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viva nella Vita Nuova e viva ancora qui, ed i rimproveri mossi a Dante e le allusioni a sé stessa lo provano abbastanza: la vita dunque non viene a mancare in lei, ma sembra che sia cosí per la nuova missione, diciam cosí, che per grazia divina le è stata affidata rispetto a Dante, il quale sino dal suo libro giovanile avevala a ciò destinata. Ma Beatrice, -- a giusta ragione affermò Cesare Balbo, - non diviene nella Commedia un simbolo se non per le tante guastature, appiccature e diminuzioni di commentatori, i quali, come certi filosofi idealisti, fanno spreco d'ingegno e di dottrina nel fabbricare sistemi contrarî l'uno all'altro per far sottentrare alla Beatrice vera e viva nel cielo, ora la teologia, or la filosofia, la somma sapienza, la chiesa e perfino l'idea ghibellina. Beatrice, segue il Balbo, non può rappresentare la teologia che Dante colloca determinatamente e quasi confina al quinto cielo; non l'una o l'altra dell'altre singole idee, perché, secondo il D'Ancona, troppo poco sarebbe l'attribuirle la rappresentazione simbolica d'uno di codesti pur sì alti concetti. Beatrice, conchiude quest'ultimo, è simbolo non d'una idea ma dell'idea. Cosa piú certa è di attenersi a Dante, il quale ne avverte, che dei quattro sensi che possono avere le scritture, il primo, cioè il letterale, deve andare innanzi ad ogni altro, poiché in quello tutti vengono inchiusi. Per ciò adunque, la giovinetta fiorentina che innamorò Dante di sé, tale rimane nel Paradiso, e poiché ella gode la visione di Dio in luogo altissimo, risplende tutta in lei la grazia del suo eterno Fattore. Ella non è né teologia né altro d'astratto: illuminata dalla grazia sopra ogni altra creatura del suo grado, ella può istruire Dante nei misteri della fede e nelle piú ardue profondità della scienza teologica, come d'ogn'altra dottrina. Miracolo in terra per bellezza e virtú, ella è miracolo nuovo e più compiuto nel cielo, cosí che è termine di mezzo tra Dante e Dio.

1

Il Purgatorio è la cantica dell'amore, e Beatrice vi discende per levare il suo amante purificato alle stelle, dopo avergli ricordato il suo amore in forma veramente umana. Da indi innanzi non è altro ricordo della bella persona rimasta alla terra, e tutto il Paradiso è un inno al sorriso di Beatrice ed ai suoi mirabili effetti sull'animo di Dante e sugli abitatori delle sfere celesti, lieti oramai di possederla. Qui davvero l'arte di Dante gareggia seco stessa, e i mille e nuovi modi coi quali, discepolo affettuoso e riverente, egli seppe chiamare Virgilio, divengono quasi un nulla dinanzi alle mille e sempre nuove espressioni con che ritrae Beatrice ridente a mano a mano che s'innalzano nei cieli, nel tempo stesso che egli confessa la sua bellezza sorpassare quante bellezze possano esser prodotte e riunite insieme da natura e da arte:

1 Vita di D. A. Torino, 1857, pag. 298 - D'ANCONA: V. N., LXXXVI.

E se natura od arte fe' pasture

da pigliare occhi, per aver la mente,
in carne umana, o nelle sue pinture,
tutte adunate parrebber niente

vèr lo piacer divin che mi rifulse,
quando mi volsi al suo viso ridente.

E quel riso fa che Dante s'inalzi velocissimo d'uno in altro cielo. Quel riso che pur nel fuoco d'inferno renderebbe un uomo felice, e che Dante poco a poco riesce a sostenere, non può essere ritratto dalla più alta poesia:

Se mo sonasser tutte quelle lingue
che Polinnia colle suore fero
del latte lor dolcissimo piú pingue,
per aiutarmi, al millesmo del vero
non si verria, cantando il santo riso,
e quanto il santo aspetto facea mero.

Concetto poi ripetuto; ma ampliato:

Se quanto infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poco sarebbe a fornir questa vice.
La bellezza ch'io vidi si trasmoda

non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo Fattor tutta la goda.

Da questo passo vinto mi concedo,

piú che giammai da punto di sua tèma

soprato fosse, comico o tragedo;

ché, come sole in viso che piú trema,
cosí lo rimembrar del dolce riso
la mente mia di sé medesma scema.
Dal primo giorno ch'io vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m'è il seguire al mio cantar preciso;
ma or convien che il mio seguir desista
piú dietro a sua bellezza, poetando,
come all'ultimo suo ciascuno artista. 1

Ricordata colla Beatrice beata la fanciulla terrestre, quasi a rammentarci che ella è sempre quella, lascia a miglior cantore di compiere la sua lode. E qui ne piace conchiudere questo qualsiasi scritto, col De Sanctis, che la forza che tira Dante a Dio è l'amore, è Beatrice, ch'egli, nonostante le sue infedeltà, ebbe sempre in cima del suo pensiero : sí che lo vinse e trionfò. Ma: "Dante che nel Purgatorio sentí il tremore dell'antica fiamma, qui ode Beatrice con un sentimento vicino

'Parad: XXVII, 91: XXIII, 55: XXX, 16: XXXI, 79. Sul riso di Beatrice: PIER GIACINTO GIozza. Il sorriso di Beatrice, studio estetico critico. Cremona, tip. Sociale, 1879.

alla riverenza. Quando ella si allontana, ei non manda un lamento: ogni parte terrestre è in lui arsa e consumata. Le sue parole sono affettuose; ma è affetto di riverente gratitudine, siccome nel piccolo cenno che gli fa Beetrice, l'amore dell'uomo come ombra si dilegua nell'amore di Dio, ella lo ama in Dio.

