola di rosato labbro,
E non lo sguardo tenero, tremante, Di due nere pupille, il caro sguardo, La piú degna del ciel cosa mortale.
Altri, quasi a fuggir volto la trista Umana sorte, in cangiar terre e climi
L'età spendendo, e mari e poggi errando, Tutto l'orbe trascorre, ogni confine Degli spazi che all'uom negl' infiniti Campi del tutto la natura aperse, Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside Su l'alte prue la negra cura, e sotto Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno. Felicità, vive tristezza e regna.
Havvi chi le crudeli opre di marte Si elegge a passar l'ore e nel fraterno Sangue la man tinge per ozio; ed havvi Chi d'altrui danni si conforta, e pensa Con far misero altrui far se men tristo, Sí che nocendo usar procaccia il tempo. E chi virtute o sapienza ed arti Perseguitando; e chi la propria gente Conculcando e l'estrane, o di remoti
Lidi turbando la quiete antica
Col mercatar, con l'armi e con le frodi, La destinata sua vita consuma.
Te piú mite desio, cura piú dolce Regge nel fior di gioventú, nel bello April degli anni, altrui giocondo e primo Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto A chi patria non ha. Te punge e move Studio de' carmi e di ritrar parlando Il bel che raro e scarso e fuggitivo Appar nel mondo, e quel che piú benigna Di natura e del ciel, fecondamente
Che nella ferma e nella stanca etade, Cosí come solea nell' età verde,
In suo chiuso pensier natura abbella, Morte, deserto avviva. A te conceda
Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo La favilla che il petto oggi ti scalda,
Di poesia canuto amante. Io tutti Della prima stagione i dolci inganni Mancar già sento, e dileguar dagli occhi Le dilettose immagini, che tanto Amai, che sempre infino all'ora estrema Mi fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito e freddo Questo petto sarà, né degli aprichi Campi il sereno e solitario riso, Né degli augelli mattutini il canto Di primavera, né per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna. Commoverammi il cor; quando mi fia Ogni beltate o di natura o d'arte,
Fatta inanime e muta; ogni alto senso, Ogni tenero affetto, ignoto e strano; Del mio solo conforto allor mendico, Altri studi men dolci, in ch' io riponga L'ingrato avanzo della ferrea vita,
Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortali E dell'eterne cose; a che prodotta, A che d'affanni e di miserie carca L'umana stirpe; a quale ultimo intento Lei spinga il fato e la natura; a cui Tanto nostro dolor diletti o giovi: Con quali ordini e leggi a che si volva Questo arcano universo; il qual di lode Colmano i saggi, io d'ammirar son pago.
In questo specolar gli ozi traendo Verrò che conosciuto, ancor che tristo, Ha suoi diletti il vero. E se del vero Ragionando talor, fieno alle genti O mal grati i miei detti o non intesi, Non mi dorrò, che già del tutto il vago Desio di gloria antico in me fia spento: Vana Diva, non pur, ma di fortuna E del fato e d'amor, Diva piú cieca.
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