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Passiamo ora ai frodolenti-invidiosi. Nel canto XIII del Purgatorio, entrato Dante nel secondo girone è impressionato dal livido color della petraia, e lividi pure vede i manti delle ombre: ed in verità codesta tinta s'adatta assai bene a chi in vita si sparse di livore alla vista dell'altrui letizia. Ma, e di qual colore è tinta la sede dei frodolenti?

Loco è in Inferno detto Malebolge

tutto di pietra e di color ferrigno,
come la cerchia che d'intorno il volge.

Il color ferrigno è palesemente il "color livido,; nel canto XIX il poeta ripete:

Piena la pietra livida di fori.

Che strana combinazione questa eguaglianza di colore! Il nostro poeta che non dice mai, prima, il color dei cerchi superiori e si contenta di chiamarli muti d'ogni luce, ove non è che luca, pieni d'un aer tenebroso, cerchio tetro, ecc.: ora soltanto, che è disceso piú in basso, si ricorda di palesarci la tinta delle bolge che visita, e, non contento di dirlo una volta, lo ripete, e per di piú questo colore è appunto quello che tinge il girone degli invidi nel Purgatorio! Non pare che il poeta abbia proprio voluto cosí richiamar la nostra attenzione alla specie di peccatori che in Malebolge egli tormentava sotto un nome preso ad imprestito dall'etica aristotelica, ma che erano veramente riducibili tutti al peccato fondamentale dell' invidia?

Un'altra osservazione di valore relativo, ma non del tutto trascurabile, è che tra i frodolenti, e precisamente sul principio del c. XXVI, il poeta esce in quella potente invettiva contro Firenze: Godi, Firenze, poiché sei si grande, e tra gli invidiosi del Purgatorio mette in bocca a Guido del Duca quella sfuriata contro tutta val d'Arno, che comincia:.... ma degno Ben è che il nome di tal valle pera; sulla fine d'ambe le quali predice le gravi discordie tra Bianchi e Neri, che, iniziate col podestà Folcieri dei Calboli nel 1302, proseguirono anche di poi a dilaniare la città. E queste due previsioni si potrebbero riattaccare al concetto di Firenze simboleggiata in una lonza e rovinata dall'invidia fraudolenta dei vari capi dei grandi casati fiorentini. Ne deriverebbe cosí un ravvicinamento anche maggiore tra il girone degli invidiosi ed il complesso cerchio dei frodolenti.

Ed entriamo finalmente ora in questo, ed esaminiamolo partitamente. Per penetrarci Dante deve varcare sulle spalle di Gerione la distanza che ne lo separa; e per chiamare Gerione, Virgilio usa della corda ond'era cinto il poeta.

Io aveva una corda intorno cinta.

e con essa pensai alcuna volta

prender la lonza alla pelle dipinta,

Dunque, se con quella corda medesima il duce fa sorgere dal baratro Gerione, mi par naturale concludere che la lonza e Gerione signifiIchino una cosa soia. La lonza nel significato morale è l'invidia: tale infatti appare dalle parole di Ciacco:

Superbia, invidia, ed avarizia sono

le tre faville ch'hanno i cori accesi,

e tale anche dalle parole di Brunetto: Gente avara invidiosa e superba, dove l'avarizia si riferisce certo alla lupa, la superbia al leone, l'invidia alla lonza del c. I. Gerione dunque, che è il demonio sopraintendente a Malebolge, rappresenterà l'invidia, ed i frodolenti saranno invidiosi.

Non entro nella questione arduissima di quel che possa essere la corda ricingente il poeta; solo mi sembra potersi accettare la spiegazione che la dice raffigurante lealtà, generosità, ecc., colla quale si attira il vizio opposto; e quel raggruppata ed avvolta, fatto materiale, mi pare che possa corrispondere ad una fiducia cieca, nel campo morale. Essa attirerebbe Gerione, lieto, come Flegias, dell'inganno e dell'acquisto d'un'anima.

