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Ella sen va, sentendosi laudare,
Benignamente d'umiltà vestuta;
E par che sia una cosa venuta

Di cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi si piacente a chi la mira,

Che dà per occhi una dolcezza al core, Che 'ntender non la può chi non la pruova. E par, che dalle sue labbia si mova Uno spirto soave e pien d'amore Che va dicendo all'anima: sospira.

2

V.

Vede perfettamente ogni salute

Chi la mia donna tra le donne vede:
Quelle, che van con lei, sono tenute
Di bella grazia a Dio render mercede.
E sua beltade è di tanta virtute,

Che nulla invidia all'altre ne procede,
Anzi le face andar seco vestute
Di gentilezza, d'amore e di fede.
La vista sua face ogni cosa umile,
E non fa sola sè parer piacente,
Ma ciascuna per lei riceve onore.
Ed è negli atti suoi tanto gentile,
Che nessun la si può recare a mente,
Che non sospiri in dolcezza d'amore.

VI.

Alla Repubblica di Firenze.

Oimè, Comun, come conciar ti veggio
Si dagli oltramontan, si da' vicini!
E maggiormente da tuo' cittadini
Che ti dovrebbon por nell' alto seggio.

Chi più ti dee onorar que' ti fa peggio;
Legge non ci ha che per te si dicriní
Co' graffi, colla sega, e cogli uncini,
Ciascun s'ingegna di levar lo scheggio.
Capel non ti riman che ben ti voglia:
Chi ti to' la bacchetta e chi ti scalza,
Chi il vestimento stracciando ti spoglia.
Ogni lor pena sopra te rimbalza:
Niuno non è che pensi di tua doglia,
O stu dibassi quando sè rinalza.

CINO DA PISTOJA

Nacque di Francesco Sinibaldi in Pistoia nel 1270. Studiò contemporaneamente la poesia e la giurisprudenza, e in ambedue fu sommo, quantunque quelli studii sembrino l'uno all' altro contrari. Ma questi prodigi non sono rari fra gli Italiani, gli ingegni dei quali sono di tutto capaci e sanno accoppiare l'aridità della scienza ai fiori della poesia.

Cino studiò la legge a Bologna, e vi fu laureato: poi tornato a Pistoia vi esercitò l'ufficio di giudice, finchè le guerre civili non lo costrinsero ad abbandonare la patria, ed ogni cosa più caramente diletta. Quando dopo lunghi contrasti prevalsero i Guelfi, egli, come appartenente alla fazione contraria, fu costretto a fuggire. Trovò rifugio nella fortezza di Piteccio presso Filippo Vergiolesi, la cui figlia Selvaggia allora cominciò ad amare, e poi la celebrò nelle sue Rime. Cino nel suo esilio andò girando per vari paesi, e fu professore di leggi a Treviso, a Perugia, a Firenze, e sali in gran fama pel suo Commento sui primi nove libri del codice. Mori nel 1336.

La fama di Cino come giureconsulto, grandissima nell' età sua, più non dura al presente. Ora egli vive sempre glorioso come gentile Poeta, e come tale fu lodato da Dante, e preso a modello dal Petrarca. Si è creduto per molto tempo che il Petrarca gli

1 Decrini: declini.

2 Stu, se tu.

fosse stato discepolo, ma ai giorni nostri il chiarissimo professor Ciampi con validissimi argomenti ha provato il contrario.

Le poesie di Cino, se si eccetui la canzone in morte di Enrico VII, e poche altre, sono tutte in lode di Selvaggia. Si può dire di esse che sono le più belle, le più animate, le più armoniose ed eleganti che producesse l'Italia, primachè il Petrarca scrivesse le sue.

ATTO VANNUCCI.

