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ora, e ben si spiega, li giudica « men chiari » dei due precedenti « non chiari » il De Lollis sbagliò due volte sospettò che il Bremon« rinfacciasse » la fama di avaro a Gui de Giblet, e pensò che « un re », <«<e parrebbe esser questi Tebaldo re di Navarra » movendo da Acri, » potesse « capitar da lui » (da Guido).

Sul primo sbaglio osservai:

Comincia egli dal ritenere che il Bremon rinfacci a Gui de Giblet la fama di avaro. Ma dove? Se invece lo loda di fin pregio valente! Egli fa di Gui il soggetto principale, non solo della penultima coppia di versi, ma anche dell'ultima, attribuendo all'autore questa singolarissima opinione: che Gui avrebbe dovuto cessar d'essere cupido di danaro, diventar liberale e prode, nel solo caso che il re d'Acri, o da Acri il re fosse andato a Gerusalemme, Ma come mai Gui apparirebbe già fornito di fin pregio nella penultima coppia, e nell'ultima poi dovrebbe acquistar pregio soltanto a condizione dell'andata del re? Nella penultima Gui, senza restrizione di sorta, anzi con lode, che attesta fiducia, riceve l'esortazione a custodir bene la reliquia contro i Pagani; nell'ultima dovrebbe custodir bene il dono nel caso che il re andasse a lui! Il vero è che le due coppie stanno ognuna da sé; che in questa strofe il Bremon procede per enumerazione come nelle precedenti; che l'esortazione al re di Acri, o che viene da Acri, non ha niente a che fare con l'esortazione a Gui.

Sul secondo :

A quanto pare ci troveremmo innanzi a un'inversione: se il re d'Acri vi viene avrebbe detto il Bremon, volendo dire invece se il re vi viene da Acri. Il re! E quando o come quel Tebaldo, que valia mais coms que rey secondo Sordello, si acquistò il diritto e il vanto di esser detto il re per antonomasia? Ed è permesso supporre che d'Acre non sia specificazione di ' reys, né per regola generale, né per il fatto particolare che nella stessa poesía altri sovrani son indicati in modo analogo, o allo stesso modo il reys cui es Paris, il Saudan del Cayre, il reys de Navarra? Appunto nella terza strofe Tebaldo di Champagne re di Navarra aveva già avuto il fatto suo.... Perché ricomparirebbe all'ultimo, un'altra volta? Perché il Bremon non avrebbe seguito l'esempio di Sordello e di Bertrando da La Manon, i quali ne' loro pianti nominarono una volta sola, l'uno i sovrani, l'altro le dame, a cui vollero distribuito il cuore di Blacas?

Ora che rilegge tutto il testo nel suo insieme », par « probabile » anche a lui << che soggetto di lays sia il revs d'Acre, non Gui de Guibelhet »; « vero è, però », potrebbe << ribattere ad uno ad uno.... gli argomenti », dai quali io fingo « d'esser stato indotto a quella interpretazione come all'unica possibile (il che non è); mentre, nel fatto », io l'adottai << perché la trovai adottata dallo Springer », che qui cito. Ribatta, se gli piace, ribatta. Ha avuto bisogno di rileggere tutto il testo nel suo insieme? Magra scusa; nel << libro » riferi tutta intera la strofe, né altro occorreva. Meglio ribattere i miei argomenti, ad uno ad uno, e non ricorrere a scappatoie di questa sorta. Tanto poco è esatto che io dessi quella interpretazione come. l'unica possibile, che usai la forma interrogativa. Supposto l'avessi adottata perché l'ebbe adottata lo Springer, che citai, che ci sarebbe stato di male? Avrei usato maggior accortezza e diligenza di lui, che più volte consultò lo Springer quando compilò il « libro ». Cosa strana! Io non so il tedesco me lo canta e ricanta su tutti i toni pure, m'accorgo a primo.

sguardo, in un libro tedesco, di ciò, che egli, l'intedescatissimo, non aveva «fiutato ». Ma, in verità, lo Springer poteva solo offrirmi il penultimo verso reso tedesco alla lettera << Und wenn der König von Acre dahin kommt, so lasse er die Geldgier ». La spiegazione, il commento, l' interpretazione, come si voglia dire, è cosa tutta mia, e me ne terrei, se quel reys d'Acre, che ha fatto scervellare lo Springer, il De Lollis e me, non mi paresse creatura del menante. Il mio demone », la mia « Ninfa Egeria mi sussurra (con due s s) all'orecchio: l'ultima esortazione di Pietro Bremon va a N'Anrics di Cipro, non a un rey d'Acre imaginario. Enrico di Lusignano vantava diritti sul trono di Gerusalemme, ebbe non piccola parte negli avvenimenti d'Oriente, tra il 1230 e il 1240. Sarà poi vero? Chi sa!

