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E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato

Suo nido, e il picciol campo

Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,

Che crepitando giunge, e inesorato.
Durabilmente sopra quei si spiega.
Torna al celeste raggio,

Dopo l'antica obblivion, l'estinta
Pompei, come sepolto

Scheletro, cui di terra

Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto Foro

Diritto infra le file

De' mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,

Ch'alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte

Per li vacui teatri,

Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde.
Come sinistra face

Che per voti palagi atra s'aggiri,

Corre il baglior della funerea lava,

Che di lontan per l'ombre

Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

Cosi, dell'uomo ignara e dell'etadi

Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno

Dopo gli avi i nepoti,

Sta natura ognor verde, anzi procede

Per si lungo cammino,

Che sembra star. Caggiono i regni intanto,

Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,

Che di selve odorate

Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco

Già noto, stenderá l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:

Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove

E la sede e i natali

Non per voler ma per fortuna avesti; Ma più saggia, ma tanto

Meno inferma dell'uom, quanto le frali Tue stirpi non credesti

O dal fato o da te fatte immortali.

XXXV.

IMITAZIONE.

Lungi dal proprio ramo,

Povera foglia frale,

Dove vai tu? Dal faggio

Lá dov'io nacqui, mi divise il vento.

Esso, tornando, a volo

Dal bosco alla campagna,

Dalla valle mi porta alla montagna.

Seco perpetuamente

Vo pellegrina, e tutto l'altro ignoro.

Vo dove ogni altra cosa,

Dove naturalmente

Va la foglia di rosa,

E la foglia d'alloro.

XXXVI.

SCHERZO.

Quando fanciullo io venni

A pormi con le Muse in disciplina,
L'una di quelle mi pigliò per mano;
E poi tutto quel giorno

La mi condusse intorno
A veder l'officina.
Mostrommi a parte a parte
Gli strumenti dell'arte,
E i servigi diversi

A che ciascun di loro
S'adopra nel lavoro.

Delle prose e de' versi.

Io mirava, e chiedea:

Musa, la lima ov'è? Disse la Dea:

La lima è consumata; or facciam senza.
Ed io, ma di rifarla

Non vi cal, soggiungea, quand'ella è stanca?
Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.

FRAMMENTI.

XXXVII.

ALCETA.

Odi, Melisso: io vo' contarti un sogno
Di questa notte, che mi torna a mente
In riveder la luna. Io me ne stava
Alla finestra che risponde al prato,
Guardando in alto: ed ecco all'improvviso
Distaccasi la luna; e mi parea

Che quanto nel cader s'approssimava,

Tanto crescesse al guardo; infin che venne
A dar di colpo in mezzo al prato; ed era
Grande quanto una secchia, e di scintille
Vomitava una nebbia, che stridea

Si forte come quando un carbon vivo
Nell'acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo
La luna, come ho detto, in mezzo al prato
Si spegneva annerando a poco a poco,

E ne fumavan l'erbe intorno intorno.

Allor mirando in ciel, vidi rimaso

Come un barlume, o un'orma, anzi una nicchia, Ond'ella fosse svelta; in cotal guisa,

Ch'io n'agghiacciava; e ancor non m'assicuro.

MELISSO.

E ben hai che temer, chè agevol cosa
Fôra cader la luna in sul tuo campo.

ALCETA.

Chi sa non veggiam noi spesso di state
Cader le stelle?

MELISSO.

Egli ci ha tante stelle,
Che picciol danno è cader ì'una o l'altra
Di loro, e mille rimaner. Ma sola
Ha questa luna in ciel, che da nessuno
Cader fu vista mai se non in sogno.

XXXVIII.

Io qui vagando al limitare intorno,
Invan la pioggia invoco e la tempesta,
Acciò che la ritenga al mio soggiorno.
Pure il vento muggia nella foresta,

E muggia tra le nubi il tuono errante,
Pria che l'aurora in ciel fosse ridesta.
O care nubi, o cielo, o terra, o piante,
Parte la donna mia: pietà, se trova
Pietà nel mondo un infelice amante.

O turbine, or ti sveglia, or fate prova

Di sommergermi, o nembi, insino a tanto Che il sole ad altre terre il di rinnova. S'apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto Posan l'erbe e le frondi, e m'abbarbaglia Le luci il crudo Sol pregne di pianto.

XXXIX.

Spento il diurno raggio in occidente,
E queto il fumo delle ville, e queta
De' cani era la voce e della gente;
Quand'ella, vôlta all'amorosa meta,
Si ritrovò nel mezzo ad una landa
Quanto foss'altra mai vezzosa e lieta.
Spandeva il suo chiaror per ogni banda.
La sorella del sole, e fea d'argento
Gli arbori ch'a quel loco eran ghirlanda.
I ramuscelli ivan cantando al vento,

E in un con l'usignol che sempre piagne
Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento.
Limpido il mar da lungi, e le campagne
E le foreste, e tutte ad una ad una
Le cime si scoprian delle montagne.
In queta ombra giacea la valle bruna,
E i collicelli intorno rivestia

Del suo candor la rugiadosa luna. Sola tenea la taciturna via

La donna, e il vento che gli odori spande, Molle passar sul volto si sentia.

Se lieta fosse, è van che tu dimande:

Piacer prendea di quella vista, e il bene Che il cor le prometteva era più grande. Come fuggiste, o belle ore serene!

Dilettevol quaggiù null' altro dura,
Nè si ferma giammai, se non la spene.
Ecco turbar la notte, e farsi oscura
La sembianza del ciel, ch'era si bella,
E il piacere in colei farsi paura.
Un nugol torbo, padre di procella,

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