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Per "Il grido d'un verso dantesco,,.
(CORREZIONI E AGGIUNTE)

Il luttuoso avvenimento annunciato col cenno necrologico del quinto quaderno tolse a me di correggere, com'avrei voluto, lo scritto quivi pubblicato: correggo ora dunque alcuni errori tipografici ed aggiungo oggi quanto m'è risultato da recentissime ricerche sui codici rispetto al noto verso (Inf. II, 81).

In fine alla penultima riga della pag. 172, in luogo di “uopo„,, leggasi “üopo„,, coi puntolini di richiamo;

nella 5 riga della pag. 176, non già 66

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Volgare ma Volgata,

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a mezzo della pag. 177, non ivi, ma quivi alla dichiarazione di Rinaldo (XX, 136) „ ecc.; poc'oltre alla metà della pag. 180, non rendere, ma "rende impossibile il verso „ ecc.; verso la fine della pag. 183: แ a que' cinque io posso oggi aggiungere il Marciano Zanetti LIII, che legge non ci vuol caprirmiltuo, ed il codice bergamasco ecc.;

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nella riga 9a della pag. 184, invece che e della ventina ecc., si legga e di altrettanti codici veneti,, e poco più oltre "di questi dugensessanta,, ecc.;

quivi stesso (pag. 184) nelle parentesi quadre si legga successivamente "Veneti 16 su 29ŋ "Veneti 19 su 29 „9, "Veneti 18 su 31 19°

IL NOSTRO VERSO NEI CODICI VENETI.

(NOTA).

Fra i trenta manoscritti veneti che ci serbano questa parte del poema, sei leggono quivi aprire o aprirmi e ben ventiquattro che aprire o che aprirmi; que' sei premettono semplicemente alla voce verbale huopo o uopo o vopo (il Marciano Zanetti LII huomo!); piú variamente leggono la frase gli altri ventiquattro. Quattordici hanno cioè huopo, uopo, vuopo (Marciano XXI a, della classe IX italiani), oppo (Marciano XXXIII, id. id.); uno ha non tempo cha primer tuo (Marciano CDLXXXVII b, id. id.) ed un altro non ci vuol caprirmiltuo (Marciano Zanetti LIII); quattro de' sette rimanenti (Trivigiano, Marciani XXXI 6 classe IX ital., Zanetti Le LIV) tradiscono, sotto l'alterazione attuale, quell'originale o antico huo od uo che gli altri tre offrono tuttora nettamente.

Ancora. De' sei codici che leggono aprire o aprirmi due soli appartengono al secolo decimoquarto; al quale invece vanno assegnati ben sedici de' ventiquattro che leggono che aprire o che aprirmi, e tra i sedici s'annoverano i migliori per rispetto alla purezza della lezione, com'è il Marciano Zanetti LV, ascritto già dal Witte alla famiglia di que' ventidue ch'egli giudicò ottimi fra tutti ed assegnato dal Moore alla Famiglia Vaticana (cfr. Giornale dantesco, an. II, quad. V, pag. 185, in fine).

Chiudiamo con un cenno statistico riassuntivo. La lezione del nostro verso, che fu sempre ed è tuttora universalmente accettata, ha dunque per sé un solo quinto de' codici veneti, il quale è costituito, per due terzi, di codici del quattrocento: a costituire invece gli altri quattro quinti, che offrono la lezione sempre ed universalmente reietta, i codici dell'età stessa meno antica concorrono soltanto per un terzo (gli altri due terzi annoverano alcuno de' codici meglio celebrati). Anche rispetto a' manoscritti danteschi del Veneto, adunque, di gran lunga il piú e il meglio dà valore ed autorità alla nostra lezione

Piú non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento,

che l'ottimo de' codici veneziani (Marciano Zanetti LV) riferisce letteralmente cosí: piu non e uopo ch aprirmi il tuo talento,

Fonzaso, settembre 1894.

A. FIAMMAZZO.

Proprietà letteraria.

Città di Castello, Stab. tip. lit. S. Lapi, di 30 ottobre 1894.

G. L. PASSERINI, direttore responsabile LEO S. OLSCHKI editore-proprietario, responsabile.

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E troppo soggettivo dovette parere al poeta un sonetto che doveva seguire a questo della Vita Nova, ove si narra una delle solite immaginazioni:

Io mi sentii svegliar dentro dal core

un spirito amoroso che dormía:

e poi vidi venir da lungi Amore
allegro sí, che appena il conoscía,
dicendo: Or pensa pur di farmi onore ;
e in ciascuna parola sua ridia.

