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Ed agli occhi dipigne

Quella che sol per farmi morir nacque,
Perch' a me troppo ed a sè stessa piacque.
Nè so che spazio mi si desse il Cielo,
Quando novellamente io venni in terra
A soffrir l'aspra guerra

Che 'ncontra a me medesmo seppi ordire;
Nè posso 'l giorno che la vita serra
Antiveder per lo corporeo velo :
Ma variarsi il pelo

Veggio, e dentro cangiarsi ogni desire.
Or ch'i' mi credo al tempo del partire
Esser vicino o non molto da lunge,
Come chi 'l perder face accorto e saggio,
Vo ripensando ov' io lassai 'l viaggio

Dalla man destra, ch' a buon porto aggiunge; E dall' un lato punge

Vergogna e duol, che 'ndietro mi rivolve; - Dall' altro non m'assolve

Un piacer per usanza in me si forte,
Ch' a patteggiar n' ardisce con la morte.
Canzon, qui sono; ed ho 'l cor via più freddo
Della paura, che gelata neve,

Sentendomi perir senz' alcun dubbio;
Che pur deliberando, ho volto al subbio
Gran parte omai della mia tela breve:
Nè mai peso fu greve

Quanto quel ch' i' sostegno in tale stato;
Che con la morte a lato

Cerco del viver mio novo consiglio

E veggio 'l meglio ed al peggior m' appiglio.

SONETTO CCVI.

Laura gli è sì severa, che 'l farebbe morire,
s'e' non isperasse di renderla pietosa.

Aspro core e selvaggio, e cruda voglia
În dolce, umile, angelica figura,
Se l'impreso rigor gran tempo dura,
Avran di me poco onorata spoglia:

Che quando nasce e mor fior, erba e foglia,
Quando è'l di chiaro e quando è notte oscura,
Piango ad ogni or. Ben ho di mia ventura,
Di Madonna e d'Amore onde mi doglia.
Vivo sol di speranza, rimembrando

Che poco umor già per continua prova
Consumar vidi marmi e pietre salde.
Non è si duro cor che lagrimando,
Pregando, amando, talor non si smova;
Nè si freddo voler che non si scalde.

SONETTO CCVII.

Duolsi d'esser lontano da Laura e dal Colonna, i due soli oggetti dell' amor suo.

Signor mio caro, ogni pensier mi tira
Devoto a veder voi, cui sempre veggio;
La mia fortuna (or che mi può far peggio?)
Mi tene a freno e mi travolve e gira.
Poi quel dolce desio ch' Amor mi spira
Menami a morte ch'i' non me n'avveggio;
E mentre i miei duo lumi indarno cheggio,
Dovunque io son, dì e notte si sospira.
Carità di signore, amor di donna

Son le catene ove con molti affanni
Legato son, perch' io stesso mi strinsi.
Un Lauro verde, una gentil Colonna,
Quindici l'una, e l'altro diciott' anni

Portato ho in seno, e giammai non mi scinsi.

PARTE SECONDA

SONETTI E CANZONI

IN MORTE DI MADONNA LAURA

SONETTO I.

Elogio di Laura nell'atto di sfogare l' acerbita
del dolore per la morte di lei.

Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo,
Oimè il leggiadro portamento altero,
Oimè 'l parlar ch'ogni aspro ingegno e fero
Faceva umile, ed ogni uom vil, gagliardo;
Ed oimè il dolce riso ond' uscio 'l dardo

Di che morte, altro bene omai non spero ;
Alma real, dignissima d'impero
Se non fossi fra noi scesa si tardo;
Per voi conven ch'io arda e'n voi respire:
Ch'i' pur fui vostro; e se di voi son privo,
Via men d' ogni sventura altra mi dole.
Di speranza m' empieste e di desire
Quand' io parti' dal sommo piacer vivo;
Ma'l vento ne portava le parole.

CANZONE I.

La morte di Laura priva d'ogni conforto; e non vivrå che per cantar le sue lodi.

Che debbo io far? che mi consigli, Amore?
Tempo è ben di morire;

Ed ho tardato più ch'i' non vorrei.
Madonna è morta, ed ha seco'l mio core;
E volendol seguire,

Interromper conven quest' anni rei:
Perchè mai veder lei

Di qua non spero; e l'aspettar m'è noia:
Poscia ch' ogni mia gioia,

Per lo suo dipartire, in pianto è volta,
Ogni dolcezza di mia vita è tolta.
Amor, tu 'I senti, ond' io teco mi doglio,
Quant'è 'l danno aspro e grave;

E so che del mio mal ti pesa e dole,
Anzi del nostro; perch' ad uno scoglio
Avem rotto la nave,

Ed in un punto n'è scurato il sole.
Qual ingegno a parole

Poria agguagliar il mio doglioso stato?

Ahi orbo mondo ingrato!

Gran cagion hai di dever pianger meco; Che quel ben ch' era in te, perdut' hai seco. Caduta è la tua gloria, e tu nol vedi:

Nè degno eri, mentr'ella

Visse quaggiù, d'aver sua conoscenza,
Nè d'esser tocco da' suoi santi piedi ;
Perchè cosa sì bella

Dovea'l ciel adornar di sua presenza.
Ma io, lasso, che senza

Lei, nè vita mortal nè me stess' amo,
Piangendo la richiamo:

Questo m'avanza di contanta spene,
E questo solo ancor qui mi mantene.
Oimè, terra è fatto il suo bel viso,
Che solea far del cielo

E del ben di lassù fede fra noi.

L'invisibil sua forma è in paradiso,
Disciolta di quel velo

Che qui fece ombra al fior degli anni suoi,
Per rivestirsen poi

Un' altra volta, e mai più non spogliarsi;
Quand' alma e bella farsi

Tanto più la vedrem, quanto più vale
Sempiterna bellezza che mortale.

Più che mai bella e più leggiadra donna
Tornami innanzi, come

Là dove più gradir sua vista sente.
Quest' è del viver mio l'una colonna.
L'altra è 'l suo chiaro nome,

Che sona nel mio cor sì dolcemente.
Ma tornandomi a mente

Che pur morta è la mia speranza, viva
Allor ch' ella fioriva,

Sa ben Amor qual io divento, e (spero)
Vedel colei ch'è or sì presso al vero.
Donne, voi che miraste sua beltate
E l'angelica vita

Con quel celeste portamento in terra,
Di me vi doglia e vincavi pietate,
Non di lei, ch'è salita

A tanta pace, e me ha lasciato in guerra;
Tal che s' altri mi serra

Lungo tempo il cammin da seguitarla,
Quel ch'Amor meco parla,

Sol mi riten ch'io non recida il nodo;
Ma e' ragiona dentro in cotal modo;
Pon freno al gran dolor che ti trasporta;
Che per soverchie voglie

Si perde 'l cielo, ove 'l tuo core aspira;
Dov'è viva colei ch' altrui par morta;
E di sue belle spoglie

Seco sorride, e sol di te sospira;

E sua fama che spira

In molte parti ancor per la tua lingua,
Prega che non estingua;

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