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NOTERELLE

buon sartore

com'egli ha del panno fa la gonna. Parad., XXXII, 140.

Il nostro Giovanni Agnelli non contento della risposta che il dr. Prompt dà alle osservazioni che egli fece sull' Alighieri intorno allo studio promptiano sulla Malebolge di Dante, vorrebbe tornare sull'argomento, per difender con nuove ragioni le affermazioni sue. Ma perché

a furia di osservare e di ribattere si corre il rischio di non farla mai finita, e, grazie a Dio, al Giornale la materia non manca, prego i due antagonisti di riporre le armi e lasciar ch'io chiuda la questione con alcune mie osservazioni.

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Mi sbrigo con poche parole. Il dr. Prompt, commentando i versi 31 e 32 del XVII d' Inferno fa percorrere dai due poeti, nella direzione di destra, dieci passi, sempre trattenendosi sull' argine, per ben cessar la rena e la fiammella Ora a me pare che Dante e Vergilio, giunti in capo all'argine da essi percorso, facessero, invece, que' benedetti dieci passi, dopo disceso l' argine, in sullo stremo del cerchio settimo per arrivare Gerione. Intendendo come vorrebbe il Prompt, non so come dovrebbe interpretarsi la parola scendemmo che precede le parole e dieci passi femmo, e sarebbe mestieri supporre che al disopra dello stremo dell'argine ci fosse la rena infuocata e vi cadessero le dilatate falde del fuoco: ciò che il poeta chiaramente ed assolutamente esclude. Ciò posto, la maggiore o minore larghezza dell'argine riman fuor di questione. È da veder piuttosto se l'argine percorso da' due poeti fosse veramente il sinistro, come crede il dr. Prompt.

Vergilio, per gettar giú per l'abisso la corda che aggruppata e ravvolta Dante le avea porta, si volse in ver lo destro lato, dalla parte, cioè, donde dovea salire la sozza imagine di froda.... Vicino al fin de' passeggiati marmi, e dalla qual parte dovettero i poeti scendere la testa dell'argine e fare i dieci passi in su lo stremo della calda arena. Ora questi dieci passi sarebbero stati impossibili nelle condizioni poste dal Prompt, perché scendendo a destra l'argine sinistro si va, anziché sullo stremo interno della landa infuocata, nel fiumicello, e precisamente colà dove il fiumicello s'avvia a inabissarsi. E poi che Dante espressamente ed esplicitamente ci avverte di aver dato quei passi in sullo stremo a fine di ben cessar la rena e la fiammella, qual utilità avrebbe avuta una tal manovra se si sa bene, ancora da Dante, che il fummo del ruscel di sopra aduggia Si che dal fuoco salva l'acqua e gli argini?

Vuole inoltre il dottor Prompt che gli usurai scorti dal poeta fossero alla sinistra del sinistro argine di Flegetonte: e questo argine stima largo dieci passi all'incirca, e alto, tutto al piú, un metro. Ma anche qui egli lavora un po' di fantasia, perché il poeta nulla ci precisa in proposito, limitandosi a dire che quegli argini non erano né si alti né si grossi come quelli delle Fiandre e del Padovano: potevan esser dunque alti anche due metri e piú, o solamente una spanna; pur che ser Brunetto potesse arrivare a prender Dante per lo lembo. Fatto sta che il poeta, stando sull'argine, non vede che alla sua sinistra vi è gente seduta in su l'arena. Secondo il dr. Prompt per vedere questa gente bisogna anzi tutto che Dante e Vergilio non solo se ne allontanino di piú che dieci passi, ma che discendano anche dalla parte opposta dell'argine (a destra) dove il fummo del ruscello aduggia: allora soltanto, tra questo fumo, ad una

