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dei nostri poeti dello stil nuovo, che hanno tanti punti di affinità fra loro, specie nel concepimento e nella rappresentazione della donna angelicata.

Le rime pertinenti a questa sezione della Vita nuova si aprono colla canzone: Donne che avete intelletto d'amore, la quale, come altri notò, può considerarsi come il programma del dolce stil nuovo. E presto dovette essere diffusa, se il Vat. 3793, degli ultimi del Trecento, contiene la risposta in nome delle donne gentili e sulle medesime consonanze. La canzone, come è noto, procedendo dagli arditi filosofemi del Guinizzelli, è un inno alto di lode alla donna, considerata negli affetti angelici che in noi suscita e nelle sue qualità tutte di paradiso: la stanza: Angelo clama il divino intelletto, diretto a donna mortale, è forte e passionata come l'altra che Bernardo innalzerà alla Vergine nell' ultimo canto del Paradiso: mai la nostra lirica del Duecento seppe e poté salire più in alto.

I paralipomeni di questa canzone, che è tutta consacrata alla lode di Beatrice, sono raccolti nel sonetto: Amore e 'l cor gentil sono una cosa, che, nota giustamente il prefato Casini, « considerato di per sé non ha valore alcuno di poesía, ma raffrontato alle rime dottrinali dei poeti antichi mostra Dante assai piú disinvolto nel trattar questa forma che i suoi predecessori non fossero ». Certo però ha valore, se si considera che esso è un complemento alle teorie erotiche del Duecento; è la dimostrazione scolastica del modo onde in noi si formi l'amore, il quale, (Convivio, III, 2), non è altro che unimento spirituale dell'animo e della cosa amata. Ma il primo sonetto nel quale il Poeta fonde l'ideale e il reale; il primo di una serie nella quale la bellezza corporea scompare, e la fantasía del Poeta la rappresenta solo nei suoi effetti psicologici, è lo stupendo: Ne li occhi porta la mia donna Amore. A questo tempo, cioè alle lodi della bellezza spirituale di Beatrice, e agli effetti che essa produceva sul Poeta, si collega la ballata: Io mi son pargoletta bella e nuova, squisitamente vaporosa e aerea come una madonna del beato Angelico; e i sonetto: Da gli occhi della mia donna si muove, che per diversi atteggiamenti sembra a noi molto simile a l'altro: Ne li occhi porta.

Quattro sonetti, due soltanto dei quali sono inseriti nella Vita nuova, sono certamente da attribuire ai primi del 1290, poiché scritti pel padre di Beatrice, anzi per colui che era stato genitore di tanta maraviglia.' Veramente, e non so se ciò sia stato osservato da altri, il capitolo XXII della Vita nuova a me pare cronologica

'Pubblicata prima da G. SALVADORI, nella Domenica letteraria, auno III, n. VII. Su di essa vedi le belle considerazioni del D'ANCONA, Antiche rime volgari, III, p. 361-364 e del prof. CASINI, al vol. V della stessa pubblicazione, e piú lungamente e ampiamente quello che ne scrisse il SALVADORI stesso nel suo bel libro: La poesia e la canzone d'amore di Guido Cavalcanti, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 1893.

'Mori il 31 decembre 1289. Vedi L. PASSERINI, Storia degli stabilimenti di beneficenza, Firenze, Le Monnier, 1883, p. 284.

mente a posto, in quanto si riferisca ai fatti che sono l'oggetto del racconto, ma non cosí per la rappresentazione della lode spirituale di Beatrice, la quale in questo capitolo è donna reale ed umana nel più alto senso della parola, e piange sí che quale la mirasse dovrebbe morire di pietate, e le donne le quali andavano ragionando tra loro, dopo essersi dipartite da lei, che avevano confortata nella sua angoscia, dicevano: Chi deve mai essere lieta di noi, che avemo udita parlare questa donna cosí pietosamente? Altri veda se la mia osservazione è degna di esame. Adunque i sonetti dettati in occasione della morte del padre di Beatrice sono: Voi che portate la sembianza umile; Voi, donne, che pietoso atto mostrate, e: Onde venite voi cosi pensose, diretti alle donne che il Poeta vede ritornare dalla casa dove questa gentilissima Beatrice piangea pietosamente; e: Se' tu colui ch' hai trattato sovente, nel quale il Poeta riproduce la risposta che a lui avrebbero data le donne, se le avesse interrogate. Certo se altri componimenti danteschi eccellono per bontà d'arte, questi sono importantissimi non solo per la cronología di questo luogo della Vita nuova, ma per gli altri due che seguono, e cioè la IV visione e la morte di Beatrice.

