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Che vale a soggiogar tanti paesi
E tributarie far le genti strane

Con gli animi al suo danno sempre accesi? Dopo l'imprese perigliose e vane,

E col sangue acquistar terra e tesoro, Via più dolce si trova l'acqua e 'l pane, El vetro e 'l legno, che le gemme e l'oro. Ma per non seguir più si lungo tema, Temp'è ch'io torni al mio primo lavoro. I' dico che giunt' era l'ora estrema Di quella breve vita gloriosa,

E' dubbio passo di che 'l mondo trema. Er' a vederla un' altra valorosa

Schiera di donne non dal corpo sciolta,
Per saper s'esser può Morte pietosa.
Quella bella compagna er' ivi accolta
Pur a veder contemplar il fine

Che far conviensi, e non più d'una volta.
Tutte sue amiche, e tutte éran vicine.
Allor di quella bionda testa svelse
Morte con la sua mano un aureo crine.
Così del mondo il più bel fiore scelse;
Non già per odio, ma per dimostrarsi
Più chiaramente nelle cose eccelse.
Quanti lamenti lagrimosi sparsi

Fur ivi, essendo quei begli occhi asciutti, Per ch' io lunga stagion cantai ed arsi! E fra tanti sospiri e tanti lutti

Tacita e lietà sola si sedea,

Del suo bel viver già cogliendo i frutti. Vattene in pace, o vera mortal Dea, Diceano: e tal fu ben; ma non le valse Contra la Morte in sua ragion si rea. Che fia dell' altre, se quest' arse ed alse In poche notti si cangiò più volte ? O umane speranze cieche e false ! Se la terra bagnar lagrime molte Per la pietà di quell'alma gentile, Chi 'l vide il sa; tu 'l pensa che l'ascolte.

L'ora prim' era e 'l di sesto d'aprile,
Che già mi strinse, ed or, lasso, mi sciolse:
Come Fortuna va cangiando stile!
Nessun di servitù giammai si dolse,
Nè di morte, quant' io di libertate,
E della vita ch'altri non mi tolse.
Debito al mondo e debito all'etate

Cacciar me innanzi ch' era giunto in primą,
Nè a lui torre ancor sua dignitate.

Or qual fusse'l dolor, qui non si stima;
Ch' appena oso pensarne, non ch'io sia
Ardito di parlarne in versi o 'n rima.
Virtù morta è, bellezza e cortesia

(Le belle donne intorno al casto letto
Triste diceano); omai di noi che fia?
Chi vedrà mai in donna atto perfetto?
Chi udirà il parlar di saper pieno
El canto pien d'angelico diletto?
Lo spirto per partir di quel bel seno,
Con tutte sue virtuti in sè romito,
Fatt' avea in quella parte il ciel sereno.
Nessun degli avversari fu sì ardito

Ch' apparisse giammai con vista oscura
Fin che Morte il suo assalto ebbe fornito.
Poi che, deposto il pianto e la paura,
Pur al bel viso era ciascuna intenta,
E per desperazion fatta secura;
Non come fiamma che per forza è spenta,
Ma che per sè medesma si consume,
Se n'andò in pace l'anima contenta;
A guisa d'un soave e chiaro lume

Cui nutrimento a poco a poco manca;
Tenendo alfin il suo usato costume.
Pallida no, ma più che neve bianca,
Che senza vento in un bel colle fiocchi,
Parea posar come persona stanca.

Quasi un dolce dormir ne' suoi begli occhi,
Essendo 'l spirto già da lei diviso,

Era quel che morir chiaman gli sciocchi. Morte bella parea nel suo bel viso.

CAPITOLO II.

Infine a qui il Petrarca narrò un sogno, in cui gli parve di scorgere, come se fosse desto, il trionfo d'Amore, della Castità e della Morte, con tutte le maraviglie da lui descritte; ma al presente significa come gli sembrava, sognando, di vedere Laura che lo consolasse del dolore sentito per la sua morte, e di ragionare con esso lei.

