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LA VITA DEL POETA

NARRATA DI SU L'EPISTOLARIO

Avvertenza.

Adopero e cito, per l'Epistolario, la quinta ristampa, in tre volumi, Firenze, Successori Le Monnier, 1892; per lo Zibaldone, l'unica edizione, ancora in corso di stampa, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura di G. L., Firenze, Succ. Le Monnier, 1898-1900, voll. I a V.

Dell'Epistolario leopardiano F. de Sanctis ebbe a scrivere (Saggi critici, Napoli 1874, pag. 212 ss.): Queste lettere sono il più eloquente commento delle sue scritture, e la materia quasi ancor grezza ch'egli nelle poesie lavorò e condusse a tanta perfezione...; sono pietoso racconto dei casi della sua vita, e quasi ritratto dell'animo dello scrittore... Ei non vide quaggiù cosa alcuna pari al suo animo, che valesse i moti del suo cuore; e più che il dolore, l'inerzia, quasi ruggine, consumò la sua vita; solo, in questo ch'ei chiamava formidabile deserto del mondo. In tanta solitudine la vita diviene un dialogo dell'uomo con la sua anima, e gl'interni colloquii rendon più acerbi ed intensi gli affetti rifuggitisi ama. ramente nel cuore, poi che loro mancò nutrimento in terra. Tristi colloquii e pur cari, onde l'uomo, suicida avoltoio, rode perennemente sè stesso, ed accarezza la piaga che lo conduce alla tomba „. Mi occorrerà anche spesso di citare:

Lettere scritte a Giacomo Leopardi dai suoi parenti, a cura di G. Piergili; Firenze, Succ. Le Monnier, 1878.

Scritti letterari di Giacomo Leopardi, ordinati e riveduti per cura di GIOVANNI MESTICA, Voll. due; Firenze, Succ. Le Monnier, 1899. Nuovi documenti intorno agli scritti e alla vita di Giacomo Leopardi, rac

colti e pubblicati da G. PIERGILI; Firenze, Succ. Le Monnier, 1892.

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All'amico bolognese conte Carlo Pèpoli che ne lo aveva richiesto, Giacomo Leopardi scriveva nel 1826, mentre si trovava anch'egli a Bologna (Epist. II, 173-5):

Ti mando le notizie poco notabili della mia vita....

Nato dal conte Monaldo Leopardi di Recanati, città della Marca di Ancona, e dalla marchesa Adelaide Antici della stessa città, ai 29 giugno del 1798, in Recanati.

Vissuto sempre nella patria fino all'età di 24 anni.

Precettori non ebbe se non per i primi rudimenti che apprese da pedagoghi, mantenuti espressamente in casa da suo padre. Bensì ebbe l'uso di una ricca biblioteca raccolta dal padre, uomo molto amante delle lettere.

In questa biblioteca passò la maggior parte della sua vita, finchè e quanto gli fu permesso dalla salute, distrutta da' suoi studi; i quali incominciò indipendentemente dai precettori in età di 10 anni, e continuò poi sempre senza riposo, facendone la sua unica occupazione.

Appresa, senza maestro, la lingua greca, si diede seriamente agli studi filologici, e vi perseverò per sette anni; finchè, rovinatasi la vista, e obbligato a passar un anno intero (1819) senza leggere, si volse a pensare, e si affezionò naturalmente alla filosofia; alla quale, ed alla bella letteratura che le è congiunta, ha poi quasi esclusivamente atteso fino al presente.

Di 24 anni passò a Roma, dove rifiutò la prelatura e le speranze di un rapido avanzamento offertogli dal cardinal Consalvi, per le vive istanze fatte in suo favore dal consiglier Niebuhr, allora Inviato straordinario della Corte di Prussia in Roma. Tornato in patria, di là passò a Bologna, ecc.

Pubblicò, nel corso del 1816 e 1817, varie traduzioni ed arti

coli originali nello Spettatore, giornale di Milano, ed alcuni articoli filologici nelle Effemeridi Romane del 1822:

1.° Guerra dei topi e delle rane, traduzione dal greco; Milano 1816: ristampata quattro volte in diverse collezioni.

