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De la nativa terra!

E oh come irato il carme
Con impeto di guerra

Suonò vendetta ed arme!

Pietosamente a noi per fermo il Cielo
Te concedeva, quando

(Spettacol miserando)

D'ozïosa sventura Italia bruna,

Più non parea nessuna

Sentir vergogna di sofferte offese,
Incitator d'imprese

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Che faccian forza a così rea fortuna.
Faranno; e allor che in libertà riscossa
L'altera donna fia che in basso è volta,
E a cui sacrasti ingegno

E duolo e speme e sdegno,

Te certo ella porrà splendido segno
Fra i gloriosi che le infuser possa,
Se, fatta ignava e stolta,

Servitù non l'aspetti un'altra volta.

Della sottoscrizione pubblica non si fece nulla. Sette anni dopo la morte dell'amico, il non immemore Ranieri tentò di trasferirne le ceneri dalla cella sotterranea in un modesto monumento che si proponeva d'elevargli entro la medesima chiesetta di San Vitale. Ma nella chiesa non gli fu possibile di tumulare il Job insieme e il Lucrezio del pensiero italiano „ (la frase è del Carducci). Ben altre difficoltà che le igieniche s'ergevàno ora innanzi, formidabili, al generoso suo zelo. Pure in Napoli, dove i libri e i giornali francesi avevano una tal quale diffusione, era stato letto e commentato "l'articolo del SainteBeuve nella Revue des deux mondes del 15 settembre 1844, ove le opinioni filosofiche del Leopardi erano spiattellate ed era trascritta la lettera del Leopardi al De Sinner del 24 maggio 1832, che è, come tutti ricordano, una esplicita professione di fede, cioè di non fede, e il Bruto Minore v'è citato come la formula poetica di una tal professione,,. Nacque, dunque, com'era naturale, "il sospetto di un'infezione anche più terribile, l'infezione dell'anima; e la gente timo

rata, o quella che teneva a passar per timorata, non poteva veder di buon occhio che in una chiesa si seppellisse un miscredente. Così, per poco il SainteBeuve, col suo bellissimo saggio critico, non fece che le ossa del povero Leopardi avessero la sorte delle ossa di Manfredi. Si finì col mezzo termine di allogare le stanche ceneri nel piccolo portico che fa da vestibolo alla chiesetta. Colà il poeta sta non sai dire se come chi non sia riuscito a entrar nella chiesa o come chi sia invece riuscito a venirne fuori; e certo risparmia così, ai suoi ammiratori miscredenti o intolleranti, il fastidio di penetrar nel tempio per adorare il dio (D'OVIDIO, Un curioso docum. concern. il L., nel "Corriere della Sera, del 12 genn. 1898).

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Il piccolo monumento fu disegnato e diretto dall'architetto Michele Ruggiero; l'iscrizione dettata dal Giordani, e suona così:

AL CONTE GIACOMO LEOPARDI RECANATESE
FILOLOGO AMMIRATO FUORI D'ITALIA

SCRITTORE DI FILOSOFIA E DI POESIE ALTISSIMO
DA PARAGONARE SOLAMENTE COI GRECI
CHE FINÌ DI XXXIX ANNI LA VITA
PER CONTINUE MALATTIE MISERISSIMA

FECE ANTONIO RANIERI

PER VII ANNI FINO ALL'ESTREMA ORA CONGIUNTO

ALL'AMICO ADORATO MDCCCXXXVII.

Narra ancora nelle sue Memorie (p. 117-18) il De Sanctis; il quale, per campar dall'epidemia, s'era rifugiato per poco nel suo paesello nativo (Morra, presso Avelino), e ora, annoiato, tornava alla città:

Trovai in Napoli il colera un po' rimesso. Gli studenti tornavano, le scuole si riaprivano. La novità era l'edizione fatta di fresco delle poesie di Giacomo Leopardi. Io ne andavo pazzo, sempre con quel libro in mano. Conoscevo già la canzone sull'Italia. Allora tutto il mio entusiasmo era per Consalvo e per Aspasia.... Consalvo mi fece dimenticare Ugolino. Lo andavo declamando anche per via, e parevo un ebbro, come Colombo per le vie di Madrid, quando pensava al nuovo mondo. Lo declamavo in tutte le occasioni, e mi c'intenerivo.... E mi ricordo che, per un delicato riguardo alle signorine, dove il poeta diceva bacio, io mettevo guardo. Poco poi seppi che il gran poeta era

morto. Come, quando, dove, non si sapeva. Pareva che un'ombra oscura lo avvolgesse e ce lo rubasse alla vista. Le immaginazioni, percosse da tante morti, poco rimasero impressionate da quella morte misteriosa.

