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»> una magnifica edizione di Dante ha sposato nelle sue esposizioni, anzi riportata tutta di netto la mia, come cosa che non si può più mettere >> in dubbio

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« Milano, 15 febbraio 1817.

Egli è adunque chiaro che sul noto passo di Dante e su l'interpre» tazione del Serravalle il nostro Giulio ha preso un abbaglio, poichè la >> cosa giace tutta al contrario. E a me torna meglio: chè così non avrò >> a dividere con altri il merito di quella dichiarazione, la quale per sicura » ed irrepugnabile è già stata accettata nel nuovo ccmmento del Biagioli, >> com' egli stesso mi scrive e il sarà da chiunque abbia ragione. Vi rendo >> intanto molte grazie della diligenza che avete posta nel compiacermi e >> sono con voi nel farmi le meraviglie del silenzio che in cotesta nuova » edizione di Dante si è tenuto intorno al commento Serravalliano. Ma de » his hactenus.

La nuova edizione di cui parla il Monti è quella del De Romanis stampata a Roma sul testo nidobeatino nel 1816. L'editore ebbe torto adunque, secondo questi due illustri personaggi, a non entusiasmarsi o giovarsi punto dell' ingente lavoro del francescano Giovanni Bertoldi da Serravalle vescovo di Fermo, notificato del resto dal Garampi sin dal 1755. Consiste esso, giovi qui ricordarlo, in un comentum, derivato in gran parte dalla massima fonte imolese, e in una traslatio, verso per verso, della divina Comedia fatti in un latino, siccome egli stesso ebbe ad avvertire, del tutto inetto e rusticano. Del che però molto lo scusano, se bene a quel tempo già fiorissero gli studj umanistici, il brevissimo spazio di tempo e il luogo in cui ebbe a comporlo, cioè undici mesi, dal 1 febbraio 1416 al 16 gennaio 1417, tra una sessione e l'altra di quel tempestoso concilio di Costanza, che depose tre papi disputantisi il temporale e osò, senza troppo pensarvi, dannare al fuoco gli eretici sterpi, Giovanni Huss e Girolamo da Praga. Il lavoro del Serravalle venne alla luce con tutti gli onori a Prato coi tipi del Giachetti nel 1891: e poichè questo nostro Giornale non ne ha ancora parlato, crediamo utile qui aggiungere intanto che la grave e lunga fatica della cura del testo fu sostenuta dai noti francescani p. Marcellino da Civezza e p. Teofilo Domenichelli, e la spesa da papa Leone XIII. Si piacque anche in ciò secondare il desiderio del nepote Ludovico Pecci; tanto che l'edizione fu subito chiamata il Dante del papa, ad imitazione

dell' altra detta il Dante del re, contenente le annotazioni del piemontese Fr. Talice, dedotte similmente dallo stesso Benvenuto, e voluta quella con alto senso italiano dedicare da Umberto I a suo figlio qui in Roma. Accettando l'odierno avviamento critico degli studi sugli antichi testi delle opere di Dante, l'importanza principale del lavoro Serravalliano per noi riducesi a questo con esso s' inizia realmente e solennemente la storia del culto di Dante in Germania, la cui origine così ne acquista maggior valore ed antichità, precedendo esso di circa 76 anni quella stampa lipsiense (1493) delle chiose di. Bartolo da Sassoferrato ad una canzone dell' Alighieri, documento col quale lo Scartazzini dà principio al suo noto lavoro.

Ma appunto perchè così da noi considerati il commento e la traduzione del francescano, vescovo e principe di Fermo, assumono un carattere storico solenne, avremmo desiderato vederli ricollegati non ad un codice, cui trascrisse fr. Bernardo da Colle nel 1478, ossia circa 64 anni dopo la loro composizione, bensì ad uno o più testi antichi non da essi discordi e avuti probabilmente dinanzi e studiati dal traduttore. E tutto ciò non poteva offrire serie difficoltà agli egregi editori, se avesser voluto o pensato stabilir dei raffronti coi codici danteschi di santa Croce, oggi Laurenziani, dove si sa che il Serravalle fu reggente degli studj nel 1395 e rimase quattro

anni.