CANZONE

Quando Amor gli occhi rilucenti e belli,
Ch' han d'alto foco la sembianza vera,
Volge ne' miei, sì dentro arder mi fanno,
Che per virtù d'Amor vengo un di quelli
Spirti, che son nella celeste sfera,

Ch'Amor e gioia ugualmente in lor hanno;
Poi, per mio grave danno,

S' un punto sto, che fisso non li miri,
Lagriman gli occhi, e 'l cor tragge sospiri.
Così veggio, che in sè discorde tiene

Questa troppo mia dolce e amara vita,
Chi'n un tempo nel ciel trovasi e'n terra;
Ma di gran lunga in me crescon le pene,
Per che cherendo ad alta voce aita,
Gli occhi altrove mirando mi fan guerra:
Or se pietà si serra

Nel vostro cor, fate ch' ognor contempre
Il bel guardo, che 'n ciel mi terrà sempre.
Sempre non già, poscia che nol consente
Natura, ch' ordinato ha che le notti
Legati sien, non già per mio riposo,
Perciò ch' allor sta lo mio cor dolente,
Nè sono all' alma i suoi pianti interrotti,
Del duol, ch'ho per fin qui tenuto ascoso;
Deh se non v'è noioso

Chi v'ama, fate almen, perch'ei non mora,
Parte li miri della notte ancora.

Non è chi imaginar, non che dir pensi
L' incredibil piacer, Donna, ch' io piglio
Del lampeggiar delle due chiare stelle,
Da cui legati ed abbagliati i sensi,
Prende 'l mio cor un volontario esiglio,
E vola al ciel tra l'altre anime belle:
Indi dipoi lo svelle

La luce vostra, ch'ogni luce eccede,
Fuor di quella di Quel, che 'l tutto vede.
Ben lo so io; che'l sol tanto già mai
Non illustrò col suo vivo splendore
L'aer, quando che più di nebbia è pieno,
Quanto i vostri celesti e santi rai,
Vedendo avvolto in tenebre 'l mio core,
Immantinente fer chiaro e sereno ;
E dal carcer terreno

Sollevandol talor, nel dolce viso
Gustò molti dei ben del Paradiso.
Or perchè non volete più ch' io miri
Gli occhi leggiadri, u' con Amor già fui,
E privar lo mio cor di tanta gioia?
Di questo converrà, ch'Amor s'adiri,
Chè un core in sè, per vivere in altrui,
Morto, non vuol ch'un'altra volta moia:
Or se prendete a noia

Lo mio Amor, occhi d'Amor rubegli,
Foste per comun ben stati men begli.
Agli occhi della forte mia nemica
Fa', Canzon, che tu dica:

Poi che veder voi stessi non possete,
Vedete in altri almen quel che voi sete.

SONETTI

I.

Amore al Tribunale della Ragione.

Mille dubbi in un dì, mille querele,
Al tribunal dell' alta Imperatrice,
Amor contra me forma irato, e dice:
Giudica chi di noi sia più fedele.
Questi, sol mia cagion, spiega le vele
Di fama al mondo ove saria 'nfelice.
Anzi d'ogni mio mal sei la radice,
Dico e provai già di tuo dolce il fele.
Ed egli: Ahi falso servo fuggitivo!

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È questo 'l merto che mi rendi, ingrato, Dandoti una cui 'n terra egual non era? Che val, seguo, se tosto me n'hai privo? Io no, risponde. Ed ella: a si gran piato, Convien più tempo a dar sentenza vera.

II

La Tomba di Selvaggia.

lo fu' in su l'alto e in sul beato monte,
Ove adorai baciando il santo sasso:
E caddi 'n su quella pietra, ohimè lasso!
Ove l'onestà pose la sua fronte:

E ch'ella chiuse d'ogni virtù il fonte
Quel giorno che di morte acerbo passo
Fece la donna dello mio cor lasso
Già piena tutta d'adornezze conte.
Quivi chiamai a questa guisa Amore:
Dolce mio dio, fa' che quinci mi traggia
La morte a sè, che qui giace il mio core.
Ma poi che non m'intese il mio signore,
Mi diparti', pur chiamando: Selvaggia;
L'alpe passai con voce di dolore.

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