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mali perniciosissimi, torce lo sguardo dalla somma luce della verità, e disvía, rendendo sé medesima schiava del vizio, appunto per l'esercizio del libero arbitrio !' Cosí Dante dopo aver detto che ciò che senza mezzo distilla da Dio, è immortale, libero, ed a lui somigliante, prosegue:

Di tutte queste cose s'avvantaggia
l'umana creatura e s'una manca,

di sua nobilità convien che caggia.
Solo il peccato è quel che la disfranca,

e falla dissimile al sommo bene

perché del lume suo poco s' imbianca ; *

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dove i commentatori a schiarimento del disfrancarsi dell'anima per il peccato richiamano l'evangelico: «Omnis qui facit peccatum servus est peccati ». E schiava, affralita e tòrta è la volontà umana, cui le passioni irretiscono anche per Dante; se cosí non fosse, Virgilio non aspetterebbe d'averne purificata l'anima mostrandogli la gente ría e quelli che son contenti nel fuoco, per dirgli solo sul limitare del Paradiso terrestre, al quale Dante rifatto innocente s'accosta :

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E libero soggiace l'uomo a maggior forza ed a miglior natura, poiché le azioni umane << ille ab aeterno cuncta prospiciens providentiae cernit intuitus et suis quae« que meritis praedestinata disponit πάντ' ἐφορῶν καὶ πάντ ̓ ἐπακούων ».

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Ma da questo emistichio omerico Boezio trae occasione a toccare d' un altra grave opposizione alla dottrina del libero arbitrio che taluni trovano nella prescienza divina, Per essa Dio prevede il futuro cosí come conosce il passato e il presente. Ora, dicono quelli, se prescienza significa conoscere senza errore il futuro, non è piú possibile che in futuro avvenga il contrario di ciò che Dio ha preveduto; dunque tutto ciò che è oggetto della prescienza divina avviene di necessità, e le azioni umane pertanto non sono più libere.

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Questa obiezione che induceva Cicerone a rinunciare alla prescienza di Dio per poter credere alla libertà dell'arbitrio, cosí esprimeva Boezio alla sua guida : « Ni« mium... adversari ac repugnare videtur praenoscere universa Deum et ullum esse <<< libertatis arbitrium. Nam si cuncta prospicit Deus neque falli ullo modo potest,

E. NAVILLE, Op. cit., 29, pp. 107-8.

Par., VII, 76-81.

* Io., XIII, 227; Od. XII, v. 323.

• Purg., XXVII, 140.

Cons. Phil., loc. cit.

• II., III, 277; Od., XII, v. 323..

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CICERO, De div., II, 6-7. Cfr. anche S. AUGUSTINUS de Civ. Dei V, 9.

Giornale dantesco, VII (N. s., vol. IV) quad. I-II.

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<< evenire necesse est quod providentia futurum esse praeviderit; quare si ab aeterno non facta hominum modo sed etiam consilia voluntatesque praenoscit, nulla erit << arbitrii libertas: neque enim vel factum aliud ullum, vel quaelibet existere poterit << voluntas nisi quam nescia falli providentia divina praesenserit ».'

Con buona pace del Valla, il quale con maggiore irriverenza che ragione dichiara che Boezio ad quasdam res confugit imaginarias et commentitias e sospetta ne Boetium quidem intellexisse, si modo vera sunt, quae dixit, né sa egli stesso poi dir nulla di meglio, il filosofo romano, a dimostrare che la prescienza di Dio non nega negli atti umani il libero arbitrio, desunse dall'essenza dell'eternità divina un chiaro e valido argomento che fu fatto poi proprio dalla Scolastica.

Di questa nebbia che oscura la mente degli uomini, la causa, gli dice la Filosofia, sta in ciò che il movimento dell'umano raziocinio non può elevarsi fino alla semplicità della divina prescienza, la quale se egli potesse pensare nulla piú gli resterebbe d'ambiguo.

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Premesso quindi :

1o che la prescienza non può esser se non un segno di ciò che deve avvenire, ed il segno non fa che additare ciò che avviene, ma non è mai causa efficiente di ciò che designa:

2o che come la scienza di ciò che avviene nel presente non induce in esso necessità veruna, cosí la prescienza non la può indurre in ciò che avverrà nel futuro: 3o che la conoscibilità delle cose non dipende dall'essenza oggettiva delle cose, ma piuttosto dalla potenza soggettiva del conoscente : *

Boezio fa che la Filosofia assommi il suo ragionamento cosí : Ogni essere razionale ammette che Dio è eterno, ma di quella eternità che è l'intero, simultaneo e perfetto possesso di una vita interminabile che sola conviene a Dio; non di quella per la quale comunemente s'intende la indefinita successione del tempo. Ma quest' Essere eterno che comprende e possiede simultaneamente tutta la pienezza di una vita interminabile; pel quale nulla del passato è trascorso e nulla manca dell'avvenire, dev'esser di necessità sempre signore di sé, ed avere a sé presente sé medesimo e la indefinita serie del tempo. Né convien considerare questo Iddio piú antico del mondo per quantità di tempo, ma piuttosto per proprietà della sua semplice natura.