E, poco stando meco 'l mio signore,
guardando in quella parte onde venia,
io vidi monna Vanna e monna Bice
venire invèr lo loco là ov' i' era,
l'una appresso dell'altra maraviglia:

e sí come la mente mi ridice,

Amor mi disse: Questa è Primavera

e quella ha nome Amor, sí mi somiglia.

Secondo che la mente gli ridisse, cioè secondo ei si ricordava, amore gli additò la donna di Guido Cavalcanti, Giovanna o Primavera, che era seguita da Bice, chiamata Amore perché Amor somigliava. E il chiamare Beatrice col vezzeggiativo e familiare monna Bice, parve al Carducci, e giustamente, una prova efficace della personalità dell'amata di Dante, tanto più che ella veniva insieme con donna Vanna; ma il Bartoli anche qui osserva che anche le poesie del Cavalcanti mancano

1 Continuaz., cfr. quad. VII, pag. 284.

Giornale dantesco

22

1

d'ogni contenuto storico, e quindi le sue rime come quelle degli altri del nuovo stile cantano un' idealità. Ecco il sonetto che è compimento del precedente :

Guido, vorrei che tu e Lapo ed io

fossimo presi per incantamento

e messi in un vasel che ad ogni vento
per mare andasse a voler vostro e mio,
Sí che fortuna od altro tempo rio

non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse il disio.
E monna Vanna e monna Bice poi
con quella ch'è su 'l numero del trenta
con noi ponesse il buono incantatore.

E quivi ragionar sempre d'amore

e ciascuna di lor fosse contenta,

sí come io credo che sariamo noi.

Anche in questo il Bartoli vede un sogno, un desiderio non realizzabile, la visione di un momento e l'anelare di Dante all'oggettivazione di quella realtà interiore (Beatrice) che lo esalta e lo affatica, e che gli fa desiderare il saluto, dal qual poi resta inebriato. E sia pure un vano desiderare l'essere messo in barca per incantesimo e cullato nell'alto mare, in questo sonetto in cui, lasciando da parte la fredda allusione al serventese, perduto, è un concetto tutto moderno e nel quale Dante ha dato al realismo un colorito quasi magico, ed alla familiarità un affetto lirico, e al verso un'ala come di colomba, in questo sonetto è pure espressa una divina ebrietà, nella quale il giovine sfugge alla vita per meglio sentire la vita. "Divino sogno di Dante quello di sperdersi con l'amore e la felicità su l'oceano immenso, sempre avanti, sempre avanti, e per il sereno e per la tempesta, fuori dalle vicende della natura e della società umana, nell'oblio del tempo, in immortal gioventú! Sonetto bellissimo nato in un momento d'ebbrezza amorosa in che vorrebbesi fuggire il mondo, ma in compagnia delle persone piú care: gli amici e le donne del loro cuore. E se qui non è la donna e l'amore rinunciamo davvero a cercarli nella Beatrice dantesca, e conchiudiamo che mai poeta seppe meglio ingannare, mentendo affetti nei quali la mente, l'intelletto era tutto, ed il cuore nulla.

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3

Lapo Gianni, lodato da Dante nella Volgare Eloquenza, e qui ricordato, in un sonetto doppio e con la coda di due versi, desiderò una bella vita e poi i godimenti del paradiso:

1 CARDUCCI, presso D'ANCONA, pag. 183, dove afferma nessuno aver detta allegoria la Vanna. BARTOLI; Op. cit., IV, 149.

2 CARDUCCI, Studi, pag. 156.

3 D'ANCONA, Vita Nova, pag. 118.

Amor, eo chero mia donna in domino

l'Arno balsamo fino,

le mura di Fiorenza inargentate

le rughe di cristallo inargentate
fortezze alte merlate,

mio fedel fosse ciaschedun latino.

Il mondo in pace, sicuro 'l cammino,
non mi noccia vicino,

e l'aira temperata verno e state,
mille donne e donzelle adornate,

sempre d'amor pregiate,

meco cantasser la sera e 'l mattino.

E giardin fruttuosi di gran giro
con grande uccellagione,

pien di condotti d'acqua e cacciagione;
bel mi trovasse come fu Absalone

Sansone pareggiassi e Salomone
servaggi di barone,

sonar viole chitarre e canzone,

poscia dovere entrar nel Cielo empiro.
Giovane sana allegra e secura

fosse mia vita, finché 'l mondo dura.