Avremmo del pari desiderato che i lettori del grosso volume, fornito d'un ampia prefazione, di prolegomeni, di riposi, e di varii documenti, non fossero poi stati privati della conoscenza di un'importante dedica necessaria al retto giudizio sulla mente e i fini dell'autore. Egli dedicò la Comedia, chiamandola: liber poeticus trium Comoediarum a Sigismondo re dei romani, presidente del concilio, con parole e frasi le quali inducono a creder lui un seguace caldo e convinto della dottrina politica trattata nel de Monarchia, a meno che non si dica essergli state consigliate da un sentimento di adulazione; il che non si avrebbero poi indizi o ragioni d'altronde a supporre.

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« Vestre clementissime et Cesaree majestati omnis sit virtus et omne imperium, omnisque salus, honor et gloria per cuncta vasti orbis spatia, » uti est bene congruum atque decens. »

Cotesta dedica asserente il primato universale di Cesare e la conseguente implicita soggezione della chiesa romana sembra non abbia garbato punto sì allo scrittore del codice Capponiano - vaticano, dond'è tratta la edizione, che a quello del British Museum, notificato nel 1886 dall' insigne dantista Edward Moore. È dato leggerla soltanto nel codice serravalliano che si conserva alla biblioteca del liceo di Eger in Ungheria.

Anima del cardinal del Poggetto (truce nella memoria) tu l'avresti in un batter d' occhio dannata alle fiamme: ma non meno da queste, anzi per queste avrebbe maggior nome acquistato il commento dantesco, oggi messo in luce dal papa, che pur piange il temporal perduto e per sempre.

Roma, maggio 1894.

ANNIBALE TENNERONI.

CHIOSE DANTESCHE

"AL DOLCE SUONO,,.

Purg., IX, 141.

Poco fà ebbi l'occasione di fare nel vetusto battistero presso san Giovanni in Laterano una osservazione, dalla quale mi pare si possa trar profitto per spiegar meglio, di quanto non sia stato fatto finora, un luogo controverso del Purgatorio.

Si sa, che attiguo al battistero si trova l' oratorio di san Giovanni battista, chiuso con una porta di bronzo, la quale una iscrizione dice offerta da Ilario vescovo. Secondo la tradizione peraltro, essa sarebbe stata tolta dalle terme di Caracalla, e il pregio del lavoro, contrastante notevolmente col gran declino, che aveva invaso ogni arte nei tempi del papa Ilario (V secolo), è ben tale da dare appoggio a questa tradizione. Ciascuno dei due battenti è fatto d' una sola solida lastra di bronzo con semplice ornamento di specchi e scaglie le piccole croci d' argento di assai cattiva fattura, delle quali la porta è incrostata, nonchè l'iscrizione suddetta saranno di quell'epoca in cui la porta fu trasportata nel luogo sacro ove è ora), e l'artista, il quale ha composto e lavorato il bronzo, deve essere stato pratico del suo mestiere al pari del migliore fonditore di campane. Il custode, che mi mostrava il battistero, fece girare sui cardini i battenti pesanti, lentamente, l'uno dopo l'altro. Alla prima spinta striderono fragorosamente; ma quando i battenti erano in movimento e il bronzo in vibrazione, suonavano soave e sonoramente come un organo e avevano l'ottava chiaramente accordata. E quando il custode li fece girare vicendevolmente,

ogni volta soltanto per una particella del giro, ora un battente, ora l'altro, sì che la risonanza bassa della prima lama di bronzo si mescolava al suono limpido e puro dell' altra, ci fu una armonìa di un effetto fantasticamente solenne.

Questa impressione destava nella mia mente il ricordo di quel passo dove Dante descrive come l'angelo portinajo apre la porta del purgatorio: E quando fur ne' cardini distorti gli spigoli di quella regge sacra, che di metallo son sonanti e forti, non rugghiò sì, nè si mostrò sì acra Tarpeia, come tolto le fu il buono Metello, per che poi rimase macra. Io mi rivolsi attento al primo tuono, e Te Deum laudamus mi parea udir in voce mista al dolce suono. Tale imagine appunto mi rendea ciò ch'io udiva, qual prender si suole, quando a cantar con organi si stea: che or si or no s' intendon le parole.

Purg., IX, 133-145.

