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Dante, nel quarto trattato del Convito cap. VII, a spiegazione del verso "E tocca tal ch'è morto e va per terra,,, scrive: “È da sapere che veramente morto il malvagio uomo dire si può.... Vivere nell'uomo è ragione usare. Dunque se vivere è l'essere dell'uomo; e cosí da quell'uso partire è partire da essere e cosí è essere morto. E non si parte dall'uso della ragione chi non ragiona il fine della sua vita?,, San Francesco, tra i versetti del Cantico del Sole, ha questi:

Laudato si' per nostra sora morte corporale,
dalla quale nullo homo vivente pò skappare;
guai a quei ke more in peccato mortale,

beati que' ke se trovano in le tue sante volontate

ka la morte secunda non li farà male.

Ciò è d'accordo con l'Apocalisse (II, 11) che dice: Qui vicerit non laedetur morte secunda e col passo di san Paolino che riporta il Tommasèo: "Prima mors est naturae animantium dissolutio: secunda mors est aeterni doloris perpessie. „ E piú esplicitamente in De Civitate Dei (lib. XIII, cap. XII) sant'Agostino scrive: "Quoniam prima (mors) constat ex duabus: una animae, altera corporis: ut fit prima totius hominis mors, cum anima sine Deo et sine corpore ad tempus poenas luit: secunda vero ubi anima sine Deo cum corpore poenas aeternas luit.

Dal che si ricava che la prima morte è vivere in peccato, cioè senza Dio, e la seconda rispetto ai peccatori è proprio la morte corporale per la quale si diviene dannati.1 Laonde

i versi

Vedrai gli antichi spiriti, dolenti

che la seconda morte ciascun grida

si risolvono in: vedrai gli antichi spiriti che si dolgono che ciascun peccatore aneli la seconda morte, o meglio che ciascuno si ostini a voler morire ribellante alla legge di

Quello imperador che lassú regna.

Se alla nota terzina si dà il vero senso che io ho esposto, quanta magnanimità acquistano gli antichi spiriti! Dante se non li avesse ritenuti compassionevoli verso i ribellanti non avrebbe potuto prendere tanta cura di loro fin dal primo accenno di Virgilio a cui dice:

Si ch'io vegga la porta di san Pietro

e color che tu fai cotanto mesti.

Tutto nella Commedia procede con perfetta regolarità e con un crescendo esplicativo che talora desta meraviglia. Il poeta è conforme sempre a quanto ei stesso intende nel verso famoso

Poca favilla gran fiamma seconda.

Dapprima, come ho detto, sente inclinazione per gli spiriti antichi, e poi, saputo chi stesse nel limbo e che senza speme vi si viveva in desio, prova dolore ed esclama :

Gran duol mi prese al cor quando lo intesi,
perocché gente di molto valore

conobbi che in quel limbo eran sospesi.

E finalmente Dante, pieno d'orgoglio, scrive:

Roma, gennaio 1894.

Colà diritto sopra il verde smalto
mi fur mostrati gli spiriti magni

che nel vederli in me stesso m'esalto.

COSTANTINO CARBONI.

santo ne grida mercede.

All'obiezione, nulla per sé stessa, che Dante non usi l'indicativo pel soggiuntivo, oppongo i versi: Ell'è quanto di ben può far natura. Io non so ben ridir come v'entrai.

1 Francesco Pasqualigo, profondo conoscitore di Dante, cosí scriveva: "Per Dante la prima morte è l'essere in vita senza Dio e la seconda è l'essere dannato.„ Alighieri, rivista di cose dantesche, anno I, pag. 111.

COMMENTO

SUI VERSI 82-87 DEL I CANTO DELL'" INFERNO

O degli altri poeti onore e lume,

vaglianmi 'l lungo studio e 'l grande amore che m'ha fatto cercar lo tuo volume. Tu se' lo mio maestro e lo mio autore: tu se' solo colui, da cu' io tolsi

lo bello stile che m'ha fatto onore.