Piú sensuale e piú immaginoso di Dante, Lapo in questi suoi desiderî ci ricorda le allegre poesie di Folgore da San Geminiano, uno di quei poeti satirici e spensierati del secolo XIII, che di sospiri, di lacrime e di donne angeli non volevan sapere, e forse canzonavano nelle piacevoli brigate gli innamorati del vecchio e del nuovo stile, senza nemmeno risparmiarsi tra loro.

3

Il sonetto Dagli occhi della mia donna si muove, se fosse veramente di Dante potrebbe riferirsi al fatto del gabbo; 3 ma al punto in cui si trova ancora la critica per il canzoniere dantesco, è molto difficile, e tanto piú a chi non può riscontrare codici, potere decidere sull'autenticità di molte rime. Se non che potrebbe aver ragione il Giuliani nel ritenerlo per allegorico.

Perché Dante si trattenesse dal parlare della morte di Beatrice per non farsi lodatore di sé stesso, è e sarà sempre un mistero, come tanti altri di cui egli si compiacque nel poema. Pure nella canzone Morte poich' io non trovo a cui mi doglia, di cui il Fraticelli, il Giuliani e il D'Ancona ritengono autore Dante ed il Carducci dubita, che a questo punto egli avrebbe potuto riferire, se avesse voluto, insieme colla can

1 Poeti del primo secolo. Firenze, 1816, vol. II, pag. 104. Il BARTOLI dubitò che il sonetto sia del Gianni: Op. cit., IV, 6. La frase di Sansone, la sapienza di Salomone, hanno riscontro, come l'idea espressa nell'ultimo verso, nella poesia popolare notata dal D'ANCONA: Studî di poesia popolare. Livorno, Vigo, 1878, pag. 33. Presso l'ERCOLE, Op. cit., pag. 138.

2 GIULIO NAVONE: Le rime di Folgore da San Geminiano e di Cene della Chitarra d'Arezzo, nuovamente pubblicate (da). Bologna, Romagnoli, 1880.

3 Rime di Cino da Pistoia e d'altro del secolo XIV, ordinate da G. CARDUCCI. Firenze, Barbèra, 1862, pag. 9.

zone in morte di Beatrice composta indubitatamente da Cino, divenuto amicissimo di lui, avremmo avuto particolari maggiori. Ma Dante non volle perché in queste due canzoni si parlava della persona sua. gli scrive per consolarlo:

Avvegna i' m'abbia più volte per tempo

per voi richiesto pietade e amore

per confortar la vostra grave vita;

e' non è ancor sí trapassato il tempo,

che 'l mio sermon non truovi il vostro core

piangendo star con l'anima smarrita

fra sé dicendo già sarà 'n ciel gita
beata cosa ch' uom chiamava il nome!

Or dunque di che il vostro cor sospira,

che rallegrar si dee del suo migliore?
ché Dio nostro signore

volle di lei, come avea l'angel detto,
fare il cielo perfetto.

Esso

Egli deve gioire poiché ora ha nel cielo la mente e l'intelletto,
Dio ha collocata Beatrice tra i suoi, ella vive tuttora con lui (Quella
Beatrice beata che vive in cielo cogli angeli, e in terra colla mia ani-
ma), onde rasciughi il pianto e si conforti poiché

ancora ispera

vederla in cielo e star nelle sue braccia,

mentre ella onorata da lui in vita, ricevuta dagli angioli con canto e riso com'egli narrò, prega Dio che gli dia conforto. 1

Ed a questa canzone, non pare che vi sia bisogno d'aggiunger parole, nonostante recenti contradditori.

II.

D'onde Francesco da Buti ricavasse che Dante, preso da fiera malinconia per la morte di Beatrice, determinasse di vestire l'abito di frate, non so io né altri ha saputo dire. Certo si è che la leggenda piacque ai francescani e ai loro apologisti, i quali, non potendo accertare per documento quella prima vocazione, ascrissero il poeta tra i terziarî, e con quell'abito lo fecero seppellire, spogliandolo dell'altro di poeta di che l'aveva fatto vestire il Villani. Cosí gli scrittori dell'ordine lo ascrissero nel numero dei loro poeti, mentre per iniziativa del

1 Rime di CINO DA PISTOIA e d'altri del sec. XIV, ordinate da GrOSUÈ CARDUCCI. Firenze, Barbèra, 1862, pag. 9.

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