Il capitolo XXIII della Vita nuova, e la seguente canzone: Donna pietosa e di novella etate, sono senza dubbio da annoverare tra le più splendide pagine che siano state scritte sotto l'impulso d'una passione forte e violenta. Nel parossismo della dolorosa infermitade, onde Dante sofferse per nove di amarissima pena, nel vaneggiamento della febbre che picchia al cervello e desta nella mente immagini spaventose e sussulti al cuore, si disegna nel fantasticare del Poeta una scena di dolore. Di necessitate conviene, che la gentilissima Beatrice alcuna volta si moia! Poche volte, credo, dolore, spavento, maraviglia, angoscia, furono plasmati e rappresentati da un artista con maggiore efficacia, evidenza e terribilità di concepimento e di forme; e se fu giustamente notato che questo concepire e rappresentare della donna morta fu piú tardi, nei suoi atteggiamenti principali, imitato dal Petrarca (Trionfo della Morte, I, 165), e dal Tasso (Gerusalemme liberata, XII, 69), non è mai abbastanza notato che questo capitolo della Vita nuova non sentirono coloro che negarono la realtà di Beatrice. Ma lo studio su le rime di Dante altri già fece e in modo insuperabile; a noi, che procuriamo dare al suo canzoniere un'ordinamento giusta il contenuto e i pochi dati cronologici su cui possiamo esser certi, basta ascrivere questa canzone ai primi mesi del 1290.

Né la Donna pietosa e di novella etade è la sola canzone che Dante scrisse prima della morte di Beatrice. Anche l'altra: Morte poi ch' io non trovo a cui mi doglia, fu scritta per la medesima occasione. Ha ragione il Carducci quando solleva qualche dubbio sull'autenticità di essa, non senza appoggio ai codici; ma io osservo che essi non

Vedi anche il geniale scritto del prof. A. CESARI: La morte nella poesia italiana, Bologna, Zanichelli, 1888.

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ci danno alcuna prova appartenga invece, come altri sostenne, a Iacopo Cecchi; e se la attribuzione potesse parere ad alcuno alquanto incerta, ripeterò col Casini che i codici che l'attribuiscono al Cecchi non sono affatto piú autorevoli di quelli che l'attribuiscono a Dante. Certo è che le due canzoni non mancano di affinità, quantunque dobbiamo notare che diversi sono i momenti che le hanno ispirate, giacché nella prima è rappresentata, con molti particolari, una scena molto complessa, nell'altra è un' invocazione alla morte, molto comune nel Due e nel Trecento, perché trattenga la scure, e non esca Pinta per corda la saetta fore. Ma la somiglianza tra le due can zoni, specie pel concepimento generale, stanno in questi versi :

Morte, deh! non tardar mercé, se l'hai;

ché mi par già veder lo cielo aprire,

e gli angeli di Dio quaggiú venire,

per volerne portar l'anima santa

di questa in cui onor lasso si canta.
(Canz.: Morte, poi ch' io non trovo).

Levava gli occhi miei bagnati in pianto,
e vedea, che parea pioggia di manna,

gli angeli che tornavan suso in cielo,

ed una nuvoletta avean davanti,

dietro la qual gridavan tutti: osanna.
(Canz.: Donna pietosa).