I primi dannati che ci si mostrano in Malebolge sono i seduttori per sé o per altri. Per vero, non so proprio come ridurli ad invidiosi, ma certo che a superbi è ancor più difficile, e, del resto, io ricorro subito all'egida che mi prestano le parole già citate del D'Ovidio a proposito della non chiara derivazione di certe colpe da un fondamentale peccato. Quanto agli adulatori, è abbastanza visibile la lor derivazione dal grande peccato d'invidia; di più noi possiamo anche raffrontarli coi cortigiani di Federico II, contro i quali Pier della Vigna tuona la terzina famosa :

La meretrice che mai dall'ospizio

di Cesare non torse gli occhi putti,
morte comune e delle corti vizio,

e coi cortigiani di Raimondo Berengario conte di Provenza, invidiosi e calunniatori del buon Romeo, de' quali dice Giustiniano:

Ma i Provenzali che fer contro lui

non hanno riso, e però mal cammina
qual si fa danno del ben far d'altrui.

(Parad., VI, 130).

Seguono i simoniaci, gl'indovini, i barattieri, ne' quali è assolutamente escluso il carattere di superbi, e ne' quali, per verità, il carattere d'invidia rimane sopraffatto e coperto dalla sua manifestazione di frode. Ciò specialmente si deve dire delle prime due categorie, nella

1 Concetto semplicissimo ed ammirabile: l'invidia (Gerione) tanto nemica a Dio, porta, varcando il burrato, alla pena coloro che la nutrirono in vita,

terza invece il peccato capitale ricompare velato e profondo: i barattieri ritornano un po' ai cortigiani; sono inviscati nella pegola come essi inviscarono gli altri in vita colle loro vilissime operazioni. E si potrebbe anche aggiungere che, come da ogni viltà non va mai scompagnata l'invidia, specie ove si tratti di far denaro, e le lingue loro non si sentirono mai stanche di lacerarsi a vicenda, cosí ora all'inferno sono lacerati dai raffi dei demoni, allegri tormentatori di questa specie d'invidiosi.

Negli ipocriti, il peccato capitale ci si mostra chiaro e palese. Quando i due frati hanno raggiunto i pellegrini, dice Dante:

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Versi questi, ove non son già io il primo ad interpretare quell'occhio bieco non solo come torto, ma eziandío come invido; ove ed è chiaro che gli ultimi due non esprimono semplicemente curiosità. Di piú Caifas inchiodato al suolo è (come ben dimostrò il prof. Scherillo, in una delle sue tanto geniali lezioni alla nostra Accademia) precisamente la figura opposta a Gesú crocifisso: la massima invidia contrapposta alla maggior carità.

Seguono i ladri. Anche qui il carattere della frode ricopre quasi completamente il fondamento suo, la sua radice, l'invidia; però questa traspare lucidissima, rapida, quasi un lampo, nella maligna predizione di Vanni Fucci, terminata col verso: E detto l'ho perché doler ten debbia, che riassume e definisce chiarissimamente l'invidia.

I malvagi consiglieri e i seminatori di discordie si riconducono facilmente al peccato capitale, base di lor frodi. Più difficile invece è far questo per i falsatori; però dalle parole di maestro Adamo:

O voi che senza alcuna pena siete

(e non so io perché) nel mondo gramo,

trapela, abbastanza evidentemente, l'invidia, che prorompe poi terribile contro i due conti da Romena.

Giungiamo cosí all'orlo del pozzo dei traditori incoronato dai giganti. Riguardo a costoro, io mi attengo pienamente alla spiegazione data dal prof. Scherillo nel suo giá citato lavoro. I giganti non sarebbero una sorta di frodolenti, bensí quasi gli aiutanti di Lucifero, i suoi paladini. Come Lucifero osò assalire la divinità che l'aveva creato, cosí essi osarono combattere gli Dei: come superbo e invidioso Lucifero, cosí superbi e invidiosi i giganti; e nel primo e nei secondi si manifesterebbero i due peccati capitali, fondamento e radice di tutti gli

altri. Ma a questo mi arresterei: i traditori sono una classe dei frodolenti-invidiosi, dunque anche in essi non ci vedrei il carattere di superbia.

Invero, perché si sarebbero detti superbi? Perché essi son posti tra Lucifero superbo, ed i giganti superbi. Questa a me non sembra una ragione bastevole. Ad ogni modo, addentrandoci ora nella cupa ghiacciaia, ricerchiamovi i puniti per quel peccato.

La prima suddivisione è la Caina. In questa non so proprio come possa trovar luogo la superbia; certo, Caino uccise il fratello per semplice invidia, e nel c. XIV del Purgatorio, tra gli esempi d'invidia punita, si pronunciano appunto le parole dette da Caino dopo la morte d'Abele: Anciderammi qualunque mi prende.