Fra i non pochi luoghi della divina Commedia che hanno da essere messi nella loro vera luce, è certamente il presente, il quale per alcune difficoltà, da esso opposte, sembrerebbe purtroppo rimanere dovesse tuttora un enigma insoluto. I commentatori in generale sono concordi nel dare su per giú la medesima spiegazione, dichiarando in quanto alla seconda delle due suesposte terzine, che Dante volle alludere alle sue opere scritte in poesia volgare, come quelle che appunto gli avevano fatto onore. Però, nel nominarle, dissentono e recano giudizi contrari. Quindi vi sono alcuni i quali (e sono i più antichi) asseverano che il poeta intese accennare al suo poema, la divina Commedia, e in particolar modo alla cantica dell'Inferno. Ma, siccome tale accenno è in principio di quell'opera, e d'altronde esso riguarda cosa passata e non futura, perché se ne comprenda la ragione, affermano che il detto poeta usò un solecismo,1. Altri invece, ritenendo la cosa come sta, espongono che, poiché nella menzionata terzina si parla di tempo già trascorso, si ha da ricercare in questo quali furono le opere da Dante composte (avanti cioé della divina Commedia). E, sapendo che egli aveva già scritto vari sonetti e canzoni, confermano essere appunto queste le poesie che gli avevano fatto riscuotere meritati plausi. Cotali commentatori sono ai primi posteriori, e crediamo che quasi tutti quelli del nostro secolo sieno stati del medesimo parere di essi 2. V'ha poi chi, prendendo forse le mosse dal p. Lombardi, il quale in nota ai versi che sopra nel suo conosciutissimo commento alla divina Commedia, aveva dichiarato: "Oltre che Dante prima di questo poema aveva composto la Vita nuova ed altre rime italiane, egli attendeva a scrivere in versi latini questo medesimo suo poema v'ha chi, diciamo, ne tolse argomento di una nuova esposizione e riconobbe che, se quel dotto scrittore conciliando la sua idea delle poesie latine con quella solita delle poesie volgari, sembrò si accostasse sempre piú al vero, non però da un lato gliela approvarono perché da nessuna testimonianza certa almeno resulta che Dante, prima della divina Coinmedia, avesse posto mano a qualche poesia dettata in latino. Quella nuova esposizione adunque dimostra che, nei soliti versi parlandosi di Virgilio poeta latino, Dante non poteva aver tolto da lui altro che lo bello stile usato da lui medesimo nelle sue opere (Buccolica, Georgiche ed Eneide, che compongono l'insieme del suo "volume,,), ch'è quanto dire la lingua laziale. Quindi, confondendosi lingua con stile, cose affatto diverse, si pensò che una delle opere da Dante dettate in quell'idioma con molta probabilità prima della Commedia dovette essere il De Monarchia, e, a questa andando la mente, la si giudicò appunto l'opera cui egli intese alludere, quale prodotto di lungo studio

Il Boccaccio nel suo noto Comento sopra la Commedia, ecc., pel primo espone: ".... Lo bello stile, del trattato e massimamente dello Inferno che m'ha fatto onore, cioè farà; e pon qui il preterito per lo futuro facendo solecismo (cfr. op. cit., lez. IV). Come lui pensarono l'Imolese, il Vellutello, il Daniello ed altri ancora.

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2 Cir. il Lombardi, il Biagioli, il Cesari, il Fraticelli, ecc.

