Sayfadaki görseller
PDF
ePub

un mezzo particolare. E questa differenza è anche più notabile in ciò che gli spettacoli greci erano eseguiti da uomini liberi per amor di gloria. Quindi l'effetto favorevole all'entusiasmo, l'eccitamento, l'emulazione, gli esercizi preparatorii ecc. Gli spettacoli romani erano eseguiti da' servi. Quindi non altro effetto utile che l'avvezzar gli occhi e l'animo agli spettacoli e pericoli della guerra: utilità parziale e secondaria, non generale e primitiva come l'altra. Nel che forse si potrà anche notare la differenza tra un popolo libero e padrone, e un popolo libero bensì, ma non padrone se non di se stesso, com'era il greco (14-15 novembre 1820).

Questa canzone, di soggetto e di movimento pindarico, richiama, e non a caso, alla memoria tre odi del Chiabrera (v. più sù, p. 243 ss.). L'una Per lo giuoco del pallone ordinato in Firenze dal gran duca Cosmo II l'anno 1618; dov'è anche ricordo del campo eleo (lo stadio dell'Elide), ed è descritto il giuoco:

Non è vil meraviglia

Dal diletto crearsi il giovamento;
Quinci ben si consiglia

Un cor nell'ozio alle bell'opre intento.
Io ben già mi rammento

Sul campo Elèo la gioventude Argiva
Far prova di possanza;

Ed oggi godo in rimirar sembianza
Di quel valor sulla Toscana riva,
Spettacolo giocondo!

Trasvolare dell'aria ampio sentiero
Cuoio grave ritondo,

In cui soffio di vento è prigioniero;

Lui precorre leggiero

Il giuocator, mentr'ei ne vien dall'alto;

E col braccio guernito

D'orrido legno lo percuote ardito,

E rimbombando lo respinge in alto.

L'altra, Per li giuocatori del pallone in Firenze l'estate dell'anno 1619; dove ricorre nuovamente lo campo Elẻo. La terza, Per Cinzio Venanzio da Cagli vincitore ne' giuochi del pallone celebrati in Firenze l'estate dell'anno 1619.

L'emula brama era già del Parini, In morte di A. Sacchini (nella mia ediz., p. 67); dal quale forse il Leopardi apprese anche a stimare quell'abile esumatore e rifoggiatore di metri lirici che fu il Chiabrera. (Cfr. le mie Spigolature pariniane, Napoli 1900, p. 5; e Pariniana, in "Natura e Arte a. VIII, 2o s., p. 759).

[ocr errors]

Queste due Canzoni, osserva il De Sanctis (N. s. cr., 515 ss.), "si possono chiamare uno strascico delle prime, le ultime voci del patriottismo. Ma se pel contenuto si rassomigliano alle prime, e sono come un ulteriore e logico sviluppo di quelle, per la forma sono già altra cosa, sono le canzoni nuove. Non trovi più quegli impeti. C'è qui un umor nero e denso, un vedere scuro sotto a quella apparenza di energia e a quella pompa di esortazioni, alle quali egli medesimo non crede, e la sua predica finisce con un omnia vanitas. Certo, qui dentro sono ancora i segni dell'antico entusiasmo. Il giovane partecipa a' moti e a' sentimenti italiani, alle speranze e a' timori, s'interessa per le lettere e per la cultura, fa schizzi e progetti, ama la gloria, ama la virtù, guarda con cuore commosso nell'avvenire. Qui è la somiglianza delle due nuove canzoni con le tre prime. Ma fra l'entusiasmo s'infiltrano umori malinconici, impressioni e sentimenti scettici, che nell'ultima, al Vincitore nel pallone, prendono il di sopra. Già in queste due canzoni nuove, massime nell'ultima, presentite la crisi, cioè quel momento in cui, dopo lungo contrasto e strazio interiore, l'anima si trova balestrata in una via, dalla quale non si parte più. Nella canzone al Vincitore nel pallone il poeta esorta la gioventù ad addestrare e fortificare il corpo, ricordando i miracoli della storia greca in versi magnifici, che testimoniano un entusiasmo non ancora spento. Ti aspetti una ode di Pindaro, quando tutto a un tratto il cielo si fa buio, e la mente percossa del poeta ti rappresenta in lontananza l'ultima rovina della patria. Non si trova in tutta la poesia nostra una grandiloquenza pari a questa, che ti pone innanzi gagliardamente la gran

dezza della patria e il funebre romore della sua caduta. Ma se la patria muore senza rimedio, e se nella vita non è alcun fine alto, se la vita è un agitarsi nel vuoto, che giova la forza e il coraggio? Che giova addestrare ed educare il corpo? Contradizione manifesta tra il fine e la conclusione. E stretto pure ad uscirne, il poeta vagheggia come fine della vita disprezzare la vita, gittandola così per gioco ne' rischi, e sentendo tutte le emozioni di questo gioco „.

