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l'umanità medesima, e il poeta fiorentino, schivo di parlar di sè, prese la propria persona per simbolo delle nazioni che dopo lunghi raggiri nelle tenebre del paganesimo, si slanciano finalmente, colla Chiesa per guida e per maestra, e per vera donna d'amore, nelle vie immortali della felicità. Che sarà quella felicità? Lo dice nel suo più bel capitolo, il bellissimo libro del Convito. Nella vita di quaggiù sarà imperfetta, poichè consiste sulla perfezione d'ogni virtù. E nel nostro mondo, possono bensì esser quasi perfette le virtú della vita attiva; ma quelle della vita contemplativa saranno imperfettissime, e non possono esser altrimenti, prima dell' ora in cui l'Atene celestiale apre al fedele le sue porte mistiche.

Se Beatrice è quella che conferisce i sacramenti, e concede al cristiano la felicità in questa vita e nell' altra, il poema del Paradiso sarà il quadro in cui si contempla quella perfezione delle virtù.

È inutile dimostrare che la visione di Giove risponde alla giustizia, quella di Marte alla Forza, e quella del sole alla Sapienza. Son principii evidenti. In Saturno la gloria della vita monacale è simbolo della Tempe

ranza.

Nei pianeti inferiori, si osserva l'imperfetta Carità in Venere, la Speranza imperfetta in Mercurio, la Fede imperfetta nella Luna. Finalmente, nel cielo stellato, l'esame apostolico del cristiano ci dimostra le tre virtù senza maccchie, e senza difetti.

Volendo percorrere, nei suoi giri, questo spazio immenso, l'uomo può, fino a certo istante, andare innanzi, da sé stesso, e colle proprie forze. Egli ha la scienza del bene e del male. Non l'avrà perfetta, senza gli ammaestramenti della Chiesa, e perciò noi lo vedremo seguire, al principio del viaggio infernale, la legge dell'Altro, e poi sul fine di quel viaggio, uniformarsi alla legge del Medesimo, che si osserverà allora in tutto il rimanente della visione.

La chiave di quei misterii è appunto quella che Dante ci mette in mano, quando spiega, nel Convito, chi sia la Donna pietosa della Vita Nuova.

Fra i massimi nemici delle verità dantesche primeggia lo Scartazzini, per i suoi lunghi e indefessi lavori, e per il grande amore ch' egli dimostra per le chiose. Egli si accorse, meglio d'ogni altro, del pericolo al quale veniva esposto il vecchio edifizio dei comenti, e fece sforzi grandissimi per dimostrare che la donna del Convito non fosse persona simbolica, ma vera fanciulla viva, materialmente amata da Dante. In quella guerra, ch' egli fece alle dichiarazioni del poeta, era forza che il poeta medesimo fosse il vittorioso. Ma non si può negare che le difese del chiosatore furono esposte veramente per il meglio, e che quel capitolo dell'antica scienza dantesca, è degno d'investigazione filosofica, come esempio bellissimo delle aberrazioni dell'ingegno umano.

Noi abbiamo dunque, nell'opera di Dante, due opere diverse, il cui andamento si svolge in modo che non è sempre identico, nè sempre il medesimo, come vorrebbe l'Agnelli, che mi rimprovera di vedere nell' interno superiore il simbolo letterale e determinatissimo dell'esame di coscienza imperfetto, nel quale non si vuole introdurre l'ammaestramento della Chiesa, con tutto che il cerchio degli Eresiarchi faccia parte di quel regno dell' altra vita.

Quando due opere d'arte hanno intime connessioni e intimi legami l'una coll'altra, può essere che, in certi casi, ammettano diversità d'ogni genere, e anche, dev'esser così, poichè il procedimento della prima è talvolta più generale di quello dell'altra.

Questo si osserva continuamente nell' arte del canto. La medesima frase musicale si adatta con bellezza ed esattezza maravigliosa ai pensieri diversi, e anche opposti, che vengono dichiarati nel poema. Gli esempii sono frequentissimi. Volendo addurre un esempio unico, prenderò il duetto di Linda e del Marchese, nella Linda di Chamounix. Le offerte indegne, e l'ipocrisia sprezzante del vecchio drudo si cantano colle medesime note che il rifiuto glorioso della Linda, e qui non si può dire che si tratti d'arte inferiore: si tratta forse del più bel pezzo di musica buffa del teatro italiano, e si tratta di recitativi obbligati, cioè del genere nel quale il legame del canto colla poesia è il più stretto possibile.

