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mostrato, con questa differenza però, che, mentre costoro seguirono smoderatamente queste passioni, quelli del Purgatorio pare mettessero a quelle un limite. In fatti quivi, piuttosto che veri superbi, troviamo degli arroganti, dei vanagloriosi, dei presuntuosi; e gl'invidiosi si limitarono a pravi sentimenti del cuore, ma non li tradussero in atto. Ciò si deduce dalle anime che si trovano ivi punite. Dal che sembra che si possa inferire, secondo il pensiero di Dante, che quando uno pecca, dentro certi confini, trova poi facilmente perdono da Dio quanto al reato di colpa, restandogli, tutt'al piú, da scontare in purgatorio il reato di pena. Ma quando l'uomo si abbandona perdutamente in braccio alle passioni, allora è quasi impossibile che più ritorni indietro. Ed in vero nel Purgatorio, fatta eccezione di Manfredi e forse di molti suoi compagni, i quali perciò sono tanto remoti dal luogo di vera purgazione; non trovi anime ingolfatesi in molti vizi; mentre nell'Inferno trovi peccatori, i piú dei quali si diedero a mille eccessi. Prendano un poco ad esame i dantisti questa mia idea, per vedere se io m'inganno.

Si replicherà: Se la superbia e l'invidia non sono sempre peccati mortali, lo possono però essere. Uno dunque che muoia macchiato mortalmente o di sola superbia o di sola invidia, in qual luogo dell'Inferno dantesco dovrà mettersi? Rispondo: La superbia perfetta, per la quale è tolta al cuor dell'uomo ogni soggezione a Dio e alla sua legge, costituisce un peccato di violenza contro Dio, perché lo si disconosce come autore e datore di ogni bene. Il superbo, in questo caso, è uno di coloro che, in senso ben poco diverso, ripete coll'empio demente di cui parla Davide: Non est Deus; e si dovrà condannare tra coloro che in lor cuore negano Dio. Passiamo all'invidioso. Egli vorrebbe che il prossimo fosse privato di un bene, in quanto questo vien considerato da lui come un male proprio, perché scema la propria grandezza. Questi beni si possono ridurre a tre specie: beni materiali (esistenza, sanità, sostanze) beni dell'onore (stima, fama), beni dell'anima (virtú, santità). Se l'invidioso desidera che il prossimo venga spogliato di beni materiali è, nell'intenzione, quasi un ladro od un omicida; se desidera che perda i beni dell'onore è peggiore di un ladro, per quello che ne dice la Scrittura, che è meglio il buon nome che le molte ricchezze; se desidera che perda i beni dell' anima è un vero demonio, che ben potrà essere gittato nella bolgia dei serpenti.

Conchiudo. Nello Stige io non vedo che iracondi, distinti però in due classi. Gli uni secondarono l'ira con impeto scattando ad ogni contrarietà in atti di furore; gli altri covarono l'odio nel loro cuore, e fecero le loro vendette con calcolo e con freddezza. Ecco il fummo accidioso, cioè lento e chiuso nell'animo oppure l'ira cupa1. E fumo e ira hanno fra loro stretta relazione nel concetto di Dante, mentre egli castiga gl'iracondi del Purgatorio in mezzo a denso fumo.

1

Che se mettiamo i superbi e gl'invidiosi tuffati nello Stige, faccio osser

1 Cfr. Giorn, dantesco, Anno II, quaderno V, pag. 205-206.

vare che non vi è ragione sufficiente perché Filippo Argenti il quale, come si sa, era iracondo e superbo, e però certamente anche invidioso, debba emergere dall'acqua; mentre chi avesse avuto solo la superbia o solo la invidia, starebbe immerso affatto; quasi fosse più colpevole chi ebbe colpe di una sola sorta, di chi ne ebbe di molte fatta.

Io non pretendo di avere risolta la questione; anzi ho sí poca fiducia in me, che ben mi terrei pago, se, porgendo ad altri, con questo scritto, l'occasione di studiarla piú a fondo, qualcuno ne desse la soluzione anche a patto di sentirmi dire che io mi sono ingannato d'assai.

Ravenna, novembre 1893.

FERDINANDO SAVINI.

CHIOSE DANTESCHE

IL CORTO ANDARE DEL BEL MONTE.

