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LA "SECONDA MORTE „

Quasi tutti gli interpreti del divino poema intendono per seconda morte la morte dell'anima, l'annichilimento, e spiegano: I dannati invocano, chiedono, desiderano di morire una seconda volta, di rientrare nel nulla.

Su questa interpretazione sollevò lo Scartazzini alcuni dubbi che a me sembrano lecitissimi, giacché non ho mai potuto capire come le anime dell'inferno dantesco possano invocare la loro completa distruzione. Dante non poteva né pensare né dire che i dannati desiderano il loro annientamento, il che di necessità porterebbe con sé la cessazione del tormento: ciò sarebbe contrario al sentimento suo religioso ed al tempo, e contrario ai dogmi tutti della religione cristiana.

Nulla speranza gli conforta mai

non che di posa, ma di minor pena

ha detto il poeta nel canto V. (Inferno, 44-45).

La terribile pena del dannato sta principalmente nella sicurezza della eternità e immutabilità del suo dolore, che non potrà mai essere diminuito, che non dovrà mai, tanto meno, cessare.

F. Cipolla, in un suo articolo pubblicato nel Giorn. storico della letteratura italiana (Vol. XXIII, fascic. 69, p. 330 e segg.), scrive: "Preferirebbero morire anche coll'anima (cfr. III, 46), essere annichilati piuttosto che soffrir tanto. Preferirebbero? certamente; ma essi non possono né debbono preferire nulla alla pena supposta, certi di doverla soffrire per sempre.

Un grande malvagio può desiderare, in vita, la morte dell'anima per paura di ciò che l'attende, un dannato mai. E facilmente per ciò comprendiamo le parole che F. D. Guerrazzi pone in bocca a Malatesta Baglioni morente: "Voglio andare al cospetto di Dio e dirgli: È troppo.... io voglio domandargli la morte dell'anima

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Il verbo gridare in questo verso non significa né invocare né desiderare (è molto dubbio del resto se possa ricevere tali significati), e tanto meno piangere, dolersi. In questo ultimo caso si verrebbe a far dire a Dante: i dolenti si dolgono, piangono; pleonasmi che l'Alighieri non usò mai.

Nel caso nostro parmi si debba dare al verbo gridare un significato ben stabilito che ha ancora, e cioè: proclamare, far noto, manifestare, bandire, ecc.

Cosi nel canto VIII del Purgatorio, 124-125:

1 Assedio di Firenze, cap. XXX.

La fama che la vostra casa onora

grida i signori e grida la contrada:

e il Petrarca, in una delle famose canzoni su gli occhi, quella che comincia:

Perché la vita è breve

usa questo verbo nello stesso senso:

Ma spero che sia intesa

là dov'io bramo e là dov'esser deve

la doglia mia la qual tacendo grido.

Ma che cosa adunque i dannati proclamano, manifestano, bandiscono ? Il valore della locuzione seconda morte ci è anzitutto spiegato dai versetti dell'Apocalisse che lo Scartazzini riporta in nota, e che io citerò in latino. Cap. XX, 14: “Et infernus, et mors missi sunt in stagnum ignis. Haec est mors secunda 97.

Cap. XXI, 8: "Timidis autem, et incredulis, et execratis, et homicidis, et fornicatoribus.... pars illorum erit in stagno ardenti igne, et sulphure: quod est mors secunda ".

Ai quali si può aggiungere anche il versetto 6 del cap. XX, messo dallo Scartazzini: "Beatus, et sanctus, qui habet partem in resurrectione prima: in his secunda mors non habet potestatem, sed erunt sacerdotes Dei, et Christi, et regnabunt cum illo mille annis „.

È chiaro ora che seconda morte è frase biblica e significa nient'altro che dannazione, come la parola vita nelle sacre Scritture significa salvazione. Valga per tutti questo esempio: Matteo VII, 14: "Quam angusta porta, et arcta via est, quae ducit ad vitam, et pauci sunt qui inveniunt eam! Anche la semplice parola morte significò presso i teologhi e presso Dante stesso dannazione.

e nel canto III, 45:

Partiti da cotesti che son morti

Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa
che invidiosi son d'ogni altra sorte;

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i quali versi, con buona pace dello Zingarelli, non parlano punto della vita degli ignavi nel mondo, ma della condizione di questi nell'inferno. E non dicono se non questo, che gli sciaurati che mai non fur vivi, sdegnati dal mondo e dal cielo, sarebbero contenti di sperare la dannazione, perché il loro stato è sí vile che "l'altrui condizione invidiano sia pure infelicissima „. Hanno coscienza della loro superiorità di fronte agli altri dannati, e vorrebbero, almeno come questi, soffrire la dannazione.