distanza per lo meno doppia e a traverso a l'argine interposto e pocanzi dismontato, si riesce a vedere gli usurai dalla parte opposta dell' argine e seduti su l'arena. Ma a che pro è dunque disceso Dante a destra con Vergilio, per recarsi da Gerione? Non poteva il maestro, avanti di scender dall' argine, dire al discepolo suo acciò che tutta piena Esperienza d'esto giron porti.... va e vedi la lor mena? Ma, a senno del dr. Prompt, Dante deve vedere gli usurai da un punto donde è quasi impossibile vederli, sí che, per bene osservarli, deve tornare indietro e quindi rimontar l'argine, attraversarlo, discendere dall' altra parte e camminare sullo stremo. Ma Dante, d'ordinario cosí esatto ed esplicito, dove mai dice questo? Asserisce il Prompt che la frase un po' più oltre vuol dire appunto a distanza un po' maggiore sia a destra, sia a sinistra. Ma quando il poeta scrive: Però scendemmo alla destra mammella chi può aver il diritto d'interpretare la parola oltre per a distanza un po' maggiore a sinistra come l'egregio dr. Prompt pretende? La parola oltre, posta avverbialmente, sta all'ultra dei latini: e situa un soggetto al di là del confine segnato. Nel passo dantesco la parola oltre situa gli usurai (soggetto) in un luogo che è fuori del termine segnato da Gerione, nella direzione già accennata dal poeta. Ora, per giungere fino a costui, i due poeti, insieme, volgono a destra e fanno dieci passi: quindi Vergilio si ferma e manda il discepolo a veder la mena dagli usurai, gente che Dante avea già veduta un poco più avanti a lui in su l'arena, seder propinqua al luogo scemo.

Ma, dice il Prompt, non vi ricordate dunque che Dante scorge, tra gli usurai, prima i due fiorentini, poi quel della scrofa, il quale gli dice che il suo vicin Vitaliano avrà luogo di pena al suo sinistro fianco? E se cosí è, non intendete che alla sinistra del padovano dev'essere un posto vuoto, mentre che alla sua destra Vitaliano non capirebbe essendoci già i due fiorentini? Se mettete, come fa l'Agnelli, gli usurai sulla ripa destra di Flegetonte, e anche Dante su quella ripa, il poeta trova dapprima quel de' Gianfigliazzi e quello degli Ubriachi, e, accanto ad essi, alla loro man destra, lo Scrovigni, che dando cosí la sinistra a' fiorentini non può attendere dal sinistro fianco l'anima rea di Vitaliano. Cosí, presso a poco, il Prompt: il quale non ha pensato, se non mi inganno, che tutto il suo ragionamento cade dove si leggano con attenzione le precise parole del poeta. Egli dice, (non sarà male riportarne qui le terzine),

Poi che nel viso a certi gli occhi porsi,
ne' quali il doloroso foco casca
non ne conobbi alcun, ma io m'accorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca
che avea certo colore e certo segno,

e quindi par che il loro occhio si pasca.
E com'io riguardando tra lor vegno,

in una borsa gialla vidi azzurro,
che d'un leone avea fascia e contegno.
Poi procedendo di mio sguardo il curro
vidine un'altra come sangue rossa
mostrare un'oca bianca piú che burro.
Ed un che d'una azzurra scrofa e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco
mi disse: Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va: e perché se' vivo anco
sappi che il mio vicin Vitaliano

sederà qui dal mio sinistro fianco.

Ora io domando: da quali parole di questo passo si può seriamente intendere che gli usurai dannati a ricevere il doloroso fuoco, e, particolarmente, i due fiorentini e il padovano stessero stretti l'uno accanto all'altro come gente pigiata in un omnibus? Dovrebbe sembrare invece il contrario, se Dante li vede uno ad uno, ed anzi se per bene scorgerli deve proceder di suo sguardo il curro. Perché dunque tra i fiorentini e lo Scrovigno non poteva essere il luogo serbato a Vitaliano?

Roma, novembre, 1894.

IL DIRETTOre.

RIVISTA CRITICA E BIBLIOGRAFICA

RECENSIONI

Giacomo Sichirollo.