Or poiché ogni giudizio comprende gli oggetti ad esso sottoposti secondo la na

Cons. Phil., lib. V,

2 Op. cit., p. 1001.

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pr. 3.

<< Cuius caliginis causa est quod humanae ratiocinationis motus ad divinae praescientiae simplicitatem non potest admoveri quae si ullo modo cogitari queat, nihil prorsus relinquetui ambigui » Cons. Phil., lib. V, pr. 4.

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Cons. Phil., lib. V, pr. 3.

<< Deum igitur aeternum esse cunctorum ratione degentium commune iudicium est.... Aeternitas....est interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio ». Cons. Phil., lib. V, pr. 6

tura sua propria, e a Dio è essenziale lo stato d'eternità e d'onnipresenza, anche la sua scienza, trascendendo ogni movimento del tempo, rimane nella semplicità della sua presenza, e tutti gli infiniti spazi del passato e del futuro comprende e considera col suo semplice atto intellettivo come se già essi avvenissero nel presente. Pertanto se si voglia aver riguardo alla presenza con la quale tutte le cose Iddio vede e discerne, piú rettamente che non prescienza del futuro sarebbe da stimare scienza d'un presente che mai non trascorre.

Come adunque gli uomini, con la conoscenza che ne hanno, non tolgono contingenza alle cose che avvengono nel loro presente, cosí Dio al quale tutto è presente, nulla è futuro, non rende necessarie quelle cose che nel futuro avvengono secondo il giudizio umano, ma si compiono nell'onnipresenza immutabile delle cose dinanzi al pensiero divino.

In tal guisa pertanto l' intuito divino non apporta perturbamenti al modo dell'essere delle cose, che, presenti a lui tutte, sono, rispetto alla successione del tempo future. Intera adunque mantiensi agli uomini la libertà dell'arbitrio, né inique sono le leggi che ai voleri immuni da coercizione alcuna impongono premi o punizioni.

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Questo argomentare di Boezio per bocca della Filosofia era già in sant'Agostino,' ed assunto poi dalla Scolastica, fu magistralmente sviluppato da san Tommaso.'

E lo scolastico poeta teologo e filosofo che le arcane ragioni della scienza morale seppe vestire delle armoníe e della carezza del ritmo, cosí condensava l'alta teoría in poche parole che si facea dire da Cacciaguida :

La contingenza che fuor del quaderno

della vostra materia non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto eterno.
Necessità però quindi non prende,

se non come dal viso in che si specchia
nave che per corrente giù discende. '

Anche alle quali parole potean servir di commento quelle che più tardi esprime Beatrice :

In sua eternità, di tempo fuore

fuor d'ogni altro comprender, come i piacque,

s'aperse in nuovi amor l'eterno amore.

Né prima quasi torpente si giacque ;

ché né prima né poscia procedette

lo discorrer di Dio sopra quest'acque.'

Cons. Phil., lib. V, pr. 6.

De civ. Dei lib. XI, c. 21. Cfr. anche De lib. arb., lib. III, c. 3.

* Summ., I, q. XIV, a. 13.

• Par., XVII, 37-42.

Par., XXIX, 16-21.

Ed or giovi conchiudere notando un'ultima consonanza del pensiero boeziano col dantesco. Quegli che già aveva osservato come ammettendo che la prescienza divina renda necessario il futuro, «< auferetur.... unicum illud inter homines Deumque commercium, << sperandi scilicet et deprecandi », chiude il libro e l'opera sua splendida con queste parole: << Manet etiam spectator desuper cunctorum praescius Deus, visionisque << eius praesens semper aeternitas cum nostrorum actuum futura qualitate concurrit << bonis praemia, malis supplicia dispensans. Nec frustra sunt in Deo positae spes pre<< cesque quae cum rectae sunt, inefficaces esse non possunt. Adversamini igitur vitia, << colite virtutes ad rectas spes animum sublevate, humiles preces in excelsa porrigite. << Magna vobis est, si dissimulare non vultis, necessitas indicta probitatis, cum ante << oculos agitis iudicis cuncta cernentis ».

