E chi'n mar prima vincitor apparse Contr'a' Cartaginesi; e chi lor navi Fra Sicilia e Sardigna ruppe e sparse. Appio conobbi agli occhi, e a' suoi, che gravi Furon sempre e molesti all'umil plebe : Poi vidi un grande con atti soavi; E se non che'l suo lume all'estremo ebe, Fors'era il primo; e certo fu fra noi Qual Bacco, Alcide, Epaminonda a Tebe: Ma'l peggio è viver troppo: e vidi poi Quel che dell'esser suo destro e leggero Ebbe 'l nome, e fu 'l fior degli anni suoi; E quanto in arme fu crudo e severo, Tanto quel che 'l seguiva era benigno, Non so se miglior duce o cavaliero. Poi venia quel che 'l livido maligno Tumor di sangue, bene oprando, oppresse: Volumnio nobil, d' alta laude digno. Cosso, Filon, Rutilio; e dalle spesse Luci in disparte tre Soli ir vedeva, E membra rotte, e smagliate arme e fesse; Lucio Dentato e Marco Sergio è Sceva: Quei tre folgori, e tre scogli di guerra: Ma l'un rio successor di fama leva. Mario poi, che Giugurta e i Cimbri atterra, E' tedesco furor; e Fulvio Flacco, Ch' agli ingrati troncar, a bel studio erra; E' più nobile Fulvio; e sol un Gracco Di quel gran nido garrulo e inquieto, Che fe'l popol roman più volte stracco; E quel che parve altrui beato e lieto, Non dico fu, che non chiaro si vede Un chiuso cor in suo alto secreto: Metello dico; e suo padre, e suo rede; Che già di Macedonia e de' Numidi E di Creta e di Spagna addusser prede. Poscia Vespasian col figlio vidi,
Il buono e'l bello, non già 'l bello e 'l rio; E'l buon Nerva e Traian, principi fidi;
Elio Adriano e 'l suo Antonin Pio; Bella successione infino a Marco; Ch'ebber almeno il natural desio. Mentre che, vago, oltra con gli occhi varco, Vidi 'l gran fondator, e i regi cinque; L'altr'era in terra di mal peso carco, Come addiviene a chi virtù relinque.
In questo prima significa come come trapassasse dalla vista de'Romani, già mentovati, a' forestieri; poi nomina i forestieri, molti con piena lode, e molti con iscemamento di essa.
Pien d'infinita e nobil maraviglia
Presi a mirar il buon popol di Marte, Ch' al mondo non fu mai simil famiglia. Giugnea la vista con l'antiche carte,
Ove son gli alti nomi e i sommi pregi, E sentia nel mio dir mancar gran parte. Ma disviarmi i peregrini egregi:
Annibal primo, e quel cantato in versi Achille, che di fama ebbe gran fregi: I duo chiari Troiani e i duo gran Persi; Filippo e 'l figlio, che da Pella agl'Indi Correndo vinse paesi diversi.
Vidi l'altr' Alessandro non lunge indi, Non già correr così, ch' ebb' altro intoppo. Quanto del ver onor, Fortuna, scindi! I tre Teban ch' io dissi, in un bel groppo; Nell' altro, Aiace, Diomede e Ulisse, Che desiò del mondo veder troppo: Nestor, che tanto seppe e tanto visse, Agamennon e Menelao, che 'n spose Poco felici, al mondo fer gran risse.
Leonida, ch' a' suoi lieto propose Un duro prandio, una terribil cena, E'n poca piazza fe mirabil cose. Alcibiade, che si spesso Atena
Come fu suo piacer volse e rivolse Con dolce lingua e con fronte serena. Milziade, che'l gran giogo a Grecia tolse; E il buon figliuol, che con pietà perfetta Legò sè vivo, e 'l padre morto sciolse: Temistocle e Teseo con questa setta; Aristide, che fu un greco Fabrizio: A tutti fu crudelmente interdetta La patria sepoltura; e l'altrui vizio Illustra lor; che nulla meglio scopre Contrari duo con picciol interstizio. Focion va con questi tre di sopre, -Che di sua terra fu scacciato e morto; Molto diverso il guiderdon dall'opre! Com'io mi volsi, il buon Pirro ebbi scorto, E'l buon re Massinissa; e gli era avviso, D'esser senza i Roman, ricever torto. Con lui, mirando quinci e quinci fiso, Ieron siracusan conobbi, e'l crudo Amilcare da lor molto diviso. Vidi, qual uscì già del foco, ignudo Il re di Lida, manifesto esempio Che poco val contra Fortuna scudo. Vidi Siface pari a simil scempio; Brenno, sotto cui cadde gente molta, E poi cadd' ei sotto'l famoso tempio. In abito diversa, in popol folta
Fu quella schiera; e mentre gli occhi alti ergo, Vidi una parte tutta in sè raccolta:
E quel che volse a Dio far grande albergo Per abitar fra gli uomini, era 'l primo; Ma chi fe l'opera, gli venia da tergo: A lui fu destinato; onde da imo
Perdusse al sommo l'edificio santo; Non tal dentro architetto, com' io stimo.
