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coscienza di Dante la responsabilità della creazione di codesto staterello anarchico, o infernal Repubblica di San Marino, fra i tre regni oltramondani legittimamente costituiti. Oltrechè già nella leggenda di San Brandano gli angeli neutrali son relegati, in una specie di domicilio coatto, sur un' isola remota dell'Oceano, dove non soffrono altra pena se non la privazione della vista di Dio; nell'Apocalisse, che Dante ha con molto profitto tenuta presente e nel disegno generale e nei particolari della Commedia, il Cristo manda a dire a quei di Laodicea: «Io conosco le tue opere: tu non sei nè freddo nè fervente. Oh fossi tu pur freddo o fervente! Così, giacchè sei tiepido e non freddo nè fervente, io ti vomiterò fuor della mia bocca » (III, 15-6). Or chi non raffigura in codesti tiepidi maledetti da Cristo gl'ignavi maledetti da Dante? E forse fu quell'utinam frigidus esses aut calidus che « ispirò a Dante », com' ebbe già a supporre il compianto Gaetano Bernardi, « di fare un luogo a parte, e non propriamente nell'inferno, a questi sciagurati, e di attribuire ad essi il rodimento dell'invidia che li strazia » 2.

Il Bernardi vuol vedere anche nell'evomere ex ore meo la ragione della frase dantesca « cacciârli i ciel »; e il riscontro è senza dubbio giusto, salvo non si dimentichi che i tiepidi dell'Apocalisse, cacciati dal cielo, precipitano a buon conto nell'inferno, mentre gl'ignavi di Dante non vi sono ammessi 3. In un altro passo di quel libro profetico (XXI, 8), è

1 Il riscontro fu già notato da altri. Cfr. GRAF, Miti, leggende e superstizioni, II, 82 ss.

2 Giorn. di filol. romanza, v. II, p. 169 n.

3 Si è lungamente disputato sull'alcuna del famoso verso (Inf. III, 42): Chè alcuna gloria i rei avrebber d'elli». Significa qualche, come tutti gl'interpreti spiegarono (cfr. BLANC, Saggio, p. 38 ss.; Vocab. Dant., v. Alcuno); o niuna, come pretese il MONTI (Proposta, appendice, p. 271)? Considerazioni d'ogni genere persuadono che il Monti ebbe torto a staccarsi dalla opinione comune. Nel Giornale Dantesco (a. II, quad. 4),

GLI ACCIDIOSI

407 detto: « ai timidi, agl'increduli, ...agli omicidi, ai fornicatori, ai maliosi ed agl'idolatri e a tutti i mendaci, la parte loro sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la morte seconda >>. I timidi non posson essere che gl'ignavi, ed è loro, come si vede, minacciata la morte seconda, cioè l'eterna dannazione (cfr. Inf. I, 117); ¡Dante invece dà come massimo supplizio ai suoi sciaurati il non avere « speranza di morte >> cioè di dannazione (III, 46), anzi l'invidiare la sorte di ogni altra maniera di dannati!

III.

Dante cattolico non avrebbe potuto disconoscere il diritto che hanno invece gli accidiosi, rei d'uno dei sette peccati legalmente riconosciuti, di godere -se godimento è della morte seconda; e sarebbe un disconoscerlo, così il non punirli, come il confonderli con gli sciaurati che << lo profondo abisso non riceve ». Bisogna cercarli dunque proprio nel profondo abisso.

Che nella palude stigia siano due maniere di peccatori, risulta chiaramente dalle parole stesse di Dante. Quelle che si vedono, son « le anime di color cui vinse l'ira » (Inf. VII, 115 ss.); quelle che non si vedono, ma che, sospirando nel fondo,« fanno pullular quell'acqua al summo » (VII, 118 ss.), son le anime dei rei di tristizia, i quali nella vita portarono dentro accidioso fummo, ed ora s'attristano in quella fan

A. TENNERONI ha pubblicato due brani di lettere inedite del Monti in difesa della sua interpretazione. Contro la quale scrisse anche il DI CESARE (Note a Dante, ripubblicate negli Opuscoli Danteschi, Città di Castello 1894). Recentemente F. CIPOLLA (negli Atti della R. Accad. delle Scienze di Torino, v. XXIX, 1894) ha sostenuto che l'alcuna valga una, una tal data gloria; ma lo contradisse R. FORNACIARI, nel Bull. Soc. Dant., n. s., I, 150-2.

ghiglia, senza poter neanche formare interi i lamenti. Son gli accidiosi dunque! E così ha ritenuto, come abbiam visto, la più parte degli interpreti, rimasti saldi nella vecchia e giusta opinione in grazia specialmente di quel fummo accidioso '. Qualcuno ha anche messa in campo come di san Tommaso una definizione dell'accidia che, certo, avrebbe un mirabile rapporto coi versi di Dante: vaporationes tristes et melancholicae; devo però confessare di non esser riuscito a ripescarla nella Somma2.

Per quanto sia pur cosa nuova nell'Inferno dantesco che in uno stesso cerchio sien puniti i rei di due differenti peccati mortali, chi ben osservi e parecchi degl'interpreti l'hanno infatti osservato l'ira e l'accidia, piuttosto che due vizi diversi, potevano a Dante sembrare i vizi opposti della stessa virtù. «Ciascuna virtù », egli insegna nel Convivio (IV, 17),

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1 Graziosa è la chiosa del TALICE: Autor fingit accidiosos puniri sub pantano et aqua Et sciendum quod isti fuerunt prelati. Et dicit: ipsi non possunt dicere integre, sed murmurando dicunt, sicut patet de presbiteris dicentibus officium suum ».

