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suoi biasimi, l'odio e l'amore, la vendetta e la giustizia sua, che mostransi, invece, nella solenne parvenza del viaggio fatale, come alti decreti del divino giudizio » (p. 71-72).

Questa dunque l'umana allegoria della Commedia; allegoria ch'io non so punto accettare, ed è inutile dirne il perché. Bisognerebbe un libro per mostrare la verità di quello che invece penso io sull'argomento; e disgraziatamente su esso si è scritto anche troppo. Ma una domanda mi sia onestamente concessa; se con il Convito Dante aveva sperato di ristorare i suoi mali, come allora fu esso cominciato a Firenze, prima che essi avessero principio? Bisognerebbe piuttosto accettare la sentenza del Del Lungo e ammetterne la compilazione dopo l'esilio. E per converso se il poeta sperava (il colle) di riparare con gli studi filosofici (il Convito) a' suoi mali, come poteva allora riportare l'azione della Commedia al '300, ed essere oramai rovinato da ogni sua speranza (il gran diserto,) se il Convito allora era appena e forse non ancora incominciato? Perché, secondo la teoria del Leynardi, il poeta, prima di cadere, ha sperato, e se il Convito è il mezzo di queste speranze, deve per forza essere scritto prima della rovina fatale. Ma la rovina avviene, secondo l'azione del poema, nel marzo del '300; sí che il Convito dovrebbe essere scritto prima di questo tempo. Il che è assurdo ed è in contraddizione con quanto il Leynardi aveva detto, che il libro cioè era stato composto per vincere le inimicizie della patria e aprirsi la via ad essa.

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Ma come Dante preparò l'opera sua immensa? L'opinione dello Scartazzini al nostro autore non pare probabile: immaginare un Dante, che dopo aver fissato nella fantasia potente l'idea grandiosa, vada per anni e anni deliberatamente cercando i materiali per compirla, pare a lui, come già s'è potuto capire, contrario a' sani precetti della moderna psicologia.

Preparazione certo ci fu, e lunga, ma incosciente. Il libro di Dante è la storia de' suoi viaggi, delle sue letture, delle sue osservazioni: questa fu la lunga, dolorosa preparazione del poema. Preparazione non voluta, come voluto non fu né l'esilio, né il bando perpetuo. L'immenso cumulo di dottrina e di esperienza diede a tempo suo il frutto dovuto: le mille sensazioni dal poeta provate si fusero, s'associarono in forme nuove nel suo cervello.... e venne la Commedia. Dante ha una tendenza meravigliosa alla rappresentazione viva, evidente, pittorica; c'è in lui una sentimentalità straordinaria, cosí che il Convito stesso assume spesso forma e colorito poetico. Basta osservare le molte, ardite metafore e immagini, onde l'opera abbonda; immagini, e metafore che a me hanno porto occasione a studiare il secentismo in Dante, come il Leynardi stesso del resto desidera si faccia.

E di qui viene che in tutta l'opera sua Dante scolpisca, anzi tutto, sé stesso, di qui che campeggi per tutta la Commedia la sua potente personalità. Con lui cessa il medioevo e comincia l'etá nova: l'uomo si trasforma nell'individuo e come tale si afferma. Questa individualità, che in Omero e si capisce e in Virgilio invano si cercherebbe, è pure carattere del paganesimo, cosí, che in Dante c'è il tipo vero dell'umanista, che adora l'antico, ma non rinuncia né all'età né alla personalità sua.

Uomo nuovo sente bruciare nelle sue vene il desiderio della gloria, e sogna e spera che la nuova dea lo baci un giorno sulla fronte radiosa.

E da siffatta tempra di carattere ne viene anche un altro fatto: un'allusione vivente a fatti

e circostanze della vita sua in non poche parole o frasi o descrizioni della Commedia.

Ma ognuno anche vede quanto di soggettivo ci possa essere nel trovare siffatte allusioni: io per me, ad esempio, non veggo perchè Dante, per ragion della sua andata a Venezia, dovesse dire di Matelda, che scorrea

Sovr'esso l'acqua lieve come scola

piuttosto che come spola, non lo veggo fin che i piú de' manoscritti non mi dieno questa lezione; e sí che essa garberebbe di molto al mio amor proprio di veneto.