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Rincresce al De Lollis d'essere « ridotto a non far altro che riconfermare e diluire in maggior numero di parole » quel, che aveva già detto nel « libro ». E chi gl'impediva di versare un po' di vino nell'acqua? Di aggiungere l'argomento della mente al mal volere? Quanto piú rincresce a me d'esser costretto a chiarirgli che l'opuscolo non « vale il libro », il quale, tutto compreso, non valeva gran cosa!

Discorrendo di nuovo della Cobla de messer Sordel q'era malad e della risposta del signore, riferisce che « in tono trionfale » io «<e non par che mi sia dato assumerne altro » - io chiedo: «< si lamentava Sordello d'esser povero dopo aver avuto da Carlo cinque castelli?» Per mia notizia, in tono tutt'altro « che trionfale », volli indagare perché i versi, coi quali rispose a Sordello il signore, quando quegli si lamentava d'esser povero e malato: « Gli donai gualchiera e molino ed altra possessione », fossero ricorsi spontanei alla mente del De Lollis quando trattò della donazione, fatta dal re Carlo I a Sordello, di Palena ricca di tintoríe e di gualchiere. Il trovatore, veramente malato e povero nel 1266, ebbe Palena soltanto nel 1269; il riscontro << singolare » sfumava al confronto delle date. Che giova enumerare le rocce e le acque, l'acqua e le rocce, i mulini e le gualchiere « in quantità » di Palena? Il signore, se fu il re, narrando : « gli donai gualchiera e molino, ecc. » non poté alludere alla donazione di Palena se non dopo il 30 giugno 1269 e, pur lasciando stare la malattia, dopo quel giorno Sordello non era povero.

Il suo signore, proprio in quella sua cobbola, con una gran crollata di spalle, dopo averlo gratificato dei titoli di lunatico e nojoso, afferma che non sarebbe stato grato neppur a chi gli avesse dato una contea: e con quei cinque castelli, rappresentanti tutti insieme il valore di dugento once d'oro di rendita, siam lontani dalla contea.

Lontani, siamo, certamente; ma l'irritazione del signore, la scrollata di spalle, l'iperbolica frase

qil dones un contat, grat no li 'n sentiria,

dimostrano forse che Sordello fosse povero e avesse diritto di lamentarsene nel 1269, dopo il 30 giugno? Dugento once d'oro di rendita, sa il De Lollis a quanto corrispondono? Ci voglion 61 lira di nostra moneta in oro per eguagliar il valore di un'oncia

Cfr. Pro Sordello, p. 45.

d'oro del secolo XIII; 200 once, senz'altro, è come dire oggi 12,200 lire, piú dello stipendio di un sotto-segretario di stato. Tralascío che il valore dell'oro era cinque o sei volte maggiore. Era Sordello paubre d'aver in quell'anno, dopo quel mese? Aveva ragione di dolersi del re? Il bello vien dopo, quando, scambiate le parti, il De Lollis testimonia che « quel fol e quel molin dovettero significar poca cosa » agli occhi miei.

