E se appressar lo vede, o se nel cupo Suo nido, e il picciol campo Che gli fu dalla fame unico schermo, Che crepitando giunge, e inesorato. Dopo l'antica obblivion, l'estinta Scheletro, cui di terra Avarizia o pietà rende all'aperto; Diritto infra le file De' mozzi colonnati il peregrino Ch'alla sparsa ruina ancor minaccia. Per li vacui teatri, Per li templi deformi e per le rotte Che per voti palagi atra s'aggiri, Corre il baglior della funerea lava, Che di lontan per l'ombre Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. Cosi, dell'uomo ignara e dell'etadi Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno Dopo gli avi i nepoti, Sta natura ognor verde, anzi procede Per si lungo cammino, Che sembra star. Caggiono i regni intanto, Passan genti e linguaggi: ella nol vede: Che di selve odorate Queste campagne dispogliate adorni, Già noto, stenderá l'avaro lembo Ma non piegato insino allora indarno E la sede e i natali Non per voler ma per fortuna avesti; Ma più saggia, ma tanto Meno inferma dell'uom, quanto le frali Tue stirpi non credesti O dal fato o da te fatte immortali. XXXV. IMITAZIONE. Lungi dal proprio ramo, Povera foglia frale, Dove vai tu? Dal faggio Lá dov'io nacqui, mi divise il vento. Esso, tornando, a volo Dal bosco alla campagna, Dalla valle mi porta alla montagna. Seco perpetuamente Vo pellegrina, e tutto l'altro ignoro. Vo dove ogni altra cosa, Dove naturalmente Va la foglia di rosa, E la foglia d'alloro. XXXVI. SCHERZO. Quando fanciullo io venni A pormi con le Muse in disciplina, La mi condusse intorno A che ciascun di loro Delle prose e de' versi. Io mirava, e chiedea: Musa, la lima ov'è? Disse la Dea: La lima è consumata; or facciam senza. Non vi cal, soggiungea, quand'ella è stanca? FRAMMENTI. XXXVII. ALCETA. Odi, Melisso: io vo' contarti un sogno Che quanto nel cader s'approssimava, Tanto crescesse al guardo; infin che venne Si forte come quando un carbon vivo E ne fumavan l'erbe intorno intorno. Allor mirando in ciel, vidi rimaso Come un barlume, o un'orma, anzi una nicchia, Ond'ella fosse svelta; in cotal guisa, Ch'io n'agghiacciava; e ancor non m'assicuro. MELISSO. E ben hai che temer, chè agevol cosa ALCETA. Chi sa non veggiam noi spesso di state MELISSO. Egli ci ha tante stelle, XXXVIII. Io qui vagando al limitare intorno, E muggia tra le nubi il tuono errante, O turbine, or ti sveglia, or fate prova Di sommergermi, o nembi, insino a tanto Che il sole ad altre terre il di rinnova. S'apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto Posan l'erbe e le frondi, e m'abbarbaglia Le luci il crudo Sol pregne di pianto. XXXIX. Spento il diurno raggio in occidente, E in un con l'usignol che sempre piagne Del suo candor la rugiadosa luna. Sola tenea la taciturna via La donna, e il vento che gli odori spande, Molle passar sul volto si sentia. Se lieta fosse, è van che tu dimande: Piacer prendea di quella vista, e il bene Che il cor le prometteva era più grande. Come fuggiste, o belle ore serene! Dilettevol quaggiù null' altro dura, |