e di grande amore. A confermarlo sta per tutti il vivente ch. G. A. Scartazzini, il quale nel suo commento al terzetto so pra riferito non dubita di asserire: "Lo bello stile che aveva fatto onore a Dante non solo prima che scrivesse la Commedia, anzi avanti il 1300, epoca fittizia del poema, è principalmente quello del libro De Monarchia, scritto verso la fine del secolo decimoterzo „ 1 Però, senza volere tener conto di quest'ultima asserzione niente affatto fondata, rileviamo che il medesimo commentatore il quale nel 1874 era di quel parere, dopo piú maturati studi lo mutava nel 1890 e, riconoscendone la falsità, dipoi con maggior ponderatezza esponeva: "Nell'Inferno (I. 85) Dante ricorda il bello stile da lui tolto da Virgilio e che già gli aveva fatto onore. Ma che cosa aveva egli pubblicato nel 1300, epoca fittizia della visione? Le liriche e la Vita Nuova. Ma tutta questa roba è dettata in volgare. Non poteva dunque Dante dire di aver tolto da Virgilio, poeta latino, il suo bello stile volgare. Dunque allude ad un lavoro scritto in lingua latina, e questo lavoro non può essere che il De Monarchia. Questo argomento non regge. Lo bello stile è evidentemente identico col dolce stil novo, Purg., XXIV, 57, sul quale non può cadere un dubbio al mondo che sia lo stile delle liriche. L'argomento confonde lingua e stile, che sono due cose ben diverse. E poi, quando mai la Monarchia vita sua durante fece onore a Dante? Nessuno ne ha mai saputo nulla. L'allusione al De Mon. nel passo invocato non c'è, 2 Ciò sta in risposta di coloro che vollero sostenere “che il De Monarchia fosse scritto innanzi l'esilio di Dante.,, Da quest'altro ragionamento dello Scartazzini si desume adunque, e giustamente, che non può essere il De Monarchia, opera in prosa, dettato sullo stile di uno dei poemi virgiliani, sebbene l'uno e gli altri sieno in latino, e che coloro i quali sostennero tale opinione evidentemente mostrarono di confondere la lingua collo stile come se fossero le medesime cose. Da esso si desume inoltre che il medesimo Scartazzini è d'avviso di ritornare alla solita interpretazione, che cioè sono i sonetti e le canzoni volgari, composte prima della Commedia, quelle a cui Dante allude negli enunciati versi. A questo fu tratto, non v'ha dubbio, dalla circostanza dell'identità (cosí egli dichiara) che v' ha fra il bello stile della solita terzina col dolce stil novo, cui ricordasi nel XXIV del Purgatorio. Ma, come l'una e l'altre espressioni, le quali si trovano in condizioni affatto diverse e sia per essere la prima in relazione diretta con un poeta latino e la seconda invece con vari poeti che rimarono in volgare, e sia anco per la nessuna somiglianza loro se non apparente, come l'una e l'altra espressione, diciamo, non abbiano alcuna affinità, sta a dimostrarlo eziandio quanto segue. Nel citato c. XXIV del Purgatorio, Buonagiunta Urbiciani, poeta lucchese, incontra Dante e, come si sa, fra le cose che gli dice gli domanda se per caso siasi imbattuto con colui che fuora trasse le nuove rime ,,, ricordandone appunto il principio di una canzone. Dante (che precisamente era quegli cui alludevasi) risponde invece:

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"

Il terzetto non ha bisogno alcuno di spiegazione perché a tutti n'è noto il contenuto. Come questo è noto altresí che ivi si fa accenno alla nuova poesia erotica svolta in nuovo idioma, che tanta parte fu della letteratura contemporanea dell'Alighieri. Ora, come cotale dolce stil novo abbia alcuna attinenza col bello stile di Virgilio, ripetiamo, non arriviamo a comprendere. Le liriche dantesche, che formano senza dubbio il primo vanto letterario dello scorcio del secolo XIII, hanno un carattere tutto proprio, una spontaneità tutta loro particolare (senza voler dir altro), che bene stanno a dimostrare quanto veri fossero i versi di sopra, i quali ti sé dicendo, più tardi il poeta innestava alla sua Commedia. L'originalità di quelle liriche è anzi tale che fa d'uopo riconoscere che se da un lato l'Alighieri deve l'impulso primo ai poeti pro

1 G. A. Scartazzini, La d. C. riveduta nel testo e commentata, vol. I, pag. 7 n. S7, (ediz. F. A. Brockhaus, Leipzig, 1874).

G. A Scartazzini, op. cit., vol. IV, pag. 371-2.

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venzali per quel che si riferisce al verseggiare amoroso, e ai poeti nostrani a lui anteriori e e contemporanei, per quel che riguarda quella maniera e lo svolgimento di questa in novella lingua, seguendo cosí l'usanza del tempo, dall'altro lato però non fece che sollevarsi su tutti perché, bene avverte il Fraticelli, "Dante meditò di per sé stesso ne' piú incliti autori le leggi della poetica, e primo nel suo secolo conobbe le ragioni della poesia, la quale (come egli afferma) non aveva allora né metodi, né forme, né lingua. Possedendo, prosegue, l'Alighieri un ingegno elevato ed ardito, una mente in sommo grado inventrice, un'anima che fortemente sentiva, poté, come Michelangelo nelle arti sorelle, trovare un nuovo ed un bello cosí sublime, che a ben pochi sarà dato il poter fare altrettanto Quello che, anche soltanto rispetto ai componimenti di cui sopra, possiamo dire di Dante, non tutto possiamo attribuire a Virgilio pure, il quale, sebbene grande artista e grande maestro, non ebbe certo ad incontrare le medesime difficoltà del poeta nostro, il trattare cioè sapientemente gli argomenti amorosi nelle loro piú variate forme, e il trattarli appunto (lo che è prodigioso) in un idioma nuovo che, tuttora pargoleggiante, aveva da esser quindi sotto un insuperabile magisterio prestamente nobilitato ed accresciuto. Cotali cose sono del resto a tutti note, né ci occorre perciò che vi ci intratteniamo sopra. Quello che solo possiamo dire è che l'influenza della musa virgiliana sui piú giovanili lavori di Dante si ha da dire se non nulla, certo minima, come quella che precisamente non poteva corrispondere all'effetto di un "lungo studio, fatto dall'altro poeta sulle opere del priSe non ripetessimo materia ch'è nel dominio comune, sarebbe ora il caso di mostrare che, oltre ad avere l'Alighieri informate le sue liriche alla nuova maniera del tempo suo, non poteva quindi tener gli occhi rivolti a Virgilio il quale, trattando argomenti ben differenti e perciò di altro carattere affatto, quando toccò la dolce nota dell'amore, la fece certo vibrare con somma maestrevolezza, ma seguendo con troppo palese imitazione Teocrito ed Omero. Non è qui adunque che si ha da riconoscere quanto vera sia la chiara confessione che il poeta nostro ci porge per mezzo dei versi che formano l'argomento della presente chiosa: fra poco invece mostreremo a che cosa essa abbia principalmente inteso alludere. Frattanto dichiariamo che per le accennate cose le deduzioni in proposito del ch. Scartazzini e di coloro che furono del medesimo suo parere, non ci persuadono per niente: ond'è d'uopo il ricorrere ad altri giudizi, i quali, è da credersi, saranno piú plausibili per evidenza appunto di prove.