Non siamo persuasi che le rime contenute nei capitoli XXIV-XXVII della Vita nuova appartengano agli anni 1287-1290, e, buona o cattiva, ne diamo súbito la ragione. Dopo la IV visione, in cui si presentano al Poeta cose dubitose molte, dopo aver vista in sogno morta la donna sua ch'era si bella, il rigoroso e logico procedere della narrazione vorrebbe si passasse al : Quomodo sedet sola civitas plena populo! del capitolo XXVIII. Invece no in una visione, appariscono a Dante Beatrice e Giovanna, e ciò si può spiegare col fatto che il Poeta aveva bisogno di congiungere idealmente la sua con quella che fu molto donna del suo primo amico; ma se ciò era richiesto dall'organismo del libro, nessun argomento ci può indurre ad assegnarle la data del 1290, come richiederebbe il luogo ove essa è collocata. Per questo, il sonetto: Io mi sentii svegliar dentro lo core, reputo appartenere a quella serie propria dei rimatori dello stil nuovo che si compiacquero di queste artistiche rappresentazioni delle loro donne in compagnia di altri; cosí in altra occasione Dante voleva in un vascello con Guido e con Lapo, monna Bice, monna Vanna e monna Lagia; cosí nel

' R. Renier, Liriche di Fazio degli Uberti, Firenze, Sansoni, p. cccxxIV-CCCXXV.

sonetto: Di donne vidi una gentile schiera, che desidererei di Dante, tanto è bello, quantunque vi sovrabbondi l'elemento ideale, un ignoto poeta cantava :'

A chi era degno poi dava salute

cogli occhi suoi quella benigna e piana,
empiendo il core a ciascun di virtute.
Credo che in ciel nascesse esta soprana,
e venne in terra per nostra salute:
Dunque beata chi l'è prossimana.

Ma è erroneo volere, dal luogo che occupa il sonetto: Io mi sentii svegliar, inferire appartenga al 1290, e parmi del mio avviso l'illustre Casini, quando scrive che il Poeta, volendolo collegare con la canzone [Donna pietosa,] non seppe far di meglio che sottilizzare sui nomi proprii, com'era suo costume. E per la stessa ragione i sonetti: Tanto gentile e tanto onesta pare, e: Vede perfettamente ogni salute, non crederemo scritti dopo la IV visione, ma bensí nel medesimo stato d'animo e nelle stesse condizioni commotive onde scrisse l'altro: Ne li occhi porta la mia donna Amore, nei quali è perfetta la fusione del reale e dell' ideale, e la bellezza corporea appare tutt'involuta da un raggio di celeste e di divino. Ancora; la stanza: Sí lungiamente m' ha tenuto Amore, con la quale si chiude la seconda serie della Vita nuova, quella, cioè, che ha per materia e fine la lode di Beatrice, è a considerarsi un componimento a sé: può accettarsi quanto altri notò « che l'idea di presentarla come un frammento di canzone venisse al Poeta solo quando volle farla servire come espressione del passaggio suo dallo stato di contemplazione a quello del dolore per la morte di Beatrice », ma è certo che questi componimenti, collocati in questi capitoli della

Non ho bisogno di ripetere le ragioni perché io respingo questo sonetto dal Canzoniere dantesco: rimando a quanto ho detto a pagg. 73-75 dei miei Studi sul « Canzoniere » di Dante (estratto) e nei parag. I-II del mio scritto: Dante Alighieri e Giovanni Quirini, in Ateneo Veneto, luglio-agosto 1888, p. 22-39. L'Ambr. O. 63, sup., è tale codice che, per la sezione di rime dantesche, non merita molta fede; nessuna, poi, se si considera che è l'unico testo che attribuisca all'Alighieri il sonetto: Di donne io vidi.

2

* CASINI, op. cit., p. 151. Per esplicare un po' meglio la mia idea, prego il lettore a voler considerare il contenuto dei capitoli XVIII-XXVII della Vita nuova, che costituiscono la seconda parte di essa e contengono, come dicono i migliori critici di quel libro, la Lode della bellezza spirituale di Beatrice. Essi contengono la lode della bellezza spirituale nei capitoli XVIIIXXI; XXIII e XXVI-XXVII, ma il capitolo XXII contiene un breve episodio (la morte del padre di Beatrice), che sta a sé; e i capitoli XXIV-XXV contengono la rappresentazione del connubio artistico del Poeta col Cavalcanti, al quale era unito, oltre che da amicizia, anche dalla identità dei pensieri sull'arte, perfettamente contrari a quelli dei poeti che rimano stoltamente, e non saprebbero denudare le loro parole rimate sotto veste di figura o di colore retorico. Pur troppo, non abbiamo, o almeno io non lo conosco, alcuno studio sulla composizione della Vita nuova »; ma, se è lecito all'ultimo studioso delle cose dantesche esprimere una sua modesta opinione, io credo che i capitoli XXII e XXIV-XXV siano posteriori alla compilazione