L'Allighieri ed il Manzoni accusati di determinismo: conferenza tenuta al

liceo Benedetto Marcello in Venezia. Rovigo, tip. Vianello, 1893.

Il prof. Sichirollo, onore e lustro della città di Rovigo, nella sua conferenza spezza una lancia a favore dell' Alighieri scagionandolo dell'accusa di determinista mossagli dal pur chiarissimo professore e valente letterato Francesco D'Ovidio nella sua opera Determinismo e linguistica p. I. Sebbene l'Alighieri nel XVIII del Purg., parlando della libertà d'arbitrio, abbia lasciato scritto che si accorsero di questa innata libertate Color che ragionando andaro al fondo tuttavia lo Schopenhauer (Essai sur le libre arbitre Paris, 1892 pagg. 30, 120, 121, ed. 5a,) non tralasciò di scrivere che il credere all'attestazione della coscienza, come a prova che noi siam liberi, è l'inganno di spiriti senza educazione filosofica! e che pensatori profondi negano il libero arbitrio, mentre i superficiali, sia pur d'accordo colla grande maggioranza degli uomini, lo affermano! Non per niente il sagace Gaetano Negri positivista (Segni dei tempi: profili e bozzetti letterari, Milano, 1893) scrive che il nostro secolo si chiude lasciando in eredità ai viventi, come ultimo prodotto del suo immenso lavoro..., la sensazione del capogiro! E proprio dal capogiro si sente preso chiunque consideri la ridda di tante idee confuse, in ogni ramo dell'arte, della politica e della scienza, turbinanti su questa fin de siècle.

Il volere si determina in noi per qualche motivo: altrimenti la volontà non sarebbe piú un appetito razionale. I motivi del volere altri son piú forti, altri piú deboli: e, quindi, la volontà deve scegliere fra essi quelli che sugli altri s'avvantaggiano. Dunque la volontà è determinata da motivi, il motivo prevalente ne strappa l'atto per necessità, la volontà dunque non dispone di sé, non è libera; ecco in breve la teoria dei deterministi. All'incontro, i motivi determinanti sono in tutto il procedimento della deliberazione soggetti alla volontà, la quale alla mente, che glieli presenta, impone di considerarne i varii aspetti, discuterli, giudicarli e trovar quelli che sono piú eleggibili, finché la volontà stessa fissa questo lavorio deliberativo in quell'ultimo giudizio, che definitivamente sceglie per iscorta del suo operare, e che, appunto per questo, è detto ultimo giudizio poetico. In tale connubio del motivo col volere si avvera la libertà d'arbitrio. Per quanti conoscono le opere dell'Alighieri nelle quali egli si mostra cosí profondamente convinto della libertà di arbitrio tanto da cantare (Par., V, 19) che:

Lo maggior don, che Dio per sua larghezza
fésse creando, ed alla sua bontate

piú conformato, e quel ch'ei piú apprezza,

fu della volontà la libertate,

di che le creature intelligenti,

e tutte e sole furo e son dotate,

e da chiamarla altrove (Purg., XIII, 73) nobile virtú, sarà cagione di meraviglia il vedere come e in qual modo si possa accusare il sommo poeta di fatalismo o, col moderno vocabolo, di determinismo in contraddizione con sé stesso e con tutto il suo filosofico sistema. Eppure il chia

rissimo prof. Francesco d'Ovidio, nella sua citata opera credette cogliere in fallo (presunzione perdonabilċ in sí valente scrittore) il divino poeta laddove nel IV del Paradiso si esprime, che

Intra due cibi, distanti e moventi

d'un modo, prima si morría di fame

che liber' uom l'un si recasse ai denti.