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E Dante che nel secondo, a contare dal rostro, de' cari e lucidi lapilli che formano il ciglio all'imagine dell'aquila nel cielo sesto, vede Ezechía; il santo Re di Giuda, che ottenne per preghiera di protrarre di quindici anni la morte,' sente l'uccel di Dio esclamare di lui:

Ora conosce che il giudizio eterno

non si trasmuta, quando degno preco

fa crastino laggiú dell'odierno. '

Correggio d'Emilia.

Rocco MURARI.

ANCORA DELLA STRUTTURA MORALE DEL PARADISO

A PROPOSITO DI UNA RECENSIONE E DI UN OPUSCOLO DI F. P. LUISO

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Il prof. F. P. Luiso pubblicò in questi mesi due interessantissimi opuscoli, l'uno sulla Minerva oscura di G. Pascoli, l'altro sulla Costruzione morale e poetica del « Paradiso » dantesco.

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5 Di un libro recente sulla costruzione morale del Poema di D. Pistoia, 1898. Estratto dalla

Rivista bibliografica italiana, f. 10 e 25, giugno 1898, p. 17.

• Firenze, 1898. Estratto dalla Rassegna nazionale, fasc. 16, luglio 1898, p. 39.

Nel primo, dopo un'esatta ed ampia esposizione del contenuto della Minerva oscura,' il Luiso muove alcune osservazione all'opera stessa. Di queste non poche sono eque ed acute, altre mi sembrano poco accettabili. « Già il metodo di interpretare Dante poggiandosi su definizioni e distinzioni della scolastica, invece che sui versi del Poeta, mi sembra piú atto a dimostrare quel che noi abbiamo in mente, che non quello che era nella mente di Dante », scrive il Luiso a pagina 10 del suo opuscolo, ed egli ha ragione; non sempre però, noi ci possiamo esimere dal ricercare, là dove piú fitte le tenebre sembrano avvolgere il pensiero dantesco, un po' di luce nei volumi dei maestri dell'Alighieri; tali senza alcun dubbio furono e san Tommaso, e sant'Agostino, e Virgilio, gli autori più spesso citati dal Pascoli. Il Luiso stesso a spiegare la sua costruzione morale del Paradiso dovette rifarsi all'Introductorium in Astronomiam di Albumasar.

Non è soltanto nella Minerva oscura la distinzione dei peccatori di lussuria, fra i rotti ad ogni vizio ed i vinti da un desío, distinzione che il Luiso rifiutò (pagina 10). Anche il Blanc presuppone che Dante separi le anime nobili portate sí dalla passione d'amore, ma non corrotte del tutto, da quelle che peccarono per brutale sensualità, e lo Scartazzini ed altri molti gli danno ragione: il Pascoli osservando poi che per gli altri non v' è mai speranza

non che di posa, ma di minor pena,

e che i due della schiera di Dido hanno un momento di tregua,

mentre che il vento come fa si tace,

ha recato un valido argomento a sostegno della opinione su accennata, né possiam veder qui un esempio di quell' « esorbitare in sottigliezze »>, << esorbitare in sottigliezze », che l'egregio critico. trova nella Minerva.

Né è solo il Pascoli a credere «< che la Divina Commedia, quasi opera di Dio, debba essere di una perfetta simmetría e rispondere nel significato letterale e simbolico, con tutte le sue parti, a uno schema unico ben definito ». Pur ammettendo che elementi diversi e talvolta contradicentisi determinarono il pensiero e l'opera dan

Vedi mia recensione in Giorn. dant., VI, 7. Una riprova di quanto il PASCOLI afferma a proposito della frode e della superbia noi possiamo scorgere in una postilla del LANDINO (cfr. Scherillo M. Alcuni capitoli, Torino, 1866, p. 445), in alcuni episodi dello Specchio di vera penitenza del Passavanti (Ed. Milano 1808, vol. I, c. VI e vol. II, p. 64). La rispondenza fra la divisione dei peccati e il De officiis era già stata notata da E. MOORE, in Dante's obligations to the De officiis in regard to the division and order of sins in the inferno in Twelfth annual report of the Dante Society, 1893. May, 16. A proposito delle affermazioni pascoliane sulla, Medusa, vedi F. CIPOLLA, Atti del r. Istit. veneto, S. VII, t. V, d. I, p. 32 e R. FORNACIARI in Bull. d. Soc. dant. N. S. I., p. 132. Pongo qui codesti raffronti che, per ragioni tipografiche, non trovaron luogo nella mia recensione alla Minerva oscura.

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