Questo (di ch' io mi sdegno e'ndarno grido) Fece in Gerusalem con le sue mani Il mal guardato e già negletto nido. Ite superbi, o miseri Cristiani,
Consumando l'un l'altro, e non vi caglia Che'l sepolcro di Cristo è in man di cani. Raro o nessun ch'in alta fama saglia Vidi dopo costui (s'io non m'inganno), O per arte di pace o di battaglia. Pur, com'uomini eletti ultimi vanno, Vidi verso la fine il Saracino
Che fece a' nostri assai vergogna e danno Quel di Luria seguiva il Saladino:
Poi'l duca di Lancastro, che pur dianzi Er' al regno de' Franchi aspro vicino. Miro, com'uom che volentier s'avanzi, S'alcuno vi vedessi qual egli era Altrove agli occhi miei veduto innanzi ; E vidi duo che si partir iersera
Di questa nostra etate e del paese; Costor chiudean quell' onorata schiera : Il buon re sicilian, ch' in alto intese E lunge vide, e fu verament' Argo: Dall' altra parte il mio gran Colonnese, Magnanimo, gentil, costante e largo.
In questo ripone coloro che per nobiltà di letteratura si sono renduti celebri, non facendo menzione se non de' Greci e de' Romani.
Io non sapea da tal vista levarme;
Quand' io udii: pon mente all'altro lato; Che s'acquista ben pregio altro che d'arme. Volsimi da man manca, e vidi Plato;
Che'n quella schiera andò più presso al segno Al qual aggiunge a chi dal Cielo è dato.
Aristotele poi, pien d'alto ingegno; Pitagora, che primo umilemente Filosofia chiamò per nome degno; Socrate e Senofonte; e quell' ardente Vecchio a cui fur le Muse tanto amiche, Ch' Argo e Micena e Troia se ne sente. Questi cantò gli errori e le fatiche
Del figliuol di Laerte e della Diva; Primo pittor delle memorie antiche. A man a man con lui cantando giva Il Mantoan, che di par seco giostra Ed uno al cui passar l'erba fioriva. Quest' è quel Marco Tullio, in cui si mostra Chiaro quant'ha eloquenza e frutti e fiori; Questi son gli occhi della lingua nostra. Dopo venia Demostene, che fuori
È di speranza omai del primo loco, Non ben contento de' secondi onori: Un gran folgor parea tutto di foco; Eschine il dica che'l potè sentire
Quando presso al suo tuon parve già roco. Io non posso per ordine ridire
Questo o quel dove mi vedessi o quando, E qual innanzi andar e qual seguire; Che cose innumerabili pensando,
E mirando la turba tale e tanta, L'occhio il pensier m' andava desviando. Vidi Solon, di cui fu l'util pianta
Che, s'è mal culta, mal frutto produce; Con gli altri sei di cui Grecia si vanta. Qui vid❜io nostra gente aver per duce
Varrone, il terzo gran lume romano, Che quanto 'l miro più, tanto più luce. Crispo Sallustio; e seco a mano a mano Uno che gli ebbe invidia e videl torto, Cioè 'l gran Tito Livio padoano. Mentr'io mirava, subito ebbi scorto Quel Plinio veronese suo vicino, A scriver molto, a morir poco accorto.
