Legar il vidi; e farne quello strazio Che bastò ben a mill' altre vendette, Ed io per me ne fui contento e sazio. Io non poria le sacre benedette
Vergini ch'ivi fur, chiuder in rima; Non Calliope e Clio con l'altre sette. Ma d'alquante dirò che 'n su la cima Son di vera onestate; infra le quali Lucrezia da man destra era la prima, L'altra Penelopè: queste gli strali,
E la faretra e l'arco avean spezzato A quel protervo, e spennacchiate l'ali. Virginia appresso il fiero padre armato Di disdegno, di ferro e di pietate; Ch'a sua figlia ed a Roma cangiò stato, L' un' e l'altra ponendo in libertate: Poi le Tedesche che con aspra morte Servar la lor barbarica onestate. Giudit ebrea, la saggia, casta e forte; E quella Greca che saltò nel mare Per morir netta e fuggir dura sorte. Con queste e con alquante anime chiare Trionfar vidi di colui che pria
Veduto avea del mondo trionfare. Fra l'altre la vestal vergine pia
Che baldanzosamente corse al Tibro, E per purgarsi d'ogn'infamia ria Portò dal fiume al tempio acqua col cribro; Poi vidi Ersilia con le sue Sabine,
Schiera che del suo nome empie ogni libro. Poi vidi, fra le donne peregrine,
Quella che per lo suo diletto e fido Sposo, non per Enea, volse ir al fine: Taccia 'I volgo ignorante; i' dico Dido, Cui studio d'onestate a morte spinse, Non vano amor com'è 'l pubblico grido. Al fin vidi una che si chiuse e strinse Sopr' Arno per servarsi; e non le valse; Che forza altrui il suo bel pensier vinse.
Era il trionfo dove l'onde salse Percoton Baia; ch'al tepido verno
Giunse a man destra, e 'n terra ferma salse. Indi fra monte Barbaro ed Averno, L'antichissimo albergo di Sibilla Passando, se n'andar dritto a Linterno. In così angusta e solitaria villa
Era il grand' uom che d'Affrica s'appella Perchè prima col ferro al vivo aprilla. Qui dell' ostile onor l'alta novella,
Non scemato con gli occhi, a tutti piacque; E la più casta era ivi la più bella. Nè 'l trionfo d' altrui seguire spiacque A lui che, se credenza non è vana, Sol per trionfi e per imperi nacque. Così giugnemmo alla città soprana
Nel tempio pria che dedicò Sulpizia Per spegner della mente fiamma insana. Passammo al tempio poi di Pudicizia, Ch'accende in cor gentil oneste voglie, Non di gente plebea ma di patrizia. Ivi spiegò le gloriose spoglie
La bella vincitrice, ivi depose Le sue vittoriose e sacre foglie: E' giovine Toscan, che non ascose Le belle piaghe che 'l fer non sospetto, Del comune nemico in guardia pose Con parecchi altri; e fummi 'l nome detto D'alcun di lor, come mia scorta seppe, Ch' avean fatto ad Amor chiaro disdetto; Fra' quali vidi Ippolito e Gioseppe.
O ciechi, il tanto affaticar che giova? Tutti tornate alla gran madre antica, El nome vostro appena si ritrova. Trionfo della Morte, Cap. I.
In questo capitolo racchiude il Petrarca la descrizione del ritorno da Roma in Provenza di Laura vittoriosa; lo scontro della Morte in lei; il ragionamento della Morte e di Laura; una sua digressione contro la vanità delle cose mondane, presa cagione dalla moltitudine de' morti potenti; la morte di Laura, amplificata dalle persone presenti, dal modo d'uccidere della Morte, dagli atti e dalle parole degli astanti, dal tempo, dall'assenza de' demonj, e dalla qualità piacevole del morire.
Questa leggiadra e gloriosa donna, Ch'è oggi nudo spirto e poca terra, E fu già di valor alta colonna, Tornava con onor dalla sua guerra, Allegra, avendo vinto il gran nemico Che con suo' inganni tutto 'I mondo atterra, Non con altr'arme che col cor pudico, E d'un bel viso e di pensieri schivi, D'un parlar saggio e d'onestate amico. Era miracol novo a veder quivi
Rotte l'arme d'Amor, arco e saette; E quai morti da lui, quai presi viví. La bella donna e le compagne elette, Tornando dalla nobile vittoria,
In un bel drappelletto ivan ristrette.
Poche eran, perchè rara è vera gloria; Ma ciascuna per sè parea ben degna Di poema chiarissimo e d'istoria. Era la lor vittoriosa insegna
In campo verde un candido armellino, Ch' oro fino e topazii al collo tegna. Non uman veramente, ma divino
Lor andar era e lor sante parole: Beato è ben chi nasce a tal destino! Stelle chiare pareano, in mezzo un Sole Che tutte ornava e non togliea lor vista, Di rose incoronate e di viole. E come gentil cor onore acquista, Così venia quella brigata allegra : Quand' io vidi un'insegna oscura e trista. Ed una donna involta in veste negra, Con un furor qual io non so se mai Al tempo de' giganti fosse a Flegra, Si mosse, e disse: o tu, donna, che vai Di gioventute e di bellezza altera, E di tua vita il termine non sai; Io son colei che si importuna e fera Chiamata son da voi e sorda e cieca, Gente a cui si fa notte innanzi sera. I' ho condott' alfin la gente greca
E la troiana, all' ultimo i Romani, Con la mia spada, la qual punge e seca, E popoli altri barbareschi e strani;
E giungendo quand' altri non m'aspetta, Ho interrotti mille pensier vani.
Or a voi, quand' 'l viver più diletta, Drizzo il mio corso, innanzi che Fortuna Nel vostro dolce qualche amaro metta. In costor non hai tu ragione alcuna, Ed in me poca; solo in questa spoglia: Rispose quella che fu nel mondo una. Altri so che n'arà più di me doglia, La cui salute dal mio viver pende; A me fia grazia che di qui mi scioglia..
Qual è chi 'n cosa nova gli occhi intende, E vede ond' al principio non s'accorse; Și ch'or si maraviglia, or si riprende; Tal si fe quella fera: e poi che 'n forse Fu stata un poco: ben le riconosco, Disse, e so quando 'l mio dente le morse. Poi col ciglio men torbido e men fosco, Disse tu che la bella schiera guidi, Pur non sentisti mai mio duro tosco. Se del consiglio mio punto ti fidi,
Che sforzar posso, egli è pur il migliore Fuggir vecchiezza e suoi molti fastidi. I' son disposta farti un tal onore
Qual altrui far non soglio, e che tu passi Senza paura e senz'alcun dolore.
Come piace al signor che 'n cielo stassi, Ed indi regge e tempra l'universo, Farai di me quel che degli altri fassi : Così rispose. Ed ecco da traverso
Piena di morti tutta la campagna, Che comprender non può prosa nè verso. Da India, dal Cataio, Marocco e Spagna Il mezzo avea già pieno e le pendici Per molti tempi quella turba magna. Ivi eran quei che fur detti felici, Pontefici, regnanti e 'mperatori; Or sono ignudi, poveri e mendici. U' son or le ricchezze? u' son gli onori E le gemme e gli scettri e le corone E le mitre ei purpurei colori ? Miser chi speme in cosa mortal pone! (Ma chi non ve la pone ?) e s' ei si trova Alla fine ingannato, è ben ragione. O ciechi, il tanto affaticar che giova? Tutti tornate alla gran madre antica, El nome vostro appena si ritrova. Pur delle mille un'utile fatica, Che non sian tutte vanità palesi; Chi 'ntende i vostri studi, si mel dica.
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