Lo stesso avviene nelle cose della vita umana. Il Cesare, il filosofo, il poeta, sono individui che hanno due vite diverse. Hanno la vita umana semplice, che è quella degli uomini volgari, hanno la vita gloriosa e immortale che è cosa mistica, ideale, e divina. Giulio trionfatore di Roma soggiace all'amore immondo di Nicomede; il Galileo che spezza con mano invitta e forte le macchine celesti di Tolomeo dichiara innanzi ai giudici del tribunale, di rinunziare alle opinioni pittagoriche.

L'opera di Dante non sarebbe nè artistica, nè umana, nè vera, se quella medesima indipendenza non vi si dovesse ritrovare fra il poema volgare, letterale, semplice, che tutti possono intendere e vagheggiare, e il sistema teologico profondo che si nasconde nelle portentose allegorie del massimo maestro. I due sensi possono in certi luoghi unirsi e vincolarsi con tale e tanta forza che vengono a confondersi in uno solo, come nell'esame degli apostoli nel cielo stellato. Ma in generale sono separati e diversi, e se non lo fossero, allora invece delle tre divine canzoni, si avrebbe qualche romanzo freddo e intollerabile, come la Clelia della Scudéry colle immagini del viaggio d'Amore che si fa dal viaggio di Petits Soins al fiume del Tendre.

Riprendiamo dunque la comparazione del canto. Non sempre sarà unica la melodia che si adatta sulle parole. Talora accade che la voce si riposa,

Giornale dantesco

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e che i violini vengono a introdurre anch'essi un sistema di melodia affatto nuovo, e differentissimo di quello che si forma sulle labbra dell'uomo.

Così, nel poema di Dante, vedremo di quando in quando, mentre l'allegoria generale tace, e in certo modo sparisce agli sguardi del contemplante, altre allegorie, diverse dalla prima, che verranno a unirsi col senso letterale. Fra queste, la più gloriosa è l'allegoria astronomica, nella quale il poeta si dichiara per avversario del sistema tolemaico. Abbiamo ancora l'allegoria politica, tanto vagheggiata nelle chiose, e considerata fin qui come cosa di prim' ordine, mentre i fatti dimostrano che quei cenni sono di pochissima importanza per l'intendimento generale delle tre canzoni.

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Ora vengo agli Eretici.

L'Agnelli dice che «a esaminare le colpe d' eresia non basta la sola ragione, nè la filosofia morale..... che i peccati d'eresia non possono » appartenere se non a chi è o fu una volta tra i fedeli, ecc. »>

Va benissimo, e anche per me l'eretico è quel cristiano che non vuole obbedire alla Chiesa, e fa per esempio quel che fecero Ario, e Sabellio, che vengono menzionati nel poema, e sono egregii esempii di tal peccato. Ma Dante non giudica opportuno di metter Sabellio, nè Ario nelle arche del suo sesto cerchio.

In primo luogo abbiamo Epicuro.

Che razza d'eretico è costui?

Poi tutti i suoi seguaci. Ma pare che vi siano eccezioni, poichè Orazio disse di sè medesimo: Cum ridere voles Epicuri de grege porcum, ed egli fa il suo soggiorno nel castello del Limbo, invece di essere abbruciato con Farinata degli Uberti, e con Federigo.

E Federigo? Fu veramente seguace d'Epicuro quell' imperatore? Ma allora non fu eretico, fu pagano, fu uomo che del domma cristiano non ammetteva niente. E come và che di questo rimprovero non si fa parola negli atti del Concilio di Lione? Sarebbe forse per isquisitissima delicatezza del papa ?

Quanto a Farinata, egli medesimo spiega il suo peccato con parola di tale e tanta eloquenza, e in versi così belli e ardenti, che il dubbio non può esistere. Quel peccato è lo spirito di parte. Farinata è dannato perchè ghibellino, e lo stesso si dirà del Cardinale e di Federigo; e di Cavalcante si dirà che è dannato perchè guelfo, fin al giorno in cui la storia ci rechi documenti per dimostrare come un vecchio nobile fiorentino del duecento potesse vagheggiare le dottrine filosofiche d'Epicuro, del quale è probabile ch' egli non sapeva nemmeno il nome.

Poi abbiamo papa Anastasio. Qui sarebbe lungo l'elenco delle bestialità e sciocchezze che vennero infilzate dai chiosatori. Sarebbe anche affatto

inutile. Chi non sa la storia dei bassi secoli può impararla agevolmente in qualche Handbuch tedesco, o manuale italiano. Dante sbaglia. Invece d'un papa, si tratta d'un imperatore, e questi veramente fu eretico, ma eretico eutichiano. Ciò vuol dire che non teneva per doppia la natura di Gesù Cristo. Credeva che Gesù Cristo non avesse la natura umana, e avesse la sola natura divina.