Nell'Antenora e nella Tolomea, spiccano le figure di Bocca degli Abati, del conte Ugolino, e dell'arcivescovo Ruggieri. Bocca, nominato da un suo vicino, mentre per quanto Dante lo schiomi non vuol dir il suo nome, si vendica col nominar al poeta una quantità di suoi vicini. Qui non è superbia; c'entra invece (e quanto!) l'invidia. Let parole dell' infamato Ugolino devono fruttare infamia al suo nemico, per effetto de' ma' pensieri del quale fu preso e morto. L'arcivescovo, nel sogno del prigioniero, perseguita il lupo e i lupicini con cagne magre studiose e conte, che coll'acute zanne ne fendono i fianchi. E che cosa possono essere queste cagne se non i tradimenti e le invidiose calunnie? In particolar modo poi nella Tolomea, il freddo che raggela le lagrime nel coppo sotto alle ciglia, sí che il dolore ritorna in entro a far crescer l'ambascia, non porterebbe un effetto simile a quello dell' invidia nascosta, che sempre si rode, e tanto più quanto meno si può sfogare?

Nella Giudecca troviamo Giuda, Cassio e Bruto: ma certo né Giuda vendé Cristo per superbia, né certamente per superbia, nel concetto di Dante, avrebber potuto uccider Cesare i due suicidi di Filippi.

Giungiamo finalmente a Lucifero. Questi è invidioso e superbo, le sue ali sono vexilla regis Inferni: in lui tutti i peccati s'assommano, da lui ogni lutto procede. Affondato nella ghiaccia, è il primo peccatore, e il primo tormentatore.

Pervenuto cosí alla fine del mio lavoro, senza pretendere d'aver modificato d'un tratto la classificazione dei peccati e dei peccatori dell'inferno dantesco, spero d'esser riuscito a provare che le categorie aristoteliche dei violenti e dei frodolenti siano un manto ricoprente le due ecclesiastiche, tessuto per identificare i principii del Saggio e della Chiesa. Qua e là predominano talvolta i primi, talvolta i secondi: ma se la sovrapposizione non è perfetta, ciò per certo si deve alla grande diversità delle due classificazioni.

Milano, novembre 1894.

AUSONIO DOBELLI,

LA RUINA DEL VENTO

FRA I LUSSURIOSI

Lettera al conte G. L. PASSERINI

Egregio sig. Direttore,

Nei quaderni ottavo e decimo del primo anno di questo giornale, il prof. G. Franciosi pubblicò un saggio di un suo pregevole Comento alla divina Commedia. In tal saggio, che fu di tutto il canto della Francesca da Rimini, al verso 34 egli diede una variante da lui riscontrata in ben dieci codici, parecchi dei quali di buona lezione; e per essa quel verso, che ora si legge: Quando giungon davanti la ruina,

si muterebbe in:

Quando giungon de' venti a la ruina.

Questa lezione è certo migliore della volgare; ma neanch'essa mi par che dia un senso pieno; perocché fa nascere dei dubbii ai quali in niun modo si può dare una risposta soddisfacente. Cosí potrebbesi domandare: - Come avviene questa ruina di venti? e dove è da intendere che Dante probabilmente l'abbia collocata? Il Franciosi parla di una foce del cerchio, foce donde pare che il vento abbia a sboccare; ma che cosa voglia significare di cerchio, e sia pure infernale, non credo che né io né altri giungerà mai a capirlo; e se il facondo professore intende che là vi sia una specie di gigantesco androne o gola dove il vento che vien dal di fuori s'inforri, per quindi irrompere con premuta violenza nello spazzo del secondo cerchio; io potrei fargli osservare che Dante non fa pur una minima allusione ad esso, né dal modo com'egli descrive il suo viaggio può argomentarsi ch'e' passi di cerchio in cerchio e di girone in girone per tante aperture, cosí come nelle nostre case si va da stanza a stanza; o, meglio, come dai portoni delle nostre vie, attraverso l'androne si perviene nel cortile.

Gli è vero che il poeta stesso qui paia smentirmi, avendo alcuna volta fatto menzione di foci di cerchi. A mo' d'esempio, Pier della Vigna dice dell'anima del suicida che

Minos la manda alla settima foce; 1

1 Inf., XIII,

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