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2 Cfr. intanto Summa, I, 11, qu. 46, a. 1 e 2: « Ira includit multas passiones: est enim cum tristitia et cum spe et cum delectatione Ira causatur ex tristitia; unde Philosophus dicit in VII Ethic. quod ira operatur cum tristitia». Non è mancato chi nello Stige non ha collocato che un peccato solo, l'accidia. Il sig. ROCHUS VON LILIENCRON (Die Insassen des vierten Dante'schen Sunderkreises, nella Zeitschr. f. Vergleich. Litteraturgesch. und Renaiss.-Litter., n. s., vol. III, p. 24 ss.) ha preso le mosse dal luogo di san Tommaso, testè riassunto. Quando, questi dice, tristitia sit de spirituali bono divino, vitium capitale necessario est, cuius filiae sunt malitia, rancor, pusillanimitas, desperatio, torpor circa praecepta, ac mentis evagatio. Perciò, color cui vinse l'ira rappresentano nello Stige il rancor e l'evagatio mentis; i tristi, il torpor, la pusillanimitas e la desperatio. L'Argenti, conclude il Liliencron, non è iracondo ma furioso, spirito bizzarro, affetto cioè dalla evagatio mentis. Cfr. Bull. Soc. Dant., a. s., II-III, p. 60.

3 L'ANONIMO FIORENTINO: L'auttore pone ancora esser puniti in questo cerchio l'ira et l'accidia, che sono due vizi obpositi, il cui mezzo è la virtù della temperanzie ». Nel Purgatorio Dante ancora mette insieme prodighi ed avari (XXII, 49–51), ma sèpara i superbi dagl'invidi, e gl'irosi dagli accidiosi. Si ricordi che qui egli volle seguire una distribuzione topografica più nettamente cattolica.

LA MANSUETUDINE

409 << ha due nemici collaterali cioè vizi, uno in troppo e un altro in poco »; e come la fortezza « è arme e freno a moderare l'audacia e la timidità nostra nelle cose che sono corruzione della nostra vita», come la liberalità « è moderatrice del nostro dare e del nostro ricevere le cose temporali », così la mansuetudine « modera la nostra ir a e la nostra tropp a pazienza contra li nostri mali esteriori ». Dante, com'è risaputo, non fa qui che seguire Aristotile. Anche il suo Brunetto, esponendo l'Etica dell'antico saggio, aveva insegnato (Tresors, p. 289): « En ire a mi et extremitez; et li hom qui tient le mi est apelez mansuetes, et cil qui se desmesure est apelez iracondes, et cil que se corrouce mains qu'il ne doit est apelez neant correcous. Mais cil est veraiement mansuetes qui a ire de ce qu'il doit, et en cele quantité, et en cel leu, et en cele maniere qui est convenable. Et iracondes est cil qui en ces choses se desmesure et tost court en ire, mais plusors foiz retorne tost et legierement, et ce est la mieudre chose qui en lui soit; car se tuit li vice s'ajostassent en I home, il ne porroit estre sostenuz. Li hom qui ne se corrouce est cil qui n'a point d'ire là où il devroit, ne es choses, ne en la saison que il se devroit correcier; et tiex hom ne fait à loer ne à prisier, porce que sofrir outrage ne vilenie qui soit mauvaisement faite à lui ou à ses amis, c'est chose deshonorable; et tiex homes sont aucune fois prisiés qui ne font grans menaces aussi comme l'iracundes, que l'on cuide maintes foiz que il soit preus et hardiz » 1.

Certo, l'accidia non è la cosa stessa che l'inirascibilità o la troppa pazienza; ma questo è un di quei casi in cui il poeta cattolico ha avuto bisogno di accomodar le dottrine aristoteliche alle esigenze della nuova morale, di tentare un accordo tra le speculazioni del Filosofo pagano e quelle dei Padri. 1 V. indietro, p. 95 ss.

Quand'egli scriveva il Convivio e Brunetto il Tesoro, potevan bene non curarsi d'una siffatta conciliazione e seguir francamente Aristotile; ma quando l'uno attese alla Commedia e l'altro al Tesoretto, il soggetto stesso essenzialmente religioso li obbligò a sottomettere la filosofia pagana alla cattolica, ed a ribattezzare, dove fosse possibile, quelle vecchie dottrine umane colle acque sgorganti dalla rivelazione divina. Non già che facessero cosa intentata; chè san Tommaso in persona aveva accettata da Aristotile, come tante altre, anche la teoria dei due opposti vizi che insidiano la stessa virtù. Così quel vizio, che nei loro libri scientifici Brunetto e Dante chiamarono, seguendo il Filosofo, inirascibilità o torpore, nei poemi indicarono col nome cattolico di accidia; e ad essa naturalmente riferirono tutto ciò che nell'Etica nicomachea trovavan detto dell'un dei vizi che si oppongono alla virtù della mansuetudine.

A metter su una tale via l'autore della Commedia è da presumere sia stato in parte l'autor del Tesoretto. Il quale, nella dichiarazione dei sette peccati, insegna dell'accidia (v. 2679 ss.):

In ira nasce e posa

Accidia nighittosa;

Chè chi non puote in fretta

Fornir la sua vendetta,

Nè difender cui vole,
L'odio fa come suole,

Che sempre monta e cresce,
Nè di mente non li esce;
Ed è 'n tanto tormento,
Che non ha pensamento
Di neun ben che ssia.
Ma tanto si disvia,
Che non sa melliorare,
Nè già ben cominciare;
Ma croio e nighittoso
È ver Dio glorioso.

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