mo.

Quello che asseveriamo in quanto alle liriche, non possiamo però riferire anco alla divina Commedia. Quivi, se in complesso si ha da dire che il poeta, anziché prendere di mira diretta Virgilio s'attenne invece alla sua alta fantasia, elaborata principalmente fra gli studi della natura e degli scrittori che lo precedettero, non però si deve ritenere che non vi sieno piú e piú luoghi i quali ricordino la potente musa virgiliana; onde Dante ebbe in tal caso buona ragione allorquando confessò essere stato il Marone il suo maestro ed il suo autore, per cui appunto se lo era scelto per "guida, facendo il mistico viaggio attraverso i regni del dolore. Come e quanto la Commedia in vari passi ritragga dall'Eneide, non v'è chi nol sappia. Quindi torna inutile, l'enumerare que' passi medesimi; tanto più se si pensi che anco lo stesso concetto fondamentale del poema non fu da Dante concepito se non sotto la diretta influenza del cantore di Enea, sebbene un'enorme differenza corra in ambedue i casi nella descrizione delle sedi oltremondane. Dal che rilevasi adunque essere da una parte ben veri e giusti i versi:

1 P. Fraticelli, Dissertazione sulle poesie lriche di D. A. in prefazione al Canzoniere di D. A. pag. 2 del vol. I delle opere minori dantesche (ediz. Barbéra, Firenze 1861).

* Che del resto possa esservi un certo punto di contatto fra alcuni brani poetici di Virgilio e alcune liriche di Dante, non dubitiamo; anzi ci affrettiamo a notarlo, perché anche il poeta latino avendo toccato degli amori, sebbene altrui, pure se n'è tanto immedesimato da trasfondervi tutta la sua anima affettuosa e gentile. Confrontando infatti l'egloga X della bucolica virgiliana colle canzoni VI, VII, e VIII, fra le altre poesie, del Canzoniere dantesco, troviamo che alcune idee di queste (tanto piú per l'affinità dell'argomento generale) ben richiamano alla memoria le idee piú meste e piú affettuose insieme di quell'egloga medesima (vedi Il Canzo

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Vaglianmi il lungo studio e 'l grande amore

che m'ha fatto cercar lo tuo volume. Tu se lo mio maestro e 'l mio autore; tu se' solo colui da cui io tolsi

lo bello stile che m'ha fatto onore.