2.o Inno a Nettuno (supposto), tradotto dal greco, novamente scoperto, con note e con appendice di due odi anacreontiche in greco (supposte) novamente scoperte; Milano, 1817. 3.0 Libro secondo dell'Eneide, tradotto; Milano, 1817. 4.o Annotazioni sopra la Cronica di Eusebio, pubblicata; l'anno 1818 in Milano dai dott. Angelo Mai e Giovanni Zohrab; Roma, 1823.

5.o Canzoni sopra l'Italia, sopra il monumento di Dante che si prepara in Firenze; Roma, 1818. Canzone ad Angelo Mai, quand'ebbe scoperto i libri di Cicerone della republica; Bologna, 1820. Canzoni (cioè Odes et non pas Chansons); Bologna, 1824.

6.o Martirio de' SS. Padri del Monte Sinai, e dell'Eremo di Raitù, composto da Ammonio Monaco, volgarizzamento (in lingua italiana del XIV secolo, supposto) fatto nel buon secolo della lingua italiana; Milano, 1826.

7. Saggio di operette morali; nell'Antologia di Firenze; nel nuovo Raccoglitore, giornale di Milano; e a parte, Milano, 1826, 8.° Versi (poesie varie); Bologna, 1826.

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II.

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Dei grandi poeti avviene come dei grandi conquistatori, e in generale come di tutti quegli eroi del pensiero o dell'azione che diventan cari al popolo. La fantasia popolare va intorno alla loro memoria con carezzosa e materna parzialità, li vagheggia, come direbbe Dante, or da coppa or da ciglio sacrificando ad essi ogni altro sentimento, compreso quello della giustizia e della verosimiglianza. Pur di renderne più eccelso il monumento, essa accumula nelle fondamenta di questo i cadaveri di quanti hanno avuta la sventura di aver con l'eroe relazioni perfin soltanto cronologiche. Ed è veramente curiosa la drammatica lotta che ogni giorno si combatte tra la leggenda, che cerca di penetrar di sorpresa negli accampamenti

della storia, e la critica che vigila per ricacciarla indietro. Si ripensi al Tasso. Per codesto prediletto infelice, indulgenza sconfinata ed ammirazione costante, pur quando le sue posteriori confessioni vengono a toglier fede alle accuse da lui pronunziate in momenti di defirio; pel duca Alfonso, pei suoi amici o rivali, pei suoi critici o corrispondenti, insaziabili pretese di longanimità, di liberalità, di tolleranza meglio che evangelica. Per lui, l'aureola della persecuzione e del martirio; per gli altri, la gogna come a persecutor o carnefici.

Qualcosa di simile è avvenuto col Leopardi. Della sua infelicità ineffabile la fantasia popolare (non dico plebea) ha voluto un responsabile, su cui poter saziare una generosa vendetta. Si ricordi i perfido ma umano e politico consiglio di Caifas ai Farisei:

che convenia

Porre un uom per lo popolo ai martìri.

E l'uomo, cui questa volta è toccata la parte di vittima, è stato proprio colui che pure aveva fatto al mondo il prezioso dono del grande poeta!

In verità chi indicò Monaldo alla esecrazione pubblica fu Giacomo medesimo. Scrivendo al Perticari, il 9 aprile 1821, una di quelle sue lettere disperate, diceva (Epist. I, 329-30):

Al vostro caro e pietoso invito rispondo ch'eccetto il caso di una próvvisione, io non vedrò mai cielo nè terra che non sia recanatese, prima di quell'accidente che la natura comanda ch'io tema, e che oltracciò, secondo natura, avverrà nel tempo della mia vecchiezza: dico la morte di mio padre. Il quale non ha altro a cuore di tutto ciò che m'appartiene, fuorchè lasciarmi vivere in quella stanza dov'io traggo tutta quanta la giornata, il mese, l'anno, contando i tocchi dell'oriuolo.

Par qui di sentir già mormorare quei versi, così mirabilmente belli, ma anch'essi così cupamente tristi, delle Ricordanze:

Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto

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