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Carlo per sua natura fu inclinato alla vita allegra, poetò in francese, anche qualche anno dopo il 1269 ebbe in corte giullari francesi; dunque.... Dunque poetò in provenzale ? Il De Lollis ha sentito la debolezza del ragionamento e recato, a rinsaldarlo, una frase dello Chabaneau: « Pourquoi n'aurait-il pas, une fois ou deux, par hasard, composé en provençal ? » Andiamo, via: l'erudito francese si fece questa domanda a proposito di una cobla certamente composta da Raimondo Berlinghieri, non da Carlo d'Angiò. Che cosa « piuttosto direbbe in suo favore il fatto che i versi francesi attribuiti da un italiano del secolo XIV a messer Sordel pro Karl si leggono in un dei codici laurenziani immediatamente dopo le cobbole di cui qui si discorre »? Essi, << non indirizzati ad alcun determinato personaggio », biasimano un avaro ; se nell'avaro dobbiamo ravvisar Carlo, il fatto che Sordello, invece della lingua provenzale, usò la francese, significa che Carlo non sapeva il provenzale e, se si fosse degnato di rispondere, si sarebbe servito della lingua nativa. Il De Lollis nega qualsiasi valore all'antica biografia, la quale avvertivo << trasse da questa strofe la prova della buona accoglienza, degli onori e de' doni, che in Provenza Sordello ebbe dal conte Raimondo Berlinghieri e dalla contessa, non da Carlo d'Angiò ». Giova non fidarvisi ciecamente; ma che addirittura « nulla di nulla significhino quei tratti delle biografie provenzali in genere i quali sono ricavati dalle poesíe stesse dei biografati », mi par troppo. Comunque sia, non mise egli nel libro: Sordello « da Treviso << da Treviso andò in Provenza, secondo che s'accordano ad attestare le due biografie provenzali? » E, quando Sordello andò in Provenza, chi era il conte di Provenza? E che il biografo fosse « bene informato >> non fu affermazione sua? Con gli esempi di B. d'Alamano e di Blacas egli risponde a un mio << argomento secondario: » anche avendo passato il limitare della vecchiezza il trovatore poté lasciarsi sfuggire la frase « ...es mal... e d'amor e d'amia »; non però, se permette, « in un momento di querulo buon umore », chi ricordi che la cobbola fu composta durante una malattía, in un impeto di dispetto e, come lascia supporre la risposta del signore, di angustie; non « sul limitare della vecchiezza », se, a parer suo s'è risoluto, finalmente, a proporre una data Sordello nacque « circa il 1200 ». Nega che io avessi esaminato meglio, per valutarlo convenientemente, il breve di Clemente IV: io non dissi, povero me!, cosa, che non fosse già, implicitamente, stata detta da lui. Ecco: per lui, « Clemente V poté...... e dové, anzi, prima di diventar pontefice, conoscer per fama, se non di persona, Sordello, tipo comune di uomo nel suo insieme di cavaliere e trovatore, e invecchiato alla corte di Provenza; e poté benissimo, da pontefice, in grazia del ricordo che per tal via ne serbava, far menzione di lui in un breve, ecc. »; dal più attento esame del breve io trassi « che nell'opinione comune il trovatore era collocato molto alto », che il papa « di lui aveva concepito altissima stima. » È la stessa cosa?

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Non è esatto che nella quantità » d'ipotesi da me espresse, l'ultima ed«< anche la piú probabile » fu che « Sordello venisse in Italia già dal marzo 1265, con Barral del Baus » delle mie ipotesi, che si riducono a due, la seconda ed ultima fu che Sordello accompagnò Carlo a Roma e, molto probabilmente, combatté per lui a Benevento ». Additai uno sbaglio di stampa e un errore di data: «Ezzelino morí di fame, non di ferro, nel settembre, non nell'ottobre 1259 », in nota a piè di pagina e non << burbanzosamente»: se egli avesse citato quello <<< dei soliti diligenti studj del Cipolla », dal quale « aveva rilevato che Ezzelino morí di ferro il 1° ottobre 1259 », forse l'avrei consultato anch' io. Ma veramente Ezzelino morí il 27 settembre, non il 1° ottobre, e di morte procuratasi da sé, dopo 11 giorni di prigionía, dopo avere ricusato medicine e cibi: l'ha tolto fuori di dubbio il bravo Mitis, confutando molto bene il Gitterman ed il Cipolla.' Non è esatto che io avessi voluto combattere un'opinione del Rajna con « indagini psicologiche », e nemmeno che da esse indagini mi fosse risultato « egualmente e contemporaneamente possibile che l'un dei sirventesi » di L. Cigala « fosse un atto politico che avesse dovuto servire....a temperare nell'animo di Carlo il malcontento che i rifiuti cortesi, ma fermi della Repubblica (genovese) alle offerte di lui vi avrebbero suscitato, oppure un componimento che non usciva dall'angusta cerchia delle esercitazioni didattiche, delle esortazioni morali, non infrequenti nella lirica occitanica ». Tutt'altro. Al Rajna « parve cosa ben difficile e non punto d'accordo colla politica seguíta allora da Genova » che << dalla bocca di Lanfranco Carlo fosse chiamato re prima della vittoria contro di Manfredi »; io mi permisi di osservare :

Qui s'apre campo indefinito a indagini psicologiche, per le quali ci mancano affatto i dati positivi. Era a Genova Lanfranco? Sapeva egli che la repubblica s'era risoluta a seguire gli avvenimenti da spettatrice neutrale? Approvava in tutto e per tutto questa condotta? Chi o che cosa l'obbligava, ecc.? E se il serventese fosse un atto politico?, ecc. Insomma, ignoriamo.... che cosa pensase realmente e sentisse Lanfranco, ecc.

