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OF THE

UNIVERSITY
L'ALFIERI

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e il passaggio dalla forma repubblicana alla monarchica, la quale costringe lo spirito impedito e scacciato o limitato nelle idee e nelle cose a rivolgersi alle parole........ La letteratura italiana non è stata più propriamente originale e inventiva. L'Alfieri è un'eccezione, dovuta al suo spirito libero e contrario a quello del tempo, e alla natura de' governi sotto cui visse.

E più tardi poneva in bocca allo stesso Parini, nel Dialogo che da questi s'intitola, la sentenza, veramente memorabile (si tenga presente la dedica al Trissino!):

Se il soggetto principale delle lettere è la vita umana, e il primo intento della filosofia l'ordinare le nostre azioni; non è dubbio che l'operare è tanto più degno e più nobile del meditare e dello scrivere, quanto è più nobile il fine che il mezzo, e quanto le cose e i soggetti importano più che le parole e i ragionamenti. Anzi niun ingegno è creato dalla natura agli studi; nè l'uomo nasce a scrivere, ma solo a fare. Perciò veggiamo che i più degli scrittori eccellenti, e massime de' poeti illustri, di questa medesima età; come, a cagione di esempio, Vittorio Alfieri; furono da principio inclinati straordinariamente alle grandi azioni: alle quali ripugnando i tempi, e forse anche impediti dalla fortuna propria, si volsero a scrivere cose grandi. Nè sono propriamente atti a scriverne quelli che non hanno disposizione e virtù di farne. E puoi facilmente considerare, in Italia, dove quasi tutti sono d'animo alieno dai fatti egregi, quanto pochi acquistino fama durevole colle scritture.

(Un buono ed utile studio su V. Alfieri e il sentimento patriotico di G. L., ha pubblicato, Messina 1898, il prof. NUNZIO VACCALLUZZO. Per questa canzone, vedo ancora citato: E. ZERBINI, A. Mai e G. L., Bergamo 1882; e G. TAORMINA, Sul canto leop. ad A. Mai, Palermo 1890).

ALLA SORELLA PAOLINA

E A UN VINCITORE NEL PALLONE.

Dalle carte napoletane risulta, diversamente da quanto altri aveva supposto, "che la canzone per la

Paolina fu scritta nell'ottobre e nel novembre del 1822, dopo i canti A un vincitore nel pallone, Bruto minore, Alla primavera, Saffo, Ai Patriarchi, composti fra il novembre 1821 e il luglio dell'anno successivo ("Rivista d'Italia gennaio 1900, p. 11 n.). In un foglietto delle carte medesime si legge questo abbozzo (CARDUCCI, Degli spiriti, 64):

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A Virginia Romana. Canzone dove si finga di vedere in sogno l'ombra di lei, e di parlarle teneramente tanto sul suo fatto quanto su i mali presenti d'Italia.

E in verità questa si potrebbe più propriamente chiamare la canzone di Virginia „, (DE SANCTIS, Studio su G. L., 184 ss.). Il matrimonio della sorella, desiderato dai parenti e da lei (Epist. I, 159-60, 398) e lietamente annunziato da lui (338, 341, 343) ma miseramente sfumato (406; come sfumarono tutti gli altri simili trattati, 411, 421, 430, 434-35, 461 ecc., vivamente caldeggiati dal povero Giacomo), non le servì che di pretesto. “Questa canzone per nozze è vestita a lutto; l'idillio prende sin dal principio una intona

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zione tragica, e riflette in sè non solo il lutto del poeta, ma il lutto dell'universo. Il matrimonio riassumo ancora dal De Sanctis, “ rimane una semplice occasione che fa divampare nell'anima poetica del giovane quella certa serie d'idee sul mondo e sull'uomo già fissa, divenuta già consuetudine e natura del suo intelletto. È un canto funebre, la vita in tragedia. Paolina presto scompare come un a solo schiacciato dal coro; e il coro sono le donne: Donne, da voi non poco La patria aspetta. Questo è il vero contenuto della canzone, la missione educativa della donna foggiata a modo classico. Nelle idee si sente Alfieri, nella forma si sente Foscolo. Si vede una immaginazione contenuta, che innanzi a' mali obbrobriosi della patria non si slancia nelle onde di un avvenire vendicatore, a cui non ha fede, ma si ripiega nelle memorie classiche, dove trova le orme de' primi studi e delle prime ispirazioni, e dove trova le immagini dei vetusti divini e di quei tipi maschili di donna, di cui s'innamorò Alfieri. Ma il tipo nella contemplazione gli si raddolcisce, ed ecco venir fuori una Virginia non romana, ma umana, percossa dal coltello tra' dolci sogni della giovinezza. Alfieri avrebbe chiamato eroico quel paterno acciaro; Leopardi lo chiama rozzo in mezzo a un ritmo divino, che dando evidenza alla percossa aggiunge allo strazio, perchè in quel punto c'è in lui l'uomo più che il patriota, e vagheggia la trafitta con immaginazione d'artista. Un tratto simile non lo trovi in tutte le tragedie di Alfieri

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(Circa l'elemento alfieriano di questa canzone, si può utilmente vedere l'opuscolo del VACCALLUZZO, V. Alfieri e il sentim. patriot. di G. L., p. 27 ss.; per maggiori notizie sulla Paolina, il vol. della BOGHEN - CONIGLIANI, La donna nella vita e nelle opere di G. L., p. 59 ss.).