La considerazione di quell' eresia ritorna con grandissima frequenza nel poema. Giustiniano dice, nella visione di Mercurio, che prima di por mano alla compilazione delle leggi credeva una natura in Cristo esser, non fine. Si sà che quell'imperatore fu eutichiano, e poi ritornò alla fede romana, e cattolica. Ma Dante vuol farci intendere che le sue leggi sarebbero cattive, s' egli le avesse dettate quando era guelfo .... mi è sfuggita quella parola: diciamo piuttosto eutichiano. La parte guelfa distrugge, nell' edifizio, politico dell'imperio, la potenza temporale e umana, che è quella del Cesare, e l'eresia eutichiana cancella in Gesù Cristo la natura umana. Da uną parte come dall'altra, ciò che doveva rimaner doppio diviene semplice, e diviene tale per esagerazione del principio divino.

Nell'inferno dei sodomiti abbiamo Brunetto Latini, il vescovo Andrea dei Mozzi, il giurista Francesco Accurzio, la cui segnatura si legge nelle carte dell'Archivio di Marsiglia (Liasse B, 365) in un trattato d'alleanza fra Carlo d'Angiò e alcune città di Lombardia, Guidoguerra, Jacopo Rusticucci, Guglielmo Borsiere, Tegghiaio Aldobrandi, tutti guelfi. Strana coincidenza in verità. Si dovrebbe dunque ammettere che fosse obbligatorio quel vizio nella fazione guelfa di Firenze e deil' alta Italia, e che gli scrittori ghibellini, per gentilezza e cortesia, non ne abbiano mai detto. parola. Ma il più stupendo di quei sodomiti è Prisciano. Di quel povero uomo non si sà nulla di nulla, se non che fu grammatico dei bassi secoli come Dante. La sua ombra potrebbe maledire l'ingiustizia e la parzialità di Dante, che schiera Donato, nella visione del sole, fra gli spiriti eletti,, e rinchiude il suo infelicissimo collega nel cerchio infernale, non senza imporgli la macchia d'un vizio piuttosto brutto. E per questo non si vedono ragioni, se non sarà forse che il poeta voglia far buffonate, e mistificare i posteri.

Ma il nome di Prisciano rassomiglia assai, (se non è del tutto identico) quello di Priscilliano, eretico dei bassi secoli, che non voleva riconoscere in Gesù Cristo la natura umana.

Chi non vuole ammetter quella confusione nei nomi osservi pure un' altra confusione del medesimo genere, che esiste fra Eutiche, eresiarca, e Eutiche grammatico del sesto secolo, e discepolo di Prisciano.

Mi fermo in quella via, che è troppo lunga per esser percorsa in un giorno solo. Mi limito a dire che gli eretici danteschi son guelfi e ghibel

lini, tutti infiammati dello spirito di parte, e infiammatissimi per l'esiglio, che pare a Farinata il massimo tormento, e il massimo disonore. E sul letto infuocato, egli quando si rammenta che i suoi figli non seppero imparar l'arte del ritorno, esclama che la sua vera dannazione è quella, piuttosto che l'inutile tortura dell'inferno materiale.

Il corpo della patria è il recinto della città; è l'insieme dei palazzi, delle case, dei beni dei cittadini. L'anima è l'amore della patria medesima che rimane vivo nel cuore dell'esigliato. E per questo dice, nella nostra poesia, l'eroe romano esigliato e libero e glorioso:

Rome n'est plus dans Rome; elle est toute où je suis.

Queste son le verità morali e politiche che il guelfo e il ghibellino non possono intendere. Fanno l'anima morta col corpo, al modo del falso e allegorico Epicuro che giace nei sepolcri con Federigo e Cavalcante.

Pare veramente al mio critico che queste non siano idee da giudicarsi colla sola ragione, e colla filosofia morale?

S'egli mi risponde di no, gli farò altre richieste. Voglio che mi dica quando e come fu battezzato Epicuro, e per qual grazia Dante volle risparmiare a Orazio il supplizio del suo maestro di filosofia, e quali furono i motivi potentissimi che i Padri del concilio di Lione seppero ritrovare per astenersi d'ogni rimprovero sull' epicureismo di Federigo.

DR. PROMPT.

CHIOSE DANTESCHE

IL LUNGO SILENZIO DI VIRGILIO

[Inf., I, 63].

Il sig. E. Bertana, non sodisfatto a ragione del valor letterale attribuito dai più al verso

chi per lungo silenzio parea fioco,

ne propone un altro (1), maravigliandosi che a tanti valentuomini sia sembrata « necessaria e legittima... per quanto strana e forzata » la nota interpretazione: «... Virgilio che morto da lunghissimi anni e rimasto per lunghissimi anni in silenzio, pareva debole di corpo e di voce: di voce sopratutto ».

(1) V. La Biblioteca delle scuole classiche italiane, an. VI serie 2, n. 3, 1 nov. 1893.

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