A lingua dir non l'oso, Per gran temenza ch'aggio non lo sdegni. Pietà che mova a gife E faccia in lei riposo, E mercè umilemente se li alligni, Ver me, che non è noja Per suo servir verace, E non per altro gioco che m'avvegna. GUIDO DELLE COLONNE Guido delle Colonne nacque ai tempi di Federigo II, e fiori verso il 1250; e fu appellato Giudice, perchè tal vocabolo a quei tempi valeva lo stesso che a' di nostri quello di Dottore. Egli viaggio con Eduardo I di Sicilia in Inghilterra, e scrisse la storia de're e delle cose inglesi. Tradusse dal greco in latino, ed ampliò la storia della guerra di Troja di Ditti e di Darete. Coltivò pure la poesia volgare, ed è reputato dal Muratori rimatore assai (terso..... Nelle rime di Guido c'incontriamo ad alcuni concetti é fantasie, che vogliono aversi in miglior conto dell'assoluta mancanza di sentimenti e di pensieri; e nel suo stile e nel suo verseggiare si scorgono alcuni progressi della poesia italiana. Il Perticari afferma che le Canzoni del nostro poeta sono di quell'oro vecchio che si stima il più fino. Ma l'eleganza del suo stile è secondo che portava quella prima età CANZONE Amor, che longiamente m'hai menato Chè soverchianza m' ha vinto e stancato: Più che non fa Assassino in suo cuitato, prendavi mercide, Chè bene è dolce il mal se non m'ancide. Più bella d'altra che sia 'n vostra terra, Che per voi erra e gran travaglia n' ave. E poca pioggia grande vento atterra, Quand' uomo è vinto da uno suo migliore; E tanto più da Amor, che vince tutto! Perciò non dutto ch'Amor non mi smova: Saggio guerriero vince guerra e prova. Non dico ch'alla vostra gran bellezza Orgoglio non convegna, e stiale bene; Chè a bella donna orgoglio ben convene, Che la mantene in pregio ed in grandezza. Troppa alterezza è quella che sconvene. Di grande orgoglio mai ben non avvene. Dunque, Madonna, la vostra durezza Convertasi in pietanza, e si raffrene; Non si distenda tanto ch'io mi pera. Lo Sol sta alto, e sì face lumera Viva, quanto più in alto ha da passare. Vostro orgogliare dunque e vostra altezza Mi faccian prode e tornino in dolcezza. I'allumo dentro, e sforzo in far sembianza Di non mostrar ciò che lo meo cor sente. Ahi quanto è dura pena al cor dolente e non far dimostranza! Istar tacente Che la pesanza alla cera consente, E fanno vista di lor portamente. La cera con lo core insembremente. E chi troppo ama, appena ha in sè misura. come nave il vento in onda ; Voi siete il mio pennel che non affonda. RINALDO D'AQUINO Rinaldo d'Aquino non si sa se così fosse detto dal nome di sua famiglia, oppur da quello della sua patria, città del Regno di Napoli. Incerto è pure se sia diverso da quel Rinaldo d'Aquino che, al riferire dell'Ughelli, era vescovo di Martorano nel 1255. Il Toppi ne ha parlato come di due, ma Antonio Ricchi li crede una stessa persona. Apostolo Zeno poi è d'opinione che non sia diverso da quel Rinaldo d'Aquino (terzo di questo nome in essa famiglia) secondogenito di Adinolfo, figliuolo di Andrea, signore di Grottamenarda, che visse al tempo di Federigo II, e che fu spedito nel 1257 vicerè in Terra d'Otranto e Bari, siccome racconta Filippo Campanile. Comunque sia la cosa, questo Rinaldo scrisse alcune poesie volgari, delle quali abbiamo alle stampe otto Canzoni. Il Crescimbeni ha giudicato che il suo stile veramente sia di quel tempo; con tutto ciò pare che abbia un non so che di più culto e più franco che in molti de' suoi contemporanei non è, quantunque la rozzezza talvolta l'appanni in guisa che si dura grandissima fatica a conoscerlo. Indi aggiunge che, avendo il Trissino citati di lui nella sua Poelica alcuni passi assai più purgati di quelli che abbiamo nelle Raccolte, segno evidente si è che il difetto di questa rozzezza in buona parte deriva o dalla scorrezione dei testi, o dall'ignoranza di chi li trascrisse.... CANZONE Guiderdone aspetto avire Ancorchè mi siate altera, Non vivo in disperanza Ch'ha acquistato. In disperanza non mi getto, Di buon cuore è la leanza Ch' io vi porto, e la speranza Però non mi scoraggio D'Amor, che m'ha distretto; Per lo reo tempo ride, 7 S'io pur spero in allegranza, Fina donna, non mi siate Chè donna, ch'a bellezze, Com' uom'è, ch' ha ricchezze, Di ciò ch' ave. Se non è bene appreso, Nudrito ed insegnato, Da ogn' uomo n'è ripreso, E posto a grave. Fina donna, ch' io non perisca S' io vi prego, non v'incrisca Mia preghiera. La bellezza, che in voi pare, Mi distrigne, e lo sguardare Della cera. La figura piacente Lo core mi diranca; Di ciò che m' attalenta, |