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Ingiuria da corruccio e non da scherzo,
Avvenir questo a me; s'io foss' in cielo,
Non dirò primo, ma secondo o terzo.
Or convien che s'accenda ogni mio zelo,
Si ch' al mio volo l'ira addoppi i vanni:
Ch' io porto invidia agli uomini, e nol celo:
De' quali veggio alcun, dopo mill' anni
E mille e mille, più chiari che'n vita;
Ed io m'avanzo di perpetui affanni.
Tal son qual era anzi che stabilita
Fosse la terra; dì e notte rotando
Per la strada rotonda ch'è infinita.
Poi che questo ebbe detto, disdegnando
Riprese il corso più veloce assai

Che falcon d'alto a sua preda volando.
Più dico; nè pensier poria giammai
Seguir suo volo, non che lingua o stile;
Tal che con gran paura il rimirai.
Allor tenn' io il viver nostro a vile
Per la mirabil sua velocitate,

Via più ch' innanzi nol tenea gentile:

E parvemi mirabil vanitate

Fermar in cose il cor che'l Tempo preme,
Che mentre più le stringi, son passate.
Però chi di suo stato cura o teme,

Proveggia ben, mentr' è l'arbitrio intero,
Fondar in loco stabile sua speme:

Che quant' io vidi 'l Tempo andar leggero
Dopo la guida sua, che mai non posa,
I' nol dirò, perchè poter nol spero.
I' vidi'l ghiaccio, e li presso la rosa;
Quasi in un punto il gran freddo e 'l gran caldo;
Che pur udendo par mirabil cosa.
Ma chi ben mira col giudicio saldo,
Vedrà esser così: che nol vid' io;
Di che contra me stesso or mi riscaldo.
Seguii già le speranze e'l van desio;

Ör ho dinanzi agli occhi un chiaro specchio
Ov' io veggio me stesso e'l fallir mio;

;

E quanto posso, alfine m'apparecchio,
Pensando'l breve viver mio, nel quale
Stamane era un fanciullo ed or son vecchio.
Che più d'un giorno è la vita mortale,
Nubilo, breve, freddo e pien di noia
Che può bella parer, ma nulla vale?
Qui l'umana speranza e qui la gioia;
Qu'i miseri mortali alzan la testa;
E nessun sa quanto si viva o moia.
Veggio la fuga del mio viver presta,
Anzi di tutti; e nel fuggir del Sole,
La ruina del mondo manifesta.
Or vi riconfortate in vostre fole,
Giovani, misurate il tempo largo;
Che piaga antiveduta assai men dole.
Forse che ndarno mie parole spargo;
Ma io v'annunzio che voi sete offesi
Di un grave e mortifero letargo:

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Che volan l'ore, i giorni e gli anni e i mesi ;
E 'nsieme, con brevissimo intervallo,
Tutti avemo a cercar altri paesi.
Non fate contra'l vero al core un callo,
Come sete usi; anzi volgete gli occhi
Mentr' emendar potete il vostro fallo.
Non aspettate che la Morte scocchi,

Come fa la più parte; che per certo
Infinita è la schiera degli sciocchi.
Poi ch'i' ebbi veduto e veggio aperto
Il volar e 'l fuggir del gran pianeta,
Ond' i' ho danni e 'nganni assai sofferto;
Vidi una gente andarsen queta queta,

Senza temer di Tempo o di sua rabbia;
Che gli avea in guardia istorico o poeta.
Di lor par più che d'altri invidia s'abbia;
Che per se stessi son levati a volo,
Uscendo for della comune gabbia.
Contra costor colui che splende solo,
S'apparecchiava con maggiore sforzo,
E riprendeva un più spedito volo.

A' suoi corsier raddoppiať' era l'orzo;
E la reina di ch'io sopra dissi,

Volea d'alcun de' suoi già far divorzo.
Udi' dir, non so a chi, ma 'I detto scrissi :
In questi umani, a dir proprio, ligustri,
Di cieca obblivione oscuri abissi,
Volgerà 'l Sol, non pur anni, ma lustri
E secoli, vittor d'ogni cerebro;

E vedra' il vaneggiar di questi illustri.
Quanti fur chiari tra Peneo ed Ebro,

Che son venuti o.verran tosto meno! Quant' in sul Xanto e quant' in val di Tebro! Un dubbio verno, un instabil sereno