I quali, se possono da una parte (ripetiamo) confermare principalmente l'opinione di coloro che già ritennero essere la divina Commedia, cui Dante intese alludere, meritano però ora che qui sieno esposti con altre parole. Infatti con quel "Vaglianmi il lungo studio e 'l grande amore Che m'ha fatto cercar lo tuo volume il poeta vuol significare mi valgano ad ottenere quanto desidero lo studio che per molti anni feci sul tuo volume, o Virgilio, e l'amore che grande avendo per quello, mi spinse appunto a studiarlo. 1 Il verso poi Tu se' lo mio maestro e'l mio autore per quanto a prima giunta sembri chiarissimo, pure merita di essere spiegato. Dante intende mostrare che Virgilio colle sue opere gli fu il principale, ed anzi l'unico, docente, per ben comporre in poesia; principale però nel suo poetare in volgare ed unico (come vedremo) nel suo poetare latinamente. Gli fu autore in quanto quegli gli forni la materia prima per la quale e intorno alla quale sep pe svolgere il suo vasto poema e gli altri suoi lavori in versi. E qui fa a proposito la spiegazione che di quelle parole porse l'erudito G. I. Montanari. Questi adunque espose: ".... Io credo essere fin qui fuggita a tutti la verità di quanto Dante qui intende dire, se pure io non vo errato. Infatto i commentatori pensano soltanto in questi versi (cioè in quello che è sopra e nei due seguenti) racchiudersi una protesta del poeta a Virgilio, al quale dichiara d'aver cercato, cioè studiato, l'Eneide,' e di avere tolto di là lo stile, onde altri gli ha fatto onore. Dubito io fortemente.... che qui tre cose diverse intendesse il poeta. Tu se' lo mio maestro, io sono di credere che suoni: Tu se' colui che mi è stato prima guida agli studi poetici. Tu se' lo mio autore, credo che debba intendersi: Tu sei colui che ha data l'invenzione al mio poema.... Anzi....... non penerei a pensare che Dante avesse quasi voluto dire a Virgilio: Tu sei il mio inventore, cioè l'inventore delle cose che io ho descritte.... Parmi poi che acquisti bellezza dalla grada

niere di Dante raccolto ed illustrato da P. Fraticelli: ediz. Barbéra, Firenze, 1861). A proposito di reminiscenze Virgiliane in Dante notiamo anche quella della canzone che comincia: Donna pietosa e di novella etate (Cfr, la canz. IV del cit. Canzoniere): dove le stanze 3 e 4 ben ci fanno tornare a mente i noti versi di Virgilio: Vox quoque per lucos vulgo esaudita silentes Ingenes, et simulacra modis, etc. (Cfr. Georgica lib, I, v. 476 e segg.), poiché come nelle une la vicina morte di Beatrice è annunziata in visione da voci terribili e da fantasmi paurosi cosí negli altri ricorrono le medesime tetre circostanze concomitanti la morte di Giulio Cesare. Non v'ha dubbio dunque che anche in questo caso non si gusti in Dante il sapore dello stile virgiliano (cfr. pure G. Carducci, Studi letterari, pag. 65-6: ediz. Zanichelli, Bologna, 1893).

Maggiormente poi perché il fece già N. Tommasèo nel suo notissimo commento alla d. C. nella cui edizione milanese del 1854, in prefazione, ebbe a dire: "Ai concetti e alle locuzioni di Dante io soglio spessissimo porre a riscontro i concetti e le locuzioni del suo maestro Virgilio. Tale corrispondenza potrà parere a taluni troppo frequente, e però immaginaria piú di una volta. Io, dopo aver rammentato i molti studi da Dante fatti (come nel Convito egli accenna) sopra Virgilio, e il chiaro suo dire, del bello stile che da solo Virgilio egli tolse, e dell'alta tragedia che e' sapeva tutta quanta a memoria, dirò che, se in uno o in un altro luogo la locuzione virgiliana non pare ch'abbia ispirata la dantesca, fa almeno vedere, come talune di quelle che in Dante paiono licenze o stranezze, egli possa giustificarle con autorevoli esempi„. 1 Non crediamo inutile il dire che alla lezione "vagliami,,, sebbene comune, preferiamo l'altra "vaglianmi, che noi proponiamo, come quella ch'è piú regolare e al tempo stesso di maggior forza. In quanto al "lungo studio „, ben rilevasi aver voluto Dante alludere al lungo tempo speso da lui nello studio delle opere virgiliane, tempo che noi reputiamo maggiore di quello che si crederebbe, trattandosi di un'asserzione posta in principio della divina Commedia, la quale asserzione noi dimostreremo non essere stata là posta se non più tardi. Circa poi alla lezione แ ha la preferiamo all'altra di alcuni commentatori (e sono pochi) che invece pongono "han, per la ragione portata fra gli altri dallo Scartazzini nel suo noto commento alla d. C. (Cfr. op. cit., vol. I, pag. 7, not. 84). Per il "volume, s'ha da intendere non solo l'Eneide di Virgilio come vorrebbero alcuni dei soliti commentatori, ma anche la Buccolica e la Georgica, tutte le quali produzioni formano appunto il volume delle opere poetiche virgiliane, e ciò affermiamo principalmente per il motivo che fra breve esporremo.

n

? Come nella nota precedente mostrammo, non solo l'Eneide, ma anco le altre poesie di Virgilío si hanno da intendere nella spiegazione della parola "volume".

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