Poi vidi'l gran platonico Plotino, Che, credendosi in ozio viver salvo, Prevento fu dal suo fiero destino, Il qual seco venia dal matern' alvo, E però provvidenza ivi non valse:
Poi Crasso, Antonio, Ortensio, Galba, e Calvo Con Pollion, che'n tal superbia salse,
Che contra quel d' Arpino armar le lingue Ei duo, cercando fame indegne e false. Tucidide vid'io, che ben distingue
I tempi e i luoghi e loro opre leggiadre, E di che sangue qual campo s'impingue. Erodoto, di greca istoria padre,
Vidi; e dipinto il nobil geometra
Di triangoli e tondi e forme quadre; E quel che 'nver di noi divenne petra, Porfirio, che d'acuti sillogismi Empiè la dialettica faretra,
Facendo contra 'l vero arme i sofismi; E quel di Coo, che fe via miglior l'opra, Se ben intesi fosser gli aforismi. Apollo ed Esculapio gli son sopra,
Chiusi, ch' appena il viso gli comprende; Si par che i nomi il tempo limi e copra. Un di Pergamo il segue; e da lui pende L'arte guasta fra noi, allor non vile, Ma breve e oscura; ei la dichiara e stende. Vidi Anasarco intrepido e virile;
E Senocrate più saldo ch' un sasso, Che nulla forza il volse ad atto vile. Vidi Archimede star col viso basso;
E Democrito andar tutto pensoso, Per suo voler di lume e d'oro casso. Vid' Ippia, il vecchierel che già fu oso Dir: ' so tutto; e poi di nulla certo, Ma d'ogni cosa Archesilao dubbioso. Vidi in suoi detti Eraclito coperto; E Diogene cinico, in suoi fatti
Aşsai più che non vuol vergogna, aperto;
E quel che lieto i suoi campi disfatti Vide e deserti, d'altra merce carco, Credendo averne invidiosi patti. Iv'era il curioso Dicearco;
Ed in suoi magisteri assai dispari Quintiliano e Seneca e Plutarco. Vidivi alquanti c'han turbati i mari Con venti avversi ed intelletti vaghi: Non per saper ma per contender chiari; Urtar come leoni, e come draghi
Con le code avvinchiarsi: or, che è questo, Ch'ognun del suo saper par che s'appaghi? Carneade vidi in suoi studi sì desto,
Che parland' egli, il vero e'l falso appena Si discernea; così nel dir fu presto. La lunga vita e la sua larga vena
D'ingegno pose in accordar le parti Che'l furor litterato a guerra mena. Nè'l poteo far: che come crebber l'arti, Crebbe l'invidia; e col sapere insieme Ne' cuori enfiati i suoi veneni sparti. Contra 'buon Sire che l'umana speme Alzò, ponendo l'anima immortale, S'armo Epicuro (onde sua fama geme), Ardito a dir ch'ella non fosse tale (Cosi al lume fu famoso e lippo), Con la brigata al suo maestro eguale; Di Metrodoro parlo e d'Aristippo.
Poi con gran subbio e con mirabil fuso Vidi tela sottil tesser Crisippo.
Degli Stoici 'l padre alzato in suso, Per far chiaro suo dir, vidi Zenone Mostrar la palma aperta e'l pugno chiuso;
E per fermar sua bella intenzione La sua tela gentil tesser Cleante, Che tira al ver la vaga opinione.
Qui lascio, e più di dolor non dico avante.
Un dubbio verno, un instabil sereno È vostra fama; e poca nebbia il rompe; El gran Tempo a' gran nomi è gran veneno. Trionfo del Tempo.
In questo Trionfo, per significare che la fama degli uomini perisce in breve, sopraffatta dal Tempo che la distrugge, il Petrarca introduce il Sole, rappresentante il Tempo, a querelarsi della Fama e a vendicarsene, raddoppiando, per annientarla più tosto, la propria velocità. Dal che egli prende argomento, prima di sprezzare la vita umana perchè cortissima, e di biasimare coloro che fondano le loro speranze in essa; e appresso, di redarguir quelli ancora che credono di vivere eternamente per fama dopo la loro morte.
Dell' aureo albergo, con l'Aurora innanzi, Si ratto usciva 'l Sol cinto di raggi, Che detto aresti: e' si corcò pur dianzi. Alzato un poco, come fanno i saggi, Guardoss' intorno; ed a se stesso disse: Che pensi? omai convien che più cura aggi. Ecco, s'un uom famoso in terra visse, E di sua fama per morir non esce, Che sarà della legge che 'l Ciel fisse? E se fama mortal morendo cresce,
Che spegner si doveva in breve, veggio Nostra eccellenzia al fine; onde m'incresce. Che più s'aspetta, ó che pote esser peggio? Che più nel ciel ho io, che 'n terra un uomo, A cui esser egual per grazia chieggio? Quattro cavai con quanto studio como, Pasco nell' Oceano, e sprono e sferzo! E pur la fama d'un mortal non domo.
« ÖncekiDevam » |