Mi par degno di nota che, ancora in una lettera da Pisa, del 19 marzo 1828, Giacomo scrivesse all'Antonietta Tommasini (II, 284):

Vi ringrazio della vostra affettuosa ultima, piena di così no

bili sentimenti d'amor patrio. Se tutte le donne italiane pensassero e sentissero come voi, e procedessero conforme al loro pensare e sentire, la sorte dell'Italia già fin d'ora sarebbe diversa assai da quella che è. Non è da sperarsi che tutte vi sieno uguali, ma è da desiderarsi che molte sieno indotte dal vostro esempio a rassomigliarvi.

Il vincitore nel pallone (giuoco popolarissimo nelle Marche, anzi in tutta l'Italia centrale), che diè occasione alla seconda di queste nuove canzoni, era il giovane Carlo Didimi di Treja, nato il 6 maggio 1798. Bello, alto, smilzo; singolarmente destro; di nobile famiglia: egli s'acquistò una vera celebrità in quel classico giuoco, e gli furon murate iscrizioni ed eretti busti. Fu in amichevoli relazioni anche coi Leopardi; oltrechè quasi ogni anno i campioni trejesi scendevano a misurarsi coi recanatesi. In quel torno di tempo s'inscrisse tra i Carbonari; poi, nel 1848-49 fu capo del municipio nativo; nel '60 fece parte della Giunta rivoluzionaria. Morì il 4 giugno 1877. (Cfr. MESTICA, G. L. e i conti Broglio, p. 33 ss.).

Il Leopardi era venuto annotando nello Zibaldone (Pens. I, 226, 237, 239, 270, 299, 346, 351, 364, 394):

La salvaguardia della libertà delle nazioni non è la filosofia nè la ragione, come ora si pretende che queste debbano rigenerare le cose pubbliche, ma le virtù, le illusioni, l'entusiasmo, in somma la natura, dalla quale siamo lontanissimi. E un popolo di filosofi sarebbe il più piccolo e codardo del mondo. Perciò la nostra rigenerazione dipende da una, per così dire, ultra filosofia, che conoscendo l'intiero e l'intimo delle cose ci ravvicini alla natura (7 giugno 1820).

Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra o ad eccitare l'amor della gloria ecc., ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor dell'animo, il coraggio, le illusioni, l'entusiasmo che non saranno mai in un corpo debole, in somma quelle cose che cagionano la grandezza e l'eroismo delle nazioni. Ed è cosa già osservata che il vigor del corpo nuoce alle facoltà intellettuali e favorisce le immaginative, e per lo contrario l'imbecillità del corpo è favorevolissima al riflettere (7 giugno 1820), e

chi riflette non opera e poco immagina, e le grandi illusioni non son fatte per lui.

(18 giugno 1820). L'amor della gloria è una passione così propria dell'uomo in società e così naturale, che anche ora, in tanta morte del mondo e mancanza di ogni sorta di eccitamenti, nondimeno i giovani sentono il bisogno di distinguersi, e, non trovando altra strada aperta come una volta, consumano le forze della loro giovanezza, e studiano tutte le arti, e gettano la salute del corpo, e si abbreviano la vita, non tanto per l'amor del piacere, quanto per esser notati e invidiati e vantarsi di vittorie vergognose, che tuttavia il mondo ora applaude, non restando a un giovane altra maniera di far valere il suo corpo, e procacciarsene lode, che questa. Giacchè ora pochissimo anche all'animo, ma tuttavia all'animo resta qualche via di gloria, ma al corpo, che è quella parte che fa il più, e nella quale consiste per natura delle cose il valore della massima parte degli uomini, non resta altra strada.

Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo, non ne è spenta in noi l'inclinazione. Se è tolto l'ottenere, non è tolto nè possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l'ardore che li porta a procacciarsi una vita e a sdegnare la nullità e la monotonia...... (1 agosto 1820).

Non ci son forse uomini così atti ad esser tiranneggiati come i deboli di corpo, da qualunque cagione provenga questa debolezza, o da lascivia e mollezza, come presso i Persiani che dopo il tempo di Ciro divennero l'esempio dell'avvilimento e della servitù, o da macerazione ecc. Nel corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non altezza di sentimenti, non forza d'illusioni ecc. (30 sett. 1820). Nel corpo servo anche l'anima è serva. Bisogna ricordarsi che l'invenzione della polvere contribuì non poco all'indebolimento delle generazioni:..... sopprimendo o togliendo per conseguenza la necessità di quegli esercizi che o direttamente o indirettamente, come i giuochi atletici, servivano a render gli uomini vigorosi ed atti alla guerra (4-5 ottobre 1820).

È osservabile, nella differenza tra i giuochi greci e i romani, la naturalezza dei primi che combattevano nella lotta, nel corso ecc., appresso a poco coi soli strumenti datici dalla natura, laddove i Romani colle spade e altri istrumenti artifiziali. E quindi la diversa destinazione di quei giuochi, diretti presso gli uni ad ingrandir quasi la natura ed eccitare le grandi immagini, sentimenti ecc., presso gli altri o al semplice sollazzo o all'addestramento militare. Così che quelli andavano alla sorgente universale delle grandi imprese, questi si fermavano ad

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