Secondo noi, il poeta, con tali versi e con quelli che seguono a questo passo, non riesce a dire che egli poi si sarebbe necessariamente determinato a chiedere ragione a Beatrice dell'uno piuttosto che dell'altro dei due dubbi che egualmente, cioè d'un modo, lo tenevano sospinto, ma che per allora era necessario solamente il suo silenzio, necessaria la sua indecisione, appunto fino a che la volontà sua deliberando non avesse liberamente aderito ad esporre prima l'una e pi l'altra delle due quistioni che egualmente pontavano (per esprimermi colle stesse parole del poeta) nel suo velle. Tanto è ciò vero, che egli dice che per tale sua indecisione, appuuto perché necessaria, egli non era degno né di lode né di biasimo: mentre di biasimo sarebbe poi stato degno se avesse scelto a trattar per prima, delle due questioni, quella che per la sua minore importanza avrebbe meritato il secondo posto. Quale delle due quistioni, che lo tenevano in bilico, fosse prevalente all'altra egli non lo potea subitamente vedere, perché, è pur vero, come altrove nel Purgatorio, (XXII, 28), che più volte appaion cose

che danno a dubitar falsa matera

per le vere ragion che sono ascose.

Finché la volontà prima di determinarsi liberamente, indaga e cerca, finché le scopre, le vere ragioni del suo dubbio, si mantiene necessariamente perplessa e indecisa. Anche qui dunque il poeta è conseguente a sé stesso nel ripeter che non v'è ragione di merito o demerito ove manca la libertà del volere, come avea già espresso nel XVI del Purgatorio quando da Marco Lombardo ei si fa dire che se in noi movesse tutto da necessità, sarebbe in noi distrutto il libero arbitrio, e non sarebbe giustizia per ben letizia e per male aver lutto, appunto perché la necessità Merto di lode o di biasmo non cape. Anche un grande ingegno come il D'Ovidio può cadere in abbaglio nelle apparenti contraddizioni dialettiche che devono dirimersi prima che il vero brilli alla mente come stella scintillante nel cielo.

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Il prof. Giacomo Sichirollo, filosofo veramente sagace e profondo, di fronte al passo controverso ben lungi dal cadere in equivoco e dal ritenere che il poeta, sia pure inavvertitamente, contraddica a sé stesso, dimostra con ampiezza di ragionamento e vastità di erudizione come qui il poeta novellamente confermi come all' uomo in terra, nelle sue diuturne battaglie, sia sempre concesso lume a bene ed a malizia, e libero voler; come innata sia nell' uomo la virtú che consiglia e come in tutte le sue deliberazioni o determinazioni ei dell'assenso debba tener la soglia. Il ragionamento del Sichirollo snebbia l'intelletto da qualsiasi errore e per la sua limpidezza ci richiama i bei versi (Purg., XVIII, 16-18);

Drizza, disse, ver me l'acute luci

dell'intelletto, e fieti manifesto
l'error dei ciechi che si fanno duci.

Avendo il D'Ovidio accusato poi di determinismo anche il Manzoni per quanto nel capitolo XXVI dei Promessi sposi Perpetua dice di don Abbondio al cardinale, il Sichirollo scagiona da tale accusa anche lo scrittore lombardo, sebbene trovi troppo poveri gli argomenti sui quali l'accusa stessa si fonda. Argomenti poveri e che per ciò solo che sono esposti da uno scrittore giustamente in grido, vanno confutati, perché potrebbero altrimenti acquistare un' apparente importanza. Lodevole invero tale concetto, che dovrebbe esser seguito da molti, quello cioè di confutare e tosto e con tanta maggior cura gli errori, siano pur lievi, quanto più alta è la fama di coloro dai quali partono.

Cavarzere, novembre 1894.

SILVIO SCAETTA.

BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO

Alighieri Dante.

La divina Commedia di Dante Alighieri, con commenti secondo la scolastica del p. Gioacchino Berthier. Vol. I, fasc. 1-8. Friburgo, (Svizzera), libr. dell' Università editr., (stamp. dell' Oeuvre de st. Paul), 1892-1894, in-4o, fig., di pagg. XVI-304.