In questo passo come fosse da intendere quel « dolce suono »> era difficilissimo finora a precisare, perchè non si prestava altra interpretazione, soddisfacente e non artificiosa, se non quella, che il suono proveniva dal girare della porta; alla quale interpretazione accennano anche le parole del v. 135 «che di metallo son sonanti e forti » e quelle del v. 4 del canto seguente «sonando la sentii esser richiusa ». Ma a questa spiegazione pareva si potesse ben a ragione opporre, che una porta, la quale rugghiava, non era istrumento molto adatto a produrre un dolce snono. «In verità, bella musica questa, esclama lo Scartazzini, un canto con accompagna

mento dello stridore d' un uscio!» E anche a me l'obbiezione mi era sembrata stringente. Ma ora credo che il fatto più sopra esposto tolga tutte le difficoltà nel modo più semplice. Cioè: Dante descrive effettivamente, come lo stridore primitivo (il « primo tuono », v. 139) dei battenti di bronzo si cambi in un dolce suono da organo. Quale fosse il senso allegorico di questo cambiamento (l' amaritudine al cominciare della penitenza e il sentimento di beatitudine dopo la remissione dei peccati), fu già ben dimostrato da altri. Ma che l'immortale poema, « polisenso», anche qui nel senso più strettamente letterale dipinga al vero, ce lo prova la porta di bronzo nel battistero di san Giovanni in Laterano.

Heidelberg, maggio 1894.

ALFRED BASSERMANN.

VARIETÀ

DANTE MATTO?!
МАТТО?!

Ottimo Passerini,

Vuol ch'io Le dica quel che penso dell'articolo Dante e la psichiatria, pubblicato dal discepolo del Lombroso, signor B. Chiara, e dedicato al suo maestro su la Gazzetta letteraria di Torino, no. 15 del 1894? Io non sono uno specialista della materia; però dirò franca la mia opinione, qualunque essa sia.

Anzitutto dirò che le note, fatte dal Chiara, sono vere, giuste, esatte; nè si possono op. pugnare o contraddire, perchè risultano dalle opere di Dante, in prosa ed in rime, studiate con diligenza e messe a riscontro tra loro; ma non accetto, del pari, le conseguenze, perchè un po' stiracchiate ed eccentriche. Ed invero: se Dante, con tanta squisitezza di sentire, con tanta energia di carattere, con tanta elevatezza d'ingegno, con tanta vastità di dottrina, con tanta ricchezza di fantasia, con tanta esuberanza di forze intellettive e morali, si fosse improvvidamente chiuso in sè, povero ed esule, fremebondo e triste, sconsolato e solo, avrebbe davvero finito col dar di volta al cervello e correre defilato al manicomio. Ma egli, che pur era trasmutabile per tutte guise » (Parad., V, 99), aveva l'ingegno talmente equilibrato, che di sè medesimo cantava: «Non mi lascia più gir lo fren dell' arte» (Purg., XXXIII, 141). La fantasia, che in arte è sovrana, in lui dunque (siccome il Monti ben si espresse) era ranneggiata e questo impero su le proprie facoltà non possono esercitare, se non quelli che hanno gl'intelletti sani» (Inf., IX, 61).

« ti

Sbarrate tutte le vie, tranne quella dell'esilio, Dante, come sorvolando su tante umane miserie, si rifugiò nel mondo dell'arte, e qui tutta trasfuse la sua grande anima di filosofo e di poeta, di credente e di cittadino, di artista incomparabile e di banditore di rettitudine a tutto un mondo tralignato e guasto. Avrà, qualche volta, trasceso nel suo magnanimo disdegno? Ma l'ira stessa in lui (come il Mazzini ha splendidamente dimostrato) è figlia dell'amore: irascimini et nolite peccare (la gran sentenza di Davide); se no, Cristo medesimo sarebbe stato un mattoide, quando si armò la destra di flagelli e discacciò i profanatori dal tempio. Contro la nera infamia, che a suo danno si era consumata, Dante sentiva imperioso ed irrefrenato il bisogno di reagire, di sfogarsi, di espandersi. « Oh! come allora si abbassarono i campanili di Fiorenza!» (scrive, di santa ragione, il Carducci); e il poeta faceva come il vento «Che le più alte cime più percuote: E ciò non fia d'onor poco argomento » (Parad, XVII, 134-135). Per tal modo, il perseguitato si metteva al di sopra de' suoi persecutori, e li condannava dall'alto alla esecrazione de' posteri: se fu condanna, fu morale; e, se fu vendetta, fu di artista sovrano: ultio Domini, ultio templi sui. E, quindi, (ecco quel che ne voglio de

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