È vostra fama; e poca nebbia il rompe;
E'l gran tempo a' gran nomi è gran veneno.
Passan vostri trionfi e vostre pompe,
Passan le signorie, passano i regni ;
Ogni cosa mortal Tempo interrompe;
E ritolta a' men buon, non dà a' più degni:
E non pur quel di fuori il Tempo solve,
Ma le vostr' eloquenze e i vostri ingegni.
Così fuggendo, il mondo seco volve;

Nè mai si posa nè s'arresta o torna,
Fin che v' ha ricondotti in poca polve.
Or perchè umana gloria ha tante corna,
Non è gran maraviglia s'a fiaccarle
Alquanto oltra l'usanza si soggiorna.
Ma cheunque si pensi il volgo o parle,
Se'l viver nostro non fosse si breve,
Tosto vedreste in polve ritornarle.
Udito questo (perchè al ver si deve
Non contrastar, ma dar perfetta fede),
Vidi ogni nostra gloria, al Sol, di neve.
E vidi '1 Tempo rimenar tal prede

De' vostri nomi, ch'i' gli ebbi per nulla:
Benchè la gente ciò non sa nè crede;
Cieca, che sempre al vento si trastulla,
E pur di false opinion si pasce,

Lodando più'l morir vecchio, che 'n culla.

Petrarca.

49

Quanti felici son già morti in fasce!
Quanti miseri in ultima vecchiezza!
Alcun dice: beato è chi non nasce.
Ma per la turba a'grandi errori avvezza,
Dopo la lunga età sia'l nome chiaro:
Che è questo però che si s'apprezza?
Tanto vince e ritoglie il Tempo avaro;
Chiamasi Fama, ed è morir secondo
Nè più che contra 'l primo è alcun riparo.
Così 'I Tempo trionfa i nomi e'l mondo.

TRIONFO DELLA DIVINITÀ

E non avranno in man gli anni 'l governo
Delle fame mortali; anzi chi fla

Chiaro una volta, fia chiaro in eterno.
Trionfo della Divinità.

CAPITOLO UNICO.

In questo Trionfo, che dovrebbe intitolarsi piuttosto dell'Eternità, sbigottito il Petrarca dalla caducità di tutte le cose terrene, protesta di non confidare che in Dio; accenna la distruzione di tutto il mondo presente, e l'eternità di un altro; si rallegra cogli eletti alla gloria di questo nuovo mondo, e commisera gli esclusi da essa; finalmente spera di esser egli presto, tra i primi, e di beatificarsi rivedendo Laura in cielo.

Da poi che sotto'l ciel cosa non vidi
Stabile e ferma. tutto sbigottito

Mi volsi, e dissi: guarda; in che ti fidi?
Risposi: Nel Signor che mai fallito

Non ha promessa a chi si fida in lui:

Ma veggio ben che'l mondo m'ha schernito;

E sento quel ch'io sono e quel ch'i'fui;
E veggio andar, anzi volar il tempo;
E doler mi vorrei, nè șo di cui:
Che la colpa è pur mia, che più per tempo
Dove' aprir gli occhi, e non tardar al fine:
Ch'a dir il vero, omai troppo m' attempo.
Ma tarde non fur mai grazie divine:

In quelle spero che'n me ancor faranno
Alte operazioni e pellegrine.

Così detto e risposto: or se non stanno
Queste cose che 'l Ciel volge e governa,
Dopo molto voltar, che fine aranno?
Questo pensava: e mentre più s'interna
La mente mia, veder mi parve un mondo
Novo, in etate immobile ed eterna
E' Sole e tutto'l ciel disfare a tondo
Con le sue stelle; ancor la terra e'l mare;
E rifarne un più bello e più giocondo.
Qual maraviglia ebb'io quando restare
Vidi in un pè colui che mai non stette,
Ma discorrendo suol tutto cangiare!
E le tre parti sue vidi ristrette

Ad una sola; e quell' una esser ferma: Si che, come solea, più non s'affrette! E quasi in terra d'erba ignuda ed erma, Nè fia nè fu nè mai v'era, anzi o dietro, Ch'amara vita fanno, varia enferma. Passa 'l pensier si come Sole in vetro, Anzi più assai, però che nulla il tene: O qual grazia mi fia, se mai l' impetro, Ch'i' veggia ivi presente il sommo Bene, Non alcun mal, che solo il tempo mesce, E con lui si diparte e con lui vene! Non avrà albergo il Sol in Tauro o'n Pesce ; Per lo cui variar, nostro lavoro

Or nasce or more, ed or scema ed or crésce.

Beat' i spirti che nel sommo coro

Si troveranno o trovano in tal grado

Che fia in memoria eterna il nome loro!

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