A questo modo io mi servii delle << indagini psicologiche! » A questo modo presi « l'un dei sirventesi» per un atto politico! Alla storia, sí, ricorsi, per dimostrare che Carlo, in Francia e in Italia, fu chiamato re parecchi mesi prima della sconfitta e della morte di Manfredi; ma quando ebbi finito di discutere << l' ipotesi, piaciuta al Rajna, che il serventese di Lanfranco contenesse un programma politico e militare, o un programma siffatto esaminasse e giudicasse », mi permisi di << dire intero il pensier mio », che, cioè, il serventese non fosse un atto politico. Qual nome dare a questo « sistema di critica? » Primo canone, condizione fondamentale di critica, di tutt'i sistemi di critica, dev'essere: 'non dire falsa testimonianza, non impugnare la verità manifesta, tal e quale insegnava il buon arciprete di Casalincontrada trent'anni sono.

Op. cit., pp. 253 e segg.

XVII.

Finisce, dunque, come aveva cominciato e proseguito, in grossolana alterazione del mio pensiero, chiaramente espresso e raccomandato alla stampa, questo articolo annunziatosi rivendicazione della dottrina soda specie in materia provenzale del vero metodo critico, e chi piú n' ha più ne metta. Spiegare al De Lollis che cosa intendessi quando toccai di materialismo di criteri e affermai com'era, ed è, e sarà per molto tempo necessario affermare in faccia agli eruditucoli miopi presuntuosetti, che da un pezzo ci molestano peggio delle zanzare: << anche delle opinioni, anche dei sentimenti,

anche della leggenda deve tener conto il metodo storico, se vuol arrivare a intendere, oltre che la Storia, la Poesia, l'Arte »; spiegargli che le opinioni, i sentimenti, la leggenda sono fatti di primissimo ordine, sono spesso i veri fattori della storia, mi par tempo sprecato. Dichiari pure « d' intender la storia nel suo significato piú semplice di narrazione di fatti veri », al termine di una lunga, continua, manifesta sofisticazione di fatti.

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Né mi gioverebbe spiegargli come e perché io tuttora conservi il diritto di non credere unicamente suggerita, né direttamente derivata dal pianto in morte di Blacas << l'apoteosi di Sordello » nella Divina Commedia. Ne discuterò quando mi garbi, con quelli, da cui tolse egli questa opinione, che audacemente spacciò per sua. Correggerò soltanto longae finis chartaeque viaequest — la, come dire? ultima espazada: che io, non bene accolto nel campo della critica storica, mi sono ritratto nel campo della critica estetica. No, il campo, in cui feci le prime, non dispregevoli prove, fu quello della critica estetica: ne uscii a poco a poco, spontaneamente, per piú ragioni, delle quali oltre il difetto naturale dell' ingegno tre meritano d'essere menzionate. Prima: la critica estetica esige che chi la coltiva sia libero di concedere quanto tempo occorra alla meditazione, alla contemplazione, alla dilettazione della fantasía e del sentimento, all'analisi dell'opera d'arte, a riprodurre dentro di sé le condizioni dell'anima dell'artista nell'atto della produzione; un' indagine storica si può iniziare quando si voglia, proseguire a pezzi e a bocconi, a intervalli anche lunghi. A me << sua ventura ha ciascun dal dí che nacque >> l'uso intero e la distribuzione libera del mio tempo sono sempre mancati. Seconda: mi vinse il desiderio di dimostrare ai malevoli e agli scettici che un napoletano, un discepolo di Francesco De Sanctis era buono, sol che volesse, alle indagini pazienti e minuziose da quanto qualunque altro italiano. Terza: troppo mi piacque ricercar prima e poi svelare qual fosse il metodo e quanta la scienza di alcuni iperstorici avversari di Francesco De Sanctis. Cosí entrai volontario, << senza scudiero e senza compagnía », nella selva oscura della critica storica, e vi rimasi, non senza qualche vantaggio degli studi, se egli, il De Lollis, non mi adulava due anni fa. Vi rimasi e me ne compiacqui, forse un po' troppo a giudizio di benevoli miei; - vi tornerò per diritto di conquista ogni volta che, finito il mio lavoro quotidiano non regolato dalla legge delle otto ore, una qualche sera tra le ventidue e mezzanotte, una qualche domenica, vorrò trarre di muffa il cervello. Oh! non peccherò d'immodestia

Giornale dantesco, VII (N. s., vol. IV) quad. I-II.

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