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Cosí orai, e quella sí lontana

come parea, sorrise e riguardommi

poi si tornò all'eterna fontana.

Storia della lett. ital., Vol. I, pag. 256.

APOLLO LUMINI.

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cosí

Nella divina Commedia c'è una serie di luoghi, i quali godono per dire della prerogativa di essere sempre e poi sempre oggetto d'interpretazione; e spiegati già cento e cento volte stimolano sempre da capo il genio dei commentatori, ed in essi vien spesa e profusa ognora di bel nuovo arguzia sopra arguzia, e ciò spessissimo senza che si riesca a approfondare essenzialmente l'intendimento delle parole del poema.

E oltre a questi ci sono altri luoghi, i quali esigerebbero non meno di quelli un esame accurato, sui quali però i commentatori, l'uno dopo l'altro, passano senza curarsene contentandosi con strana modestia ripetere semplicemente la spiegazione da altri già data.

Fra questi luoghi trascurati è da annoverare quello alla fine del canto XXIV dell'Inferno, ove fa Vanni Fucci il pistolese la profezia, che la sconfitta decisiva dei bianchi avrà luogo " sopra campo Picen „.

Finora la quistione, che cosa significhi questo campo Piceno, sta "sub judice,; merita però al pari di tante altre di essere risoluta. E per passare in rivista prima di tutto quel che è già fatto, dirò che in due modi diversi i commentatori hanno risposto al quesito.

Gli uni, attenendosi, strettamente alla lettera, dicono francamente:

I neri di Pistoja comandati dal marchese Malaspina, sconfissero il partito bianco sopra campo Piceno, e questo campo Piceno si trova vicino a Pistoja. Il Vellutello, che vuol essere più preciso, aggiunge "sotto il castel di Fucecchio,.

Altri lo suppongono situato "tra Serravalle e Montecatini

Ora però un campo Piceno non esiste né nella contrada di Fucecchio né in quella tra Serravalle e Montecatini. Anzi, come attesta il Tigri (Pistoja e il suo territorio, pag. 352), in tutto il territorio di Pistoja non c'è nessuna località che porti questo nome.

Questo fatto, di cui non si potea non tener conto, indusse altri a prendere un'altra strada e a trasformare addirittura il nome del campo. Se

condo loro Piceno equivale a Pisceno e questo a Piscenese, il che non sarebbe altro che Pesciatino. E con questo giro si torna a quella medesima pianura di Fucecchio, in cui la Pescia s'impaluda.

Ma girare e storcere cosí le parole e confessare che si dispera di spiegare il vero senso del poeta è tutt'uno, e secondo me la seconda spiegazione vale quanto la prima.

A tutt'e due, come del resto a tutti gli altri tentativi fatti nella stessa direzione, si oppone inoltre il fatto importantissimo e decisivo, che nei combattimenti, i quali soli possono essere l'argomento della profezia di Vanni Fucci (vale a dire nelle spedizioni dei Lucchesi e Fiorentini riuniti contro ai bianchi di Pistoja negli anni 1302 e 1305-6) non ebbe luogo mai una battaglia in campo aperto. Il che nessuno dei commentatori ha preso in giusta considerazione. Sennonché il solo Scartazzini fa chiaramente menzione di questa circostanza, ma né anche lui ne tien conto in seguito. Altri, invece, si mettono in aperta contraddizione coi fatti storici riferitici colla massima precisione, ciò che non saprei affatto spiegarmi. Fra essi il Fraticelli, per esempio, dice: "La battaglia, come può vedersi nelle storie pistolesi, avvenne l'anno 1302 nel piano, che è tra Serravalle e Montecatini, vale a dire nell' agro o campo pesciatino o piscenese „.

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Ora l'anonimo autore di queste Istorie pistolesi (Muratori, Rer. Ital. Script., XI), citate dal Fraticelli, è proprio per noi il testimone piú importante dei fatti in questione. Ma dal suo racconto, minuto e chiaro, il quale manifesta che il cronista abbia visto ciò che descrive, risulta, tutto al contrario, che nell'anno 1302, quando tutti gli sforzi dei confederati si riunirono a impadronirsi del castello di Serravalle, strettissimamente serrato da tutte le parti, non avvenne nessuna "battaglia nel piano tra Serravalle e Montecatini Inoltre egli sarebbe stranissimo, che Vanni Fucci volesse fare argomento della sua profezia la presa di un castelluccio di poco rilievo, mentre si prestava subito la caduta tremenda, avvenuta a distanza di pochi anni, della città intera, la quale catastrofe, per la grandezza e la forza delle passioni, rassomiglia alla rovina di Cartagine. Nello stesso modo però come nell'anno 1302 Serravalle, anche Pistoja nel 1305 dal principio della guerra fu strettamente serrata con battifolli e fosse e steccati e bertesche น acciocché nessuna persona ne potesse uscire che non fosse presa o morta né per tutto questo tempo fino all'aprile del 1306, quando la città per la fame fu costretta a rendersi, mai avvenne un combattimento fuori della circonvallazione.

Cosí racconta il cronista pistolese, e con lui va interamente d'accordo il suo grande collega e contemporaneo fiorentino Giovanni Villani (VIII, 51 § 82). Ed anche gli storiografi più recenti, come il Manetti (1446) e il Salvi (1656), descrivono gli avvenimenti nello stesso modo. Un combattimento sopra campo Piceno, come lo intende l'ovvia interpretazione dantesca, non viene menzionato proprio da nessuno.

Ma che cosa dunque Dante intese dire con questo campo Piceno?

La strada ce la insegna qui, come nella spiegazione del veltro, Giovanni

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