Vita nuova da Dante per ragioni sue speciali, e nella distribuzione delle rime dantesche e nella assegnazione cronologica debbono essere collocate tra il 1287-1290, ma non attribuite rigorosamente a quel lasso di tempo che va dalla morte di Folco de' Portinari, 31 decembre 1289, alla morte di Beatrice, 9 giugno 1290.

IV.

La terza parte della Vita nuova (non ho bisogno di ripetere che io accetto la partizione data ad essa dal D'Ancona e dal Casini), accoglie le rime dolorose scritte per la morte di Beatrice; vanno non oltre al 1291 e sono la illustrazione dei capitoli XXVIII-XXXIV. Le rime contenute in questa sezione non sono molte : la canzone: Li occhi dolenti per pietà del cuore, scritta súbito dopo la morte di Beatrice (9 giugno 1290), o sotto la impressione della sventura; il sonetto: Venite a intender li sospiri miei, scritto per uno, lo quale, secondo li gradi de l'amistade, fu amico al Poeta immediatamente dopo lo primo, e fu tanto distretto di sanguinitade con questa gloriosa che nullo piú presso l'era; la canzone: Quantunque volte, lasso, mi rimembra, nella prima stanza della quale si lamenta questo mio caro amico e distretto a lei, nell'altra si lamenta il Poeta come servitore; e finalmente il sonetto: Era venuta nella mente mia, scritto nell'anniversario di quel giorno in cui Beatrice era fatta de li cittadini di vita eterna Vita nuova, XXXIV). Poche sono le rime dettate dal Poeta sotto l'impressione forte della sua sventura, ma le grandi passioni, quelle che più colpiscono intimamente l'animo nostro non sempre lasciano il tempo e la forza di poterle esprimere : felice chi, come il Poeta, seppe scolpirle colla maestría dell'arte, facendo sentire anche a noi tutta la potenza della sua passione, ridestando in noi una forte commozione per la sua sventura.

A toglierlo dai cupi pensamenti della donna sua, non a distoglierne dal cuore la

delle rime che si leggono nei capitoli XVIII-XXI; XXIII e XXVI-XXVII e siano stati aggiunti quando il Poeta scriveva la prosa della Vita nuova, e aveva divisato di indirizzarla al Cavalcanti. Se poi teniamo a mente che il Magl. VII, 10, 1060, già descritto dal CASINI, Sopra alcuni manoscritti di rime del secolo XIII dà al sonetto: Io mi sentii svegliar dentro lo core, al verso nono, la variante: I' vidi mona lagia e mona bice, sarebbe proprio strano supporre che questo sonetto sia stato accomodato per la circostanza della composizione della Vita nuova ? I capitoli XXVI-XXVII della Vita nuova sarebbero, per avventura, spostati? Il loro luogo non sembrerebbe fosse tra i capitoli XXI-XXII? Non si debbono riferire a un'epoca anteriore alla visione IV, cosi stupendamente descritta nel capitolo XXIII? Sono interrogativi lanciati nella speranza che i dotti dantisti li raccolgano e li onorino d'una risposta. Non conosco codici che mi diano ragione per giustificare questo spostamento, ma poi che il cav. F. RONCHETTI in un suo articolo: Di un possibile spostamento nella tessitura della « Vita nuova », lettera aperta al dott. MICHELE BARBI, in Giornale dantesco, anno II, pag. 221, ha buttata l'idea che la Vita nuova non ci sia pervenuta cosi come Dante la scrisse, vedano gli studiosi di Dante se male mi apponga, o se il mio dubbio sia un po' ragionevole.

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