Che la via non vera, per la quale Dante volse i suoi passi dopo la morte di Beatrice, imagini di ben seguendo false, fosse quella della selva, tutti convengono; ma che fosse anche tale il corto andare del bel monte, perché figurante tutto quel tempo, in cui egli credette di arrivare alla felicità e trovare la pace, dandosi allo studio di una scienza affatto mondana, è opinione dello Scartazzini (DANTOL., pag. 275 e 371), alla quale non mi pare di poter consentire. E ne dirò brevemente le ragioni; spiegando, sí, Dante con Dante, ma preferibilmente la Commedia colla Commedia; ogn'opera d'arte stante da sé dovendo contenere in sé tutti gli elementi, che sono necessarii alla sua intelligenza.

Certo Virgilio, per camparlo da quel luogo selvaggio, consigliò lo smarrito ed ora ritrovato, cioè ravveduto, poeta a tenere altro viaggio; ma col solo intento di levarlo dinanzi alla lupa, che lo respingeva là dove il sol (la verità) tace; non perché la via presa fosse di per sé erronea (Inf., I, 91-96). Infatti, se la selva, e la valle che la comprendeva, era di già terminata, doveva, per la necessaria rispondenza de' simboli, esser terminato altresí lo smarrimento, insieme colla notte intellettuale e morale, che n'era stata per dieci anni cagione; senza di che il ravvedimento supposto non si poteva considerare come avvenuto. Se salire il dilettoso monte sarebbe stato per lui principio e cagione di tutta gioja, illuminato com'era da' raggi del sole della verità cristiana, che mena dritto altrui per ogni calle, la via presavi non po

teva non esser vera, repugnando che l'eirore possa esser mai principio di felicità. E se il corto andarc del bel monte gli era stato tolto dalla lupa, che nessuno dirà rappresentasse una virtú, anzi che uno de' sette vizii capitali; gli è forza convenire che qualcosa di buono e di vero si simboleggiasse invece con esso; dappoiché a un indirizzo morale e intellettuale tuttavia sbagliato, la simbolica lupa non si sarebbe opposta di certo.

E si badi inoltre. Corto è l'andare del bel monte, alla cui altezza Dante, per il contrasto della lupa, perdé la speranza di pervenire; e lunga invece è la via, per la quale, a sua salvezza, fu messo poi da Virgilio (Inf., IV, 22. Purg. V, 131). Ora, essendo questi due attributi correlativi tra loro, ne viene di logica conseguenza che tra le due vie, che ne sono qualificate, non ci fosse sostanzialmente altra differenza che la indicata da loro, e dovessero anzi riuscire ambedue, almeno simbolicamente, a un termine medesimo. E, per verità, come il dilettoso monte sarebbe stato all'uomo che lo salisse principio e cagione di tutta gioja, cioè di felicità; cosí l'accedere al monte del purgatorio rende l'uomo felice, ma della beatitudine di questa vita, ehe consiste nelle operazioni della propria virtú, e pel terrestre paradiso si figura (Purg., XXX, 75. MoN., III, 15). Vi si rappresentano insomma due metodi diversi per conseguire uno scopo ad essi comune.

Né la cagione della loro accidentale diversità è da riporla forse in altro che in questo. Dante in due opere si propose di propugnare il riordinamento sociale e politico del mondo, secondo i principii cristiani: teoricamente nel De Monarchia, e praticamente nella Commedia, intesa, com'egli ebbe a dichiarare nella lettera a Can Grande della Scala (§ XVI), non alla speculazione ma all'opera. Io credo quindi che nel proemio al suo poema, po. nendo il simbolo del bel monte e delle tre fiere, anziché alla sua personale trilogia, cioè alle variazioni della sua vita intellettuale e morale (supposto dello Scartazzini), e' volesse alludere invece al convincimento oramai acqui sito che, a domare la violenza delle passioni umane e combattere efficacemente l'interessata opposizione de' potenti (impedimenti veri l'una e l'altra alla vagheggiata attuazione del suo ideale), piú che la via breve dell' astratta dottrina, riserbata a pochissimi, dovesse valere la lunga dell'esperienza, facile a trovare assenso ne' popoli, tanto piú se presentata poeticamente, come fece nella Commedia; solo dalla quale perciò sperava di ottenere il trionfo delle sue teorie e, conseguentemente, il suo rimpatrio (Inf., XXVIII, 47-49. Purg., XXVI, 73-75. Par., XVIII. 124-142; XXV, 1-9).