In corso di publicazione.

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Bartoli Adolfo. Origini della letteratura italiana. (In Gli albori della vita italiana. lano, Treves, 1890-91, vol. III).

Mi

Dalla credulità del medioevo derivano i primi frutti delle letterature romanze. Nella Francia centrale e settentrionale si forma, nel secolo VII, un ciclo di leggende epiche d'amore e d'avventura, intanto che nella meridionale sorgono i trovatori; dei quali il Bartoli ci delinea in questo studio le maggiori figure. Per essi, la letteratura provenzale e la francese si svolsero prima d'ogni altra; in Italia, invece, per l'influenza del nome di Roma, alla quale ogni città ricongiunge l'origine propria, la lingua letteraria seguitava ad essere latina, staccarsi dalla quale sembrava un perder la seconda volta la patria. L'autore accenna che fosse sventura per noi la poca mistione del sangue germanico che avrebbe potuto ricondurci a un'infanzia poetica rinnovatrice. Noi dominava la realtà della storia di Roma, sfatandoci le leggende romanzesche, e questo, e il non avere un eroe nazionale e il nostro incredulo praticismo furon le cause prime onde avemmo letteratura sí tardi. Quand' ecco fuggiaschi dalla Provenza devastata, frementi vendetta, si affollano intorno a Federigo II i trovatori. Destano simpatia, e italiani cantano di amore nella loro lingua e coi loro concetti. Ciò diè impulso ad una lirica nostra, ma fredda e tutta giuochi di parole: laddove altri in Sicilia e nel mezzogiorno d'Italia, porgendo orecchio alla natura, canta una passione sensuale, ma vera. Nel settentrione della penisola la poesia invece è piuttosto narrativa, esemplata sui trovèri, od è morale e allegorica. Vengono qui presi in esame Giacomino di Verona e Bonvesin di Riva. Nel centro d' Italia l'inno religioso latino passa al volgare, specie nell' Umbria; in Toscana fiorisce una schiera di poeti moraleggianti e allegorici e un gruppo di rimatori scialacquatori e satirici. Il secolo XIII declina e Firenze è la città d'Europa piú denaresca e piú arguta, piú democratica e piú gentile. In mezzo ad essa nasce Dante sdegnoso e passionato, innamorato dell'arte e delle sublimi bellezze che il suo pensiero vede. Ed è tra i primi che muovono una lirica armoniosa e diafana, per la quale si canta il rinnovarsi delle anime al passare della donna angelicata. Ed all' arte d'Italia il suo destino è segnato. Cfr. Arch. stor. ital., serie V, vol. XIII, disp. 2a del 1894. (331)

Barzellotti Giacomo.

-

La filosofia e la scienza nel periodo delle origini. (In Gli albori della vita italiana. Milano, Treves, 1890-91, vol. III).

La tanto detestata notte dell'ignoranza medioevale dura solo fino al secolo XI; comincia allora ad albeggiare la cultura. Aveva tuttavia perdurato sempre, nelle enciclopedie, un barlume di classicità. La Chiesa avea salvato molto del pensiero antico, nelle opere de' suoi padri: parte delle dottrine scientifiche greche continuavano a coltivare gli arabi: covava una gran semenza d'ideale. L'idea religiosa dominava i pensieri e gli ingegni, per ischiatta equilibrati e sereni, e la scolastica le diede una forte disciplina e una larga comprensione. Il Barzellotti qui passa in rassegna realisti e nominalisti, rilevando gli aditi a liberi pensieri che quelle dispute aprivano, il lento immedesimarsi tra scolastica e teologia; san Bonaventura e il quasi metodismo francescano, le alte concezioni di sant' Anselmo e di san Tommaso, le meschine compilazioni di notizie naturali, per venire ai riformatori che sotto apparenze religiose chiedevano innovazioni politiche. Chiude osservando come di tanto moto di studî rimanga oggi un risve

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