E non veggo troppo bene che nel virgiliano

Giornale dantesco

Chi m'ha negato le dolenti case

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ci abbia a entrare, come vorrebbe anche il DeljLungo, la personalità del poeta ; come mi paiono addirittura romanzi le interpretazioni dell' Imbriani sugli amori di Dante per la cognata e su.... come dire? le simpatie troppo vive di messer Brunetto per le bellezze del giovane suo amico e alunno. Alunno, si capisce, in un certo senso. Tutto questo al Leynardi può anche sorridere, ma sorriso per sorriso, io sorrido invece alle fantasticherie del critico napoletano e penso che non è proprio ciò che serve a dare serietà scentifica alle dottrine dell'egregio nostro psicologo.

Vero è ben dirò anch'io alla dantesca che il poeta trae le sue creazioni dal fondo verace del sentimento e della percezione, e le immagini, le similitudini, le rappresentazioni sue, nella realità loro vivente, splendidamente lo mostrano.

E come n'è ricco il poeta ! Già tutta la Commedia è per sé stessa una similitudine, un paragone dell'altro mondo con questo, così che dal tessuto generale spiccano, balzano, nella superba loro abbondanza, le similitudini, i paragoni particolari, ogni volta che o la chiarezza o l'efficacia artistica o altro ancora lo richieggano. Abbondanza, ch'é necessità organica d'arte e effetto dell'esuberante vitalità della mente dantesca, che tendeva a dar vita e moto ad ogni cosa, che le cadeva sotto. per astratta che fosse. E che differenza nel modo di prendere e di foggiar le similitudini sue, in Omero, in Virgilio, in Dante! quelli descrivono, pur in forma splendida, solo l'esteriorità della vita, questi va giú fondo e scandaglia e descrive anche la vita della coscienza. La nota umana vibra in lui potente, e se Virgilio, l'Ariosto, il Tasso, il Monti prendono spesso da altrui tanto per prendere, in Dante ogni cosa, pur imitata, passa attraverso il suo cervello, ne determina uno stato nuovo, sia fisiologico che psicologico, ne balza fuori col suggello eterno dell'originalità.

Queste, a un dipresso

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insieme con qualche mia osservazione le cose che il Leynardi discorre nella prima parte del suo studio; discorre gravemente e con sicura dottrina, se non sempre con artistica perspicuità.

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Cosí s'entra nella trattazione più particolamente psicologica della materia, trattazione minuta, particolareggiata, che si estende per ben trecento pagine fitte. Riassumerla è impossibile; bisognerebbe rifare il cammino percorso dall'autore, addentrarsi nelle analisi istesse, in che egli pazientemente si è addentrato: Conveniva adunque studiare anzitutto i poteri dell'immaginazione del poeta, vedere come egli seppe scrutarne i modi, le attitudini, gli effetti, come da questa analisi psicologica di sé stesso derivò osservazioni nuove all'arte sua, immagini plastiche, parlanti. Ma discorrendo di questi poteri dell'immaginazione dantesca, giustamente il Leynardi prevede una obbiezione, che altri gli potrebbe fare. Sta bene che la poesia di Dante sia in gran parte «la intera vita e verace di lui, tutta la mole de' suoi fantasmi, ordinati in una portentosa unità di concezione » ; ma quando non si tratti « di rappresentazioni con fondo reale », sí di tali che non possano « essere cadute sotto i sensi suoi in modo veruno >> come si fa a concederlo? L'obbiezione è speciosa anzi ché no, pur non mi pare che il Leynardi le abbia in tutto risposto. È vero che Dante dell'immaginativa sua, sciolta dal senso, dice, che la move

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lume, che nel ciel s'informa
per sé, o per voler che giù lo scorge,

Purg., XVII, 17-18.