E questa a me pare supposizione più probabile che quella dello Scartazzini non sia; ma se io colga nel vero, o m'inganni, gli attenti e spregiudicati lettori, se m'è dato d'averne, lo giudichino.

Trapani, ottobre 1894.

A. BUSCAINO-CAMPO.

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

RECENSIONI

Dante Alighieri. La divina Commedia con Commento del prof. Giacomo Poletto. Roma-Tournay, tip. liturgica di san Giovanni, Desclée, Lefebvre e compagni, 1894, voll. tre, in-8° gr. Nella prima metà dello scorso luglio venne alla luce questo nuovo commento del poema dantesco. Anni sono S. S. Leone XIII istituiva in Roma una cattedra dantesca nominandovi professore il Poletto: era quindi naturale che il Poletto dedicasse all' augusto Mecenate il nuovo lavoro, e non meno naturale che Leone XIII ne accettasse la dedica. Dal Poletto, già noto per altri pregevoli lavori di letteratura dantesca, non si poteva non attendere con viva curiosità il nuovo commento, nella fondata speranza che esso sarebbe stato pari al merito dell'autore e degno del Mecenate. E qui sul principio trovo doveroso constatare che la speranza non può dirsi delusa.

La materia del commento è desunta in gran parte dagli antecedenti studi, e dalle lezioni tenute dalla cattedra. Perciò l'autore nella prefazione fa avvertiti i lettori di non essersi costantemente occupato di certe chiose di pura forma, perché il suo insegnamento non è insegnamento elementare, e, per la qualità de' suoi alunni, in gran parte ecclesiastici, ha dovuto abbondare "piú che in altre scuole non si soglia, di cose filosofiche e teologiche E nel dare esecu

zione a questo particolare intento vuole sincerità che si riconosca essersi mostrato il Poletto assai piú oggettivo e scevro da pregiudizi di scuola che non il padre gesuita Cornoldi.1 Né credo di andar lungi dal vero che il Poletto fosse ben conscio di tale difetto per parte del p. Cornoldi dal vedere che, pur avendolo nominato nella dedica al regnante Pontefice, nemmeno una volta, se non erro, ricorre al commento cornoldiano in materia filosofico-teologica.

Il Poletto, scolaro del Giuliani, ne continua, con larghezza di idee e d'applicazione, il metodo; e quindi il nuovo commento abbonda nelle citazioni delle altre opere del poeta e delle fonti alle quali Dante ha massimamente attinto. Né a questo si limitano le ricerche del Nostro, ma pel suo commento trae, come è ben giusto, profitto dei lavori di altri commentatori sí antichi che moderni di maggior valore, dandone quasi sempre fondato e favorevole giudizio e mostrandosi sobrio e modesto nel rilevarne gli errori. 2

Ereditato dal Giuliani un esemplare della divina Commedia sul quale l'esimio dantista fece varie e preziose aggiunte al commento di Brunone Bianchi, e note e richiami alle diverse opere minori di Dante, il Poletto ha creduto di "porre nei margini del suo Commento al preciso luogo che occupano nel volume del Giuliani, tutte le citazioni, nessuna eccettuata, che si riferiscono ad altri punti del Poema e a tutte le altre opere di Dante Quant'è poi delle postille riferisce quelle che gli parvero avere una qualche importanza, notando sempre con religiosa fe

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1 Questo non parrà un grande elogio; ché l'opera del gesuita sarà sempre tenuta per una miserevolissima cosa, da quanti hanno cultura, buon gusto, e una certa dose di buon senso. IL DIRETTORE.

2 Inf., pag. 646, dopo il mezzo; 648, alla fine; 656, alla fine; Purg., IV, 100-102; V. 22-24; 85-87; XXX, 76-78; XXXI, 91-93; 136-138, e II° 94-99; XXIX, 73-75; XXXII, 100-102; Par., VI, 94-96; XI, nel Prologo; XIII, 139; XV, 7-9.

deltà il nome dell'autore. Così pure alla fine di ogni canto il Poletto segna quelle terzine che per istile, per bellezza, per novità, o per forza d'immagine e d'espressione parvero al Tommasèo le meglio notabili; e perché l'attenzione dello studioso vieppiù si fermi sopra quei versi che l'Alfieri nel suo Estratto di Dante, ha segnati come i piú rimarchevoli, o per l'armonia, o per il pensiero, o per l'espressione o per la stravaganza, ne fa ogni singola volta un richiamo a fine di invitare il lettore a scrutare il perché il grand' uomo li abbia annotati. Però, ad evitare la frequente ripetizione della medesima frase. "L'Alfieri nota, etc. sarebbe stato meglio indicare, come fece pel Tommasèo, alla fine di ogni canto, i versi segnalati dall'Astigiano.