Poi quel ch'a Dio familiar fu tantò
In grazia, a parlar seco a faccia a faccia, Che nessun altro se ne può dar vanto; E quel che, come un animal s' allaccia, Con la lingua possente legò il Sole, Per giugner de' nemici suoi la traccia. O fidanza gentil! chi Dio ben cole,
Quanto Dio ha creato aver suggetto, E' ciel teuer con semplici parole! Poi vidi'l padre nostro, a cui fu detto Ch' uscisse di sua terra, e gisse al loco Ch' all' umana salute era già eletto: Seco 'l figlio e 'l nipote, a cui fu 'l gioco Fatto delle due spose; e'l saggio e casto Giosef del padre lontanarsi un poco. Poi, stendendo la vista quant' io basto, Rimirando ove l'occhio oltra non varca, Vidi'l giusto Ezechia e Sanson guasto. Di qua da lui chi fece la grand' arca, E quel che cominciò poi la gran torre, Che fu sì di peccato e d'error carca. Poi quel buon Giuda, a cui nessun può torre Le sue leggi paterne, invitto e franco Com' uom che per giustizia a morte corre. Già era il mio desir presso che stanco, Quando mi fece una leggiadra vista Più vago di veder ch'io ne foss' anco. Io vidi alquante donne ad una lista: Antiope ed Orita armata e bella; Ippolita, del figlio afflitta e trista, E Menalippe; e ciascuna si snella Che vincerle fu gloria al grande Alcide, Che l'una ebbe, e Teseo l'altra sorella: La vedova, che si secura vide
Morto 'l figliuol, e tal vendetta feo Ch'uccise Ciro, ed or sua fama uccide. Però vedendo ancora il suo fin reo,
Par che di novo a sua gran colpa moia; Tanto quel di del suo nome perdeo.
Poi vidi quella che mal vide Troia; E fra queste una vergine latina Ch'in Italia a' Troian fe tanta noia. Poi vidi la magnanima reina,
Con una treccia avvolta e l'altra sparsa, Corse alla babilonica ruina.
Poi vidi Cleopatra: e ciascun' arsa
D' indegno foco; e vidi in quella tresca Zenobia, del suo onor assai più scarsa. Bell' era, e nell'età fiorita e fresca;
Quanto in più gioventute e 'n più bellezza, Tanto par ch'onestà sua laude accresca. Nel cor femmineo fu tanta fermezza, Che col bel viso e con l'armata coma Fece temer chi per natura sprezza: I' parlo dell' imperio alto di Roma,
Che con armi assalio; benchè all'estremo Fosse al nostro trionfo ricca soma.
Fra i nomi che 'n dir breve ascondo e premo, Non fia Giudit, la vedovetta ardita,
Che fe'l folle amador del capo scemo. Ma Nino, ond'ogn' istoria umana è ordita, Dove lasc' io? e'l suo gran successore, Che superbia condusse a bestial vita? Belo dove riman, fonte d'errore,
Non per sua colpa, dov'è Zoroastro, Che fu dell'arte magica inventore? E chi de' nostri duci che 'n duro astro Passar l'Eufrate, fece 'l mal governo, All' italiche doglie fiero impiastro? Ov'è 'l gran Mitridate, quell'eterno Nemico de' Roman, che si ramingo Fuggi dinanzi a lor la state e'l verno? Molte gran cose in picciol fascio stringo. Ov'e'l re Artù; e tre Cesari Augusti, Un d'Affrica, un di Spagna, un Loteringo? Cingean costu'i suoi dodici robusti :
Poi venia solo il buon duce Goffrido, Che fe l'impresa santa e i passi giusti.
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