La notte che segui l'orribil caso

Che spense 'l Sol, anzi 'l ripose in cielo,
Ond' io son qui com'uom cieco rimaso,
Spargea per l'aere il dolce estivo gelo,
Che con la bianca amica di Titone
Suol de' sogni confusi torre il velo;
Quando donna sembiante alla stagione,
Di gemme orientali incoronata,
Mosse ver me da mille altre corone;
E quella man già tanto desiata

A me, parlando e sospirando, porse;
Ond' eterna dolcezza al cor m'è nata.
Riconosci colei che prima torse

I passi tuoi dal pubblico viaggio, Come 'l cor giovenil di lei s'accorse? Così, pensosa, in atto umile e saggio S'assise e seder femmi in una riva

La qual ombrava un bel lauro ed un faggio. Come non conosch' io l'alma mia Diva? Risposi in guisa d'uom che parla e plora: Dimmi pur, prego, se sei morta o viva. Viva son io, e tu sei morto ancora,

Diss' ella, e sarai sempre, fin che giunga
Per levarti di terra l'ultim' ora.

Ma 'l tempo è breve, e nostra voglia è lunga :
Però t'avvisa, e 'l tuo dir stringi e frena,
Anzi che 'l giorno già vicin n'aggiunga.

Ed io al fin di quest' altra serena
C' ha nome vita, che per prova 'l sai,
Deh dimmi se 'l morir è si gran pena.
Rispose: mentre al vulgo dietro vai,
Ed all' opinion sua cieca e dura,
Esser felice non puo' tu giammai.
La morte è fin d'una prigione oscura
Agli animi gentili; agli altri è noia,
Ch' hanno posto nel fango ogni lor cura.
Ed ora il morir mio che sì t'annoia,
Ti farebbe allegrar,- se tù sentissi
La millesima parte di mia gioia.
Cosi parlava; e gli occhi ave' al ciel fissi
Divotamente: poi mise in silenzio

Quelle labbra rosate, insin ch'io dissi:
Silla, Mario, Neron, Gaio e Mesenzio,
Fianchi, stomachi, febbri ardenti fanno
Parer la morte amara più ch'assenzio.
Negar, disse, non posso che l'affanno
Che va innanzi al morir, non doglia forte,
Ma più la tema dell'eterno danno:
Ma pur che l'alma in Dio si, riconforte,
E' cor, che 'n se medesmo forse è lasso,
Che altro ch'un sospir breve è la morte?
I' avea già vicin l'ultimo passo,

La carne inferma, e l'anima ancor pronta Quand' udi' dir in un suon tristo e basso: O misero colui ch'e' giorni co ta,

E pargli l' un mill' anni, e 'ndarno vive, E seco in terra mai non si raffronta ; E cerca 'l mar e tutte le sue rive,

E sempre un stile ovunqu'e' fosse tenne; Sol di lei pensa, o di lei parla, o scrive! Allora in quella parte onde 'I suon venne Gli occhi languidi volgo; e veggio quella Ch'ambo noi, me sospinse e te ritenne. Riconobbila al volto e alla favella;

Che spesso ha già il mio cor- racconsolato, Or grave e saggia, allor onesta e bella.

E quand' io fui nel mio più bello stato,
Nell' età mia più verde, a te più cara,
Ch'a dir ed a pensar a molti ha dato;
Mi fu la vita poco men che amara,
A rispetto di quella mansueta

E dolce morte ch'a mortali è rara:
Che 'n tutto quel mio passo er' io più lieta
Che qual d'esilio al dolce albergo riede
Se non che mi stringea sol di te pieta.
Deh, Madonna, diss' io, per quella fede
Che vi fu, credo, al tempo manifesta,
Or più nel volto di chi tutto vede,
Creovvi Amor pensier mai nella testa
D'aver pietà del mio lungo martire,
Non lasciando vostr' alta impresa onesta?
Ch'e' vostri dolci sdegni e le dolc' ire,
Le dolci paci ne' begli occhi scritte,
Tenner molt' anni in dubbio il mio desire.
Appena ebb'io queste parole ditte,

Ch'i' vidi lampeggiar quel dolce riso
Ch'un Sol fu già di mie virtuti afflitte.
Poi disse sospirando: mai diviso

Da te non fu 'l mio cor, nè giammai fia: Ma temprai la tua fiamma col mio viso. Perchè, a salvar te e me, null' altra via Era alla nostra giovenetta fama:

Nè per ferza è però madre men pia. Quante volte diss' io meco: questi ama,

Anzi arde or si convien ch'a ciò proveggia; E mal può provveder chi teme o brama. Quel di fuor miri, e quel dentro non veggia. Questo fu quel che ti rivolse e strinse Spesso, come caval fren che vaneggia. Più di mille fiate ira dipinse

Il volto mio, ch' Amor ardeva il core;
Ma voglia, in me, ragion giammai non vinse.
Poi se vinto te vidi dal dolore,

Drizzai 'n te gli occhi allor soavemente,
Salvando la tua vita e 'l nostro onore.

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