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Nel commentare i passi del poema che suppongono cognizioni matematiche o astronomiche il Nostro riporta a preferenza le note dell'Antonelli, già pubblicate dal Tommasèo. Ad illustrare graficamente la materia della Commedia il Poletto riproduce cinque tavole del duca Caetani di Sermoneta. Alla fine di alcuni canti pone delle note speciali che aiutano opportunatamente anche il lettore meno dotto a penetrare nella mente di Dante e dargli la intelligenza di svariate dottrine che qua e là ricorrono nel divino poema. Di grande comodità riescono poi un rimario ed un copioso indice delle persone, dei miti e dei luoghi, in fondo al terzo volume. Queste le osservazioni d'indole generale intorno al nuovo commento. Ora scendo a quelle particolarità che mi sembrano piú degne di attenzione. Credo notevoli le chiose alla prima cantica I, c. I, vv. 37-42; 49-51; 52-54; 56-60; 61-66; 70-72; 8S-92; 94-95; 117; A seconda morte “devesi dare il senso di inferno o di eterna dannazione: ma sarebbe mestieri al grida dare il significato di impreca„ (pag. 26). C. III, 7; "Qui surge una difficoltà che si riduce ad una vera contraddizione, forse la sola in cui Dante sia caduto. Se la terra non era ancora formata, e l'autore, in quanto alla creazione dell' Inferno, puossi tuttavia spiegare senza manifesta discordia tra un luogo e l'altro del poema, nessuno può salvarlo da questa discordia rispetto all'Inf., XXXIV, 121-124, circa al precipitare di Lucifero dal cielo nel profondo dell' Inferno: la cosa è grave e rincresciosa, ma il vero è vero. (pag. 55), 10, 40, 53, 59, 65; crede che tutti i dannati sieno nudi ad eccezione degli ipocriti il cui faticoso manto è parte del loro tormento; dubita sugli abitatori del Limbo (p. 65). III: trova "notabile che Dante faccia bastonare chi s'adagia o cerca riposo o comodità; com'è notabile del pari che il poeta d'ogni civile operosità non mai usasse la voce adagio. Vorrebbe "che i giovani avessero la pazienza di studiare e raffrontare in ogni parola dell'Autore i due nocchieri dell'Acheronte e della foce del Tevere,,. (p. 71) C. V, 34: nella ruina ravvisa "un vero e proprio scoscendimento della roccia, contro il quale sono dalla bufera scaraventati que' miseri, onde ad ogni nuovo giro della rapina in loro si rinnova il dolore, le urla e la disperazione bestemmiante la virtú divina. „ (p. 103), 96. Si tace: "Si deve pensare che Dio, quando dall'uomo vuole un fine, dà i mezzi necessari; e siccome Dante doveva trar profitto per sé e per i suoi lettori del colloquio con Francesca, per divina disposizione il vento, pur continuando per le altre anime, momentaneamente si tace, sta queto, si ferma, sospende la sua rapina pei due cognati....„, (p. 114) 138. Questo verso, che il poeta milanese traduce tanto magnificamente nel

Per tutt quel di gh'emm miss el segne s'ciavo!

pel Poletto è creazione michelangiolesca: non trova altro sí potente riscontro a questo punto che l'altro potente del pari in bocca di Ugolino

Poscia più che il dolor poté il digiuno. XXXIII, 75;

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tempo felice è "espressione bastevole per intendere che la cosa ebbe una durata, un periodo di tempo, per quanto resti indeterminato, (p. 122). C. VI, 58, Vede “in Ciacco un goloso bensí, ma non ghiottone plebeo, che gli uomini di cittadine virtú avrebbero avuto in obbrobrio e respintolo, non mai chiamato e tenuto in conto.... un uomo non estraneo ai pubblici affari e all'andamento politico di Firenze, e alla conoscenza piena delle persone e dei partiti „ (p. 139) e C. VII, 46-48: papi e cardinali sono i prodighi, perché "chi voglia spassionatemente considerare i luoghi almeno piú celebri del poema, dove il poeta riprende negli ecclesiastici l'amor dell' avere, si persuaderà facilmente che più che all'avarizia Dante tende l'arco alla loro prodi

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