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Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno

Subito i sensi miei;

Move l'alma ogni esempio

Dell'umana viltà subito a sdegno.

Di questa età superba,

Che di vote speranze si nutrica,
Vaga di ciance, e di virtù nemica;
Stolta, che l'util chiede,

E inutile la vita

Quindi più sempre divenir non vede:
Maggior mi sento. A scherno

Ho gli umani giudizi; e il vario volgo
A' bei pensieri infesto,

E degno tuo disprezzator, calpesto.

A quello onde tu movi,

Quale affetto non cede?

Anzi qual altro affetto

Se non quell'uno intra i mortali ha sede ?

Avarizia, superbia, odio, disdegno,

Studio d'onor, di regno,

Che sono altro che voglie

Al paragon di lui? Solo un affetto
Vive tra noi: quest'uno,

Prepotente signore,

Dieder l'eterne leggi all'uman core.

Pregio non ha, non ha ragion la vita

Se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto;

Sola discolpa al fato,

Che noi mortali in terra

Pose a tanto patir senz'altro frutto;

Solo per cui talvolta,

Non alla gente stolta, al cor non vile

La vita della morte è più gentile.

Per cor le gioie tue, dolce pensiero,
Provar gli umani affanni,

E sostener molt'anni

Questa vita mortal, fu non indegno;

Ed ancor tornerei,

Cosi qual son de' nostri mali esperto,

Verso un tal segno a incominciare il corso:

Che tra le sabbie e tra il vipereo morso, Giammai finor si stanco

Per lo mortal deserto

Non venni a te, che queste nostre pene Vincer non mi paresse un tanto bene. Che mondo mai, che nova

Immensità, che paradiso è quello

Lȧ dove spesso il tuo stupendo incanto
Parmi innalzar! dov'io,

Sott'altra luce che l'usata errando,
Il mio terreno stato

E tutto quanto il ver pongo in obblio!
Tali son, credo, i sogni

Degl'immortali. Ahi finalmente un sogno

In molta parte onde s'abbella il vero
Sei tu, dolce pensiero;

Sogno e palese error. Ma di natura,

Infra i leggiadri errori,

Divina sei; perchè si viva e forte,
Che incontro al ver tenacemente dura,

E spesso al ver s'adegua,

Nè si dilegua pria, che in grembo a morte. E tu per certo, o mio pensier, tu solo

Vitale ai giorni miei,

Cagion diletta d'infiniti affanni,

Meco sarai per morte a un tempo spento:

Ch'a vivi segni dentro l'alma io sento

Che in perpetuo signor dato mi sei.
Altri gentili inganni

Soleami il vero aspetto

Più sempre infievolir. Quanto più torno

A riveder colei

Della qual teco ragionando io vivo,

Cresce quel gran diletto,

Cresce quel gran delirio, ond'io respiro.

Angelica beltade!

Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,

Quasi una finta imago

Il tuo volto imitar. Tu sola fonte

D'ogni altra leggiadria,

Sola vera beltȧ parmi che sia.

Da che ti vidi pria,

Di qual mia seria cura ultimo obbietto
Non fosti tu? quanto del giorno è scorso,
Ch'io di te non pensassi? ai sogni miei
La tua sovrana imago

Quante volte mancò? Bella qual sogno,
Angelica sembianza,

Nella terrena stanza,

Nell'alte vie dell'universo intero,

Che chiedo io mai, che spero

Altro che gli occhi tuoi veder più vago?
Altro più dolce aver che il tuo pensiero?

XXVII.

AMORE E MORTE.

*Ο οἱ θεοι φιλοῦσιν, ἀποθνήσκει νέος Muor giovane colui ch'al cielo è caro.

MENANDRO.

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte

Ingenerò la sorte.

Cose quaggiù si belle

Altre il mondo non ha, non han le stelle.

Nasce dall'uno il bene,

Nasce il piacer maggiore

Che per lo mar dell'essere si trova;

L'altra ogni gran dolore,

Ogni gran male annulla.

Bellissima fanciulla,

Dolce a veder, non quale

La si dipinge la codarda gente,

Gode il fanciullo Amore

Accompagnar sovente;

E sorvolano insiem la via mortale,
Primi conforti d'ogni saggio core.
Nè cor fu mai più saggio

Che percosso d'amor, nè mai più forte
Sprezzò l'infausta vita,

Nè per altro signore

Come per questo a perigliar fu pronto:
Ch'ove tu porgi aita,

Amor, nasce il coraggio,

O si ridesta; e sapiente in opre,

Non in pensiero invan, siccome suole,

Divien l'umana prole.

Quando novellamente

Nasce nel cor profondo

Un amoroso affetto,

Languido e stanco insiem con esso in petto

Un desiderio di morir si sente:

Come, non so: ma tale

D'amor vero e possente è il primo effetto.

Forse gli occhi spaura

Allor questo deserto: a sè la terra

Forse il mortale inabitabil fatta

Vede omai senza quella

Nova, sola, infinita

Felicità che il suo pensier figura:

Ma per cagion di lei grave procella
Presentendo in suo cor, brama quiete,

Brama raccorsi in porto

Dinanzi al fier disio,

Che gia, rugghiando, intorno intorno oscura. Poi, quando tutto avvolge

La formidabil possa,

E fulmina nel cor l'invitta cura,

Quante volte imploratal

Con desiderio intenso,

Morte, sei tu dall'affannoso amante!

Quante la sera, e quante

Abbandonando all'alba il corpo stanco,

Sè beato chiamò s'indi giammai

Non rilevasse il fianco,

Nè tornasse a veder l'amara luce!

E spesso al suon della funebre squilla,
Al canto che conduce

La gente morta al sempiterno obblio,
Con più sospiri ardenti

Dall'imo petto invidió colui

Che tra gli spenti ad abitar sen giva.
Fin la negletta plebe,

L'uom della villa, ignaro

D'ogni virtù che da saper deriva,

Fin la donzella timidetta e schiva,
Che già di morte al nome
Senti rizzar le chiome,

Osa alla tomba, alle funeree bende
Fermar lo sguardo di costanza pieno,
Osa ferro e veleno

Meditar lungamente,

E nell'indotta mente

La gentilezza del morir comprende.
Tanto alla morte inclina

D'amor la disciplina. Anco sovente,
A tal venuto il gran travaglio interno
Che sostener nol può forza mortale,
O cede il corpo frale

Ai terribili moti, e in questa forma
Pel fraterno poter Morte prevale;
O cosi sprona Amor là nel profondo,
Che da se stessi il villanello ignaro,
La tenera donzella

Con la man violenta

Pongon le membra giovanili in terra.
Ride ai lor casi il mondo,

A cui pace e vecchiezza il ciel consenta. Ai fervidi, ai felici,

Agli animosi ingegni

L'uno o l'altro di voi conceda il fato,
Dolci signori, amici

All'umana famiglia,

Al cui poter nessun poter somiglia Nell'immenso universo, e non l'avanza, Se non quella del fato, altra possanza. E tu, cui già dal cominciar degli anni Sempre onorata invoco,

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