BRUTO MINORE, ALLA PRIMAVERA,

AI PATRIARCHI, SAFFO.

I.

Nelle carte napoletane sono indicati esattamente i giorni in cui questi Canti furono composti: il Bruto, “in 20 giorni del decembre 1821 „; Alla Primavera, " in 12 giorni del gennaio 1822 „; l'Ultimo canto di Saffo," in 7 giorni del maggio 1822 ; l'Inno ai Patriarchi, in 17 giorni del luglio 1822

"

[ocr errors]

Come preambolo al Bruto minore, fu, nell'edizione bolognese del 1824, stampata la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte; la quale l'autore medesimo soppresse nelle edizioni posteriori. (Si può leggerla ora a pag. 460 ss. delle Prose originali di G. L. a cura di G. MESTICA, Firenze, Barbèra, 1890. Il prof. F. Tocco ha recentemente dimostrato, nell'Atene e Roma, a. II, p. 242 ss., che la sentenza di Teofrasto, conservataci da Diogene Laerzio, fu dal Leopardi interpretata con soverchia simpatia ma poca verosimiglianza storica). Essa comincia:

Io non credo che si trovi in tutte le memorie dell'antichità voce più lacrimevole e spaventosa, e con tutto ciò, parlando umanamente, più vera di quella che Marco Bruto, poco innanzi alla morte, si racconta che profferisse in dispregio della virtù: la qual voce, secondo che è riportata da Cassio Dione, è questa: O virtù miserabile, eri una parola nuda, e io ti seguiva come

tu fossi una cosa: ma tu sottostavi alla fortuna.... Quei moltissimi che si scandalezzano di Bruto e gli fanno carico della detta sentenza, danno a vedere l'una delle due cose: o che non abbiano mai praticato familiarmente colla virtù, o che non abbiano esperienza degl'infortuni, il che, fuori del primo caso, non pare che si possa credere. E in ogni modo è certo che poco intendono e meno sentono la natura infelicissima delle cose umane, o si maravigliano ciecamente che le dottrine del Cristianesimo non fossero professate avanti di nascere. Quegli altri che torcono le dette parole a dimostrare che Bruto non fosse mai quell'uomo santo e magnanimo che fu riputato vivendo, e conchiudono che morendo si smascherasse, argomentano a rovescio; e se credono che quelle parole gli venissero dall'animo, e che Bruto, dicendo questo, ripudiasse effettivamente la virtù, veggano come si possa lasciare quello che non si è mai tenuto, e disgiungersi da quello che s'è avuto sempre discosto....

Che il poeta meditasse e vagheggiasse già da tempo quei concetti e quei sentimenti che poi espresse nel Bruto e nella Saffo, mostrano due brani di lettera al Giordani, l'uno del 2 marzo 1818, l'altro del 26 aprile 1819 (Epist. I, 127, 197):

In somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s'andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l'aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell'uomo, che è la sola a cui guardino i più: e coi più bisogna conversare in questo mondo; e non solamente i più, ma chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia senza qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda affatto, s'attrista, e per forza di natura, che nessuna sapienza può vincere, quasi non ha coraggio d'amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorchè l'animo.

Io non trovo cosa desiderabile in questa vita, se non i diletti del cuore e la contemplazione della bellezza, la qual m'è negata affatto in questa misera condizione. Oltre che i libri, e particolarmente i vostri, mi scorano insegnandomi che la bellezza appena è mai che si trovi insieme colla virtù, non ostante che sembri compagna e sorella. Il che mi fa spasimare e disperare. Ma questa medesima virtù quante volte io sono quasi strascinato di malissimo grado a bestemmiare con Bruto moribondo. Infelice, che per quel detto si rivolge in dubbio la sua virtù, quand'io veggo per esperienza e mi persuado che sia la prova più forte che ne potesse dar egli, e noi recare in favor suo.

« ÖncekiDevam »