Riferendosi poi a un di quegli anni che precedettero di poco il Quarantotto, il De Sanctis medesimo, che oramai, sotto l'alto patrocinio del Puoti, aveva aperto un proprio Studio, dove dall'insegnamento della grammatica e della rettorica era salito sù sù fino alle vette più alte della critica letteraria, narra (La giovinezza, p. 277 ss.):

Venendo ai nostri tempi, toccato del Parini e del Foscolo, mi fermai sopra il Manzoni e il Leopardi.... Leopardi era il nostro beniamino. Avevo acceso di lui tale ammirazione, che l'edizione dello Starita fu spacciata in pochi giorni. Quasi non v'era dì che, per un verso o per l'altro, non si parlasse di lui. Si recitavano i suoi Canti, tutti con uguale ammirazione; non c'era ancora un gusto così squisito da fare distinzioni; e poi, ci sarebbe parsa una irriverenza. Eravamo non critici, ma idolatri. Le canzoni patriottiche ci parevano miracoli di genio, ci aggiungevamo i nostri sottintesi. Quelle Silvie e quelle Nerine ci rapivano nei cieli; quel Canto del pastoré errante ei percoteva di stupore. Una sola poesia non fu potuta digerire, nè io nè alcuno la potemmo leggere dall' un capo all'altro: I Paralipomeni 1. Anche la Batracomiomachia ci pesava. Vennero molti

a

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1 Qui forse il D. S. fu tradito dalla memoria, e confuse tempi diversi; chè i Paralipomeni, lasciati inediti e senza le ultime cure dal poeta un poemetto satirico in otto canti e in ottava rima, non però riveduto dall'autore, avendomene dettato l'ultimo canto la sera innanzi la sua morte scriveva il 28 giugno '37 il Ranieri al DeSinner (Nuovi documenti ecc., p. 268), eran tal cosa "che mai nessuna censura italiana potrebbe essere indotta a permettere,, asseriva il Ranieri stesso (p. 281). Il quale provvide perciò che fossero stampati a Parigi dal Baudry, nel 1842 (p. 278); e solo più tardi, nel '45, furon ristampati in Italia dal Le Monnier, simulando però l'edizione parigina (cfr. MESTICA, nella prefazione alle Poesie di G. L., Firenze, Barbèra, 1897, p. XIX; e F. P. LUISO, Ranieri e L., storia di una edizione, Firenze 1899). Or come mai un libro così pericoloso, da consigliare il Ranieri a non nominarlo altrimenti che Volgarizzamento di Giovenale per paura delle poste (LUISO, p. 57), è presumibile che penetrasse in Napoli e andasse per le mani del maestro e degli scolari?

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di fuori a sentire le mie lezioni sopra Leopardi, nome popolare in Napoli. Io lo chiamai il primo poeta d'Italia dopo Dante. Trovavo in lui una profondità di concepire e una verità di sentimento, di cui troppo scarso vestigio è nei nostri poeti. Lo giudicai voce del secolo più che interprete del sentimento nazionale, una di quelle voci eterne che segnano a grandi intervalli la storia del mondo.... Nei nostri tempi il critico e il filosofo coesistono nella mente, accanto al poeta; onde nasce una poesia riflessa. L'intelletto come tarlo penetra nella fantasia ; ma nei grandi poeti la fantasia sommerge e sperde in sè il concetto, e lo profonda in modo nella forma, che solo più tardi un'acuta riflessione può ritrovarlo.... Leopardi ha dovuto conquistarsi lui il suo concetto, e si vede il lavorìo della mente dalle sue fluttuazioni. Ma quel concetto diventò sua passione e sua immagine, e qui è l'eccellenza della sua poesia. Il suo concetto è una faccia del secolo decimottavo e decimonono, lui incosciente, che lo attinse nella vigoria e originalità del suo pensiero. Ma è poeta, perchè quel concetto è lui, è la sua carne e il suo sangue, il suo tiranno e il suo carnefice, ed è insieme il germe che, fecondato nella fantasia, genera le più amabili creature poetiche. Le sue più belle poesie sono quelle in cui la forma è vera persona poetica, di modo che il concetto vi apparisce come immedesimato ed obbliato nell' individuo, con appena un barlume della coscienza di sè. Così è nell'Infinito, nella Saffo, nel Bruto, nella Silvia, nella Nerina [Le ricordanze], nel Consalvo, nell'Aspasia. Quando il concetto non sia persona poetica, è necessario che sia almeno non una intellezione, ma uno stato appassionato dell'anima, o una visione della fantasia, com'è nei Salmi e nelle Profezie e negl'Inni, e come nel canto Alla Luna, in Amore e Morte, nel Pensiero dominante. Al contrario, malgrado i fulmini di Pietro Giordani, tenni poesia mediocre la Ginestra, dove la base poetica è occasionale, il concetto rimane nella sua astrattezza filosofica, e si esprime per via di argomentazioni e di ragionamenti. Dissi che, appunto presso al nostro Vulcano, s'era spento quel vulcano poetico.... Accompagnavo le teorie con frequenti letture di quelle poesie, dove avevo modo di scendere nei più fini particolari della poesia e dello stile. Coronammo quelle lezioni con un pio pellegrinaggio alla tomba di Giacomo Leopardi. Divisi in piccoli gruppi, ci demmo la posta al di là della Grotta di Pozzuoli. Quei paesani ci guardavano con gli occhi grandi, e ci presero quindi per una processione di devoti, che andavano in chiesa a sciogliere non so qual voto. Noi ci fermammo con religioso raccoglimento innanzi alla lapide.

Nel giugno del 1897, avvicinandosi il primo centenario della nascita del sommo poeta, per iniziativa del senatore Filippo Mariotti, il Senato del Regno prima e la Camera dei Deputati dopo, consenziente il ministro Emanuele Gianturco, provvidero per legge alla conservazione e custodia di quella tomba; che con decreto regio del 4 luglio fu dichiarata monumento nazionale. (La legge per la tomba di G. L., Roma 1897).

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