ma la spiegazione del poeta, può far dire a noi, che «questa, è un'altra sorgente da cui Dante ha derivato la materia dell'arte sua?» (p. 204). Pare a me che questo invece bisognava mostrare: che il Paradiso poiché è del Paradiso che specialmente si tratta è una totalità, risultante di atti elementari, ognun de' quali ha un fondo reale. E questo basta per sfatare l'obbiezione: che il risultato associativo de' minimi del pensiero sia qualche cosa che non esiste fuori della psiche, non prova l'irrealità sua assoluta. Certo quando e concezione ed elementi suoi trovano piena rispondenza nella realtà vivente, è più facile al poeta atteggiare il suo pensiero in forma plastica, e l'Inferno e il Purgatorio lo provano.

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Ma ritornando al primo discorso, alla formazione compiuta della mente del poeta servirono anche, e di molto, i suoi viaggi, le sue letture; viaggi adunque e letture vogliono essere partamente studiate, in quanto almeno contribuiscono alla formazione del poema. Quante cose Dante non vide, prima di accingersi alla rappresentazione del mondo d'oltretomba; quante assidue, lunghe, meditate letture egli non fece! Ed è curioso notare e per gli studi psicologici confortante come il Leynardi arrivi spesso a' risultati, cui giunse da ultimo il dott. A. Rossi ne suoi viaggi danteschi oltr'alpe; ma il Leynardi mi pare dia troppa importanza al libretto del Brentari su Dante alpinista; egli e il Rossi, troppo fissati forse in quel loro concetto dell'obbiettivazione di Dante nell'opera sua, cadono a volte in qualche esagerazione. 1 Certo nella descrizione de' luoghi le letture non potevano dare gran vantaggio a Dante; ma e i racconti vivi, parlanti che ne avrà sentito fare da chi c'era stato? Dante, del resto, immagini, confronti, atteggiamenti di forma e di stile dedusse piuttosto dalla osservazione sua individua che dall'enciclopedia; pur questa gli giovò non poco, non foss'altro che nel guidare e nel rinfrancare l'osservazione sua. Gli giovò molto nella parte dottrinale, e quel cumulo immenso di scienza che avrebbe forse assiderato sotto il suo peso un altro meno potente di lui, a lui invece serví di base e di saldo equilibrio nelle incertezze del mare pericoloso, che primo correva.

Ma nella rappresentazione della natura, che minuto, paziente, acuto investigare! nessun'altro poeta derivò da essa tanta copia d'immagini e di colori. Ora la natura tu puoi considerare sotto due aspetti: o in sé o in rapporto al tuo sentimento; un fatto naturale insomma o può servire a chiarir un altro fenomeno esteriore, o a tradurre in un'immagine concreta, reale, un fatto della tua coscienza, del tuo sentimento. Cosí l'uomo; o tu l'osservi negli aspetti suoi fisici o in quelli della sua psiche. Un fatto esterno tu puoi rappresentare con uno esterno, uno interno con uno interno. Ma poi per que' rapporti che corrono tra il corpo e la psiche, un fenomeno di quello può bene lumeggiare uno di questa, e questa quello.

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È tutta una lunga, paziente, acuta, novissima analisi questa del Leynardi, nella quale purtroppo non m'è dato di seguirlo: solo egli mi consenta una domanda. Nella rappresentazione de' sentimenti, quanto c'è in Dante d'inconscio? D'inconscio per la naturale suggestione della lingua, che si parla, sul cervello e sulla espressione. Una quantità immensa d'espressioni di stati psichici lo scrittore trova nella lingua sua e le adopra e ne fa tesoro senza avvertirlo, per il fatto solo di sapere la lingua. Si adopera come si farebbe d'un membro del corpo per l'abitudine contratta: vero è che l'osservazione psicologica può aver servito ad aumentare il magazzino dir cosí di queste parole e frasi e modi di dire, può aver rinforzato l'abito dell'usarle. Ma qualche cosa d'inconscio rimane sempre, e chi credesse che Dante, nella composizione del suo poema, si fosse ad ogni momento domandato: perchè questo? perchè quest'altro? sbaglierebbe di grosso. Il che non toglie nulla alla grandezza psicologica del poeta; e il libro del Leynardi luminosamente lo prova. Lo proverebbe anche meglio, se piú denso, piú serrato esso fosse riuscito; se allo studio spezzettato delle singole rappresentazioni affettive, egli avesse anche aggiunto qualche volta quello d'una scena, d'un episodio nella comprensione e nella totalità sua.

Piú decisamente positivista forse di quello che il Leynardi non sia, non in tutto io ho saputo e saprei per altre parti convenire con lui: e meno congetture anche di lezione avrei voluto e migliore la forma.

E poi?... In un libro di oltre cinquecento pagine, e che, indiscutibilmente, segna un momento storico negli studi danteschi, fare degli appunti è cosa molto facile; ma un fatto resta sempre: che il libro fa onore al valoroso che l'ha scritto, all'uomo illustre al quale è dedicato.

Terranegra di Padova, 18 luglio 1894.

COSMO.

IV. nel Bullettino della Società dantesca (n. 6) le assennate osservazioni del professore V. Rossi a proposito del libro di A. Rossi.

Una tremenda disgrazia ha colpito il Direttore del Giornale. La sua bambina di soli otto anni, LUCIA, un angelo di bontà e di bellezza, il 26 di agosto in Cortona, ove erasi appena recata a villeggiare, veniva rapita alla terra da subito, violento malore. Se un conforto potesse venire alla famiglia così crudelmente provata, esso verrebbe certo dal sapere che il suo dolore è diviso da ogni animo gentile, e in ispecie dai collaboratori e lettori di questo giornale, uniti col suo Direttore in un vera comunione di spiriti.

In tali condizioni il Direttore non ha potuto occuparsi di dare l'ultima mano a questo quaderno; al che, pregato, cercò supplire il sottoscritto. Ad esso tocca pure di chiedere venia del ritardo, troppo giustificato, che il quaderno stesso ha dovuto subire. Quanto poi a quello che ancora subisce il numero precedente, esso non deve attribuirsi che al non averne ancora la tipografia Visentini di Venezia ultimata la stampa, da tempo già licenziata; ma confidiamo vi sarà presto provveduto.

F. RONCHETTI.

Città di Castello, 1894 Tipografia dello Stabilimento S. Lapi.

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Lettera aperta al gentilissimo signor dottore MICHELE BARBI Segretario della "Società dantesca italiana a Firenze.

Roma, 31 di luglio 1894.

Nulla, tranne il merito e la cortesia di Lei, noti pure a chi, come me, non ha il bene di conoscerla di persona, potrebbe scusare il mio ardimento di indirizzarle la presente. Ma bisogna che io Le confessi una cosa. Due parole che io lessi nel suo scritto su Gli studi danteschi e il loro avvenire in Italia, che cosí degnamente inaugurò il nuovo Giornale dantesco, furono occasione a cacciarmi in un tal ginepraio, dal quale la mia mente non altro che da Lei con gran disto solver s'aspetta. E le parole sue (recate in appoggio di quel grande assioma, che per non perdere tempo e fatiche importi sommamente fermare il testo critico di un autore prima di disputare della sua interpretazione) riguardano la Vita Nuova; e precisamente, eccole (pag. 9 in fine): Basta ricordare ad esempio che l'accertamento della lezione va in luogo d'ANDAVA nel § 41 ha dato causa vinta a coloro che sostenevano essere la Vita Nuova stata composta avanti l'anno 1300. In ciò Ella trovò contradditore il Lubin (Giornale dantesco, pag. 193); ed Ella replicò brevissimamente a pag. 334: ma quello che certo non immaginerà si è che questa divergenza fra due dottissimi abbia inuzzolito un novizio come me a veder d'appianarla (la ignoranza è temeraria!): ma, com' Ella può ben credere, la cosa rimase in secco, tanti sono gli scogli che questa benedetta Vita Nuova suscita ad ogni passo, e che non furono atti a superare i navalestri piú sperimentati.

Giornale dantesco.

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