In sant' Agostino, sant' Ambrogio, san Cipriano, e in altri ricordati dal Tommasèo, troviamo sempre la frase seconda morte nel senso di dannazione. Cosí Prudenzio (Hymnus ante somnum):

1 V. questo Giornale, anno I, quad. VI.

2 CIPOLLA, artic. cit. pag. 135.

Quesitor ille solus
animaeque corporis :
ensisque bis timen da

prima et secunda mors est.

uello che non osservò, credo, sinora nessun critico o commentatore , si è che il poeta usa la stessa locuzione un' altra volta, ' in un'epiVI ai fiorentini), e in quel luogo nessuno certo può mettere in he essa non significhi dannazione.

il brano che fa al caso nostro

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autem divina jura et humana transgredientes, quos dira cupiditatis paratos in omne nefas illexit, nonne terror secundae mortis exa

que il poeta spiegherebbe con questo brano della epistola sua il lla Commedia.

e la locuzione fosse già entrata nel patrimonio della nostra lingua, dimostrino i noti versi su la fine del Cantico del sole di san Fran

Beati quei che trovano tue sante volontate

ka la morte secunda non li farà male.

ui il senso è chiarissimo. Ma è poi vero che coloro che stanno neldantesco testimoniano, annunciano la dannazione loro?

viamolo brevemente: o con le grida o con le bestemmie o con le o con le beffe o coi lamenti ci fanno conoscere lo stato loro infe

na il poeta e la sua guida entrano nell'inferno (III, 22):

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e che stanno raccolte su la trista riviera d'Acheronte (III, 103):

Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,

l'umana spezie, il luogo, il tempo e il seme, ecc.

entrano nel I cerchio, Dante ci dice subito qual è la condizione delle là punite:

Quivi, secondo che per ascoltare,

non avea pianto, ma che di sospiri,

che l'aura eterna facevan tremare, ecc.

ci innanzi a Minosse e tra i peccatori carnali, V 25:

XX Paradiso la stessa frase esprime ben altra cosa.
Fraticelli.

e piú innanzi, v. 34:

Ora incomincian le dolenti note
a farmisi sentire......

Quando giungono innanzi alla ruina

quivi le strida, il compianto, il lamento,
bestemmian quivi la virtú divina.

In tutti questi modi non ci è chiaramente manifestata la condizione di quelle anime?

In tal modo si potrebbe seguitare per molti e molti canti: vedete i golosi che urlano come cani, i prodighi e gli avari che, oltre a gridare la loro pena, si scherniscono amaramente :

Percotevansi incontro, e poscia pur li

si rivolgea ciascun voltando retro,

gridando: "Perché tieni, e “Perché burli?„:

piú avanti le genti fangose faranno qualche cosa di piú:

Questi si percotean non pur con mano,

ma con la testa, col petto e coi piedi,
troncandosi coi denti a brano a brano.

Anche i dannati sepolti giú nel pantano si gorgogliano un inno nella strozza; e si sforzano per dirci chi sono, e che fecero, quantunque nol possano fare con parola integra:

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Persino nella selva dei suicidi, il poeta che non vede nessuna persona (XIII, 22)

sentia d'ogni parte traer guai:

i violenti contro sé stessi, mutati in piante, traggono guai, dalle ferite annunciando la loro presenza colà, la loro colpa, la loro pena eterna.

Quello che io faccio è una rassegna velocissima: tocco qua e colà e tiro via.

Le anime dannate spesso manifestano il loro stato di dannazione deridendo tutto: appunto nella loro superbia sta il loro tormento: questo sforzo di ira, di rabbia, di odio forma la maggiore pena. Capaneo, a pena si accorge che si parla di lui, grida:

1

Qual io fui vivo, tal son morto;

E continua con la impotente sfida a Dio:

Se Giove stanchi il suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore acuta, ecc.

1 SCARTAZZINI, Inferno, p. 134, e CIPOLLA, art. cit., passim.

Vergilio lo fa tacere con un feroce sarcasmo.

O Capanéo in ciò che non s'ammorza

la tua superbia, se' tu piú punito.

Nullo martirio fuor che la tua rabbia
sarebbe al tuo furor dolor compito.

Si potrebbero in tal modo prendere in esame i violenti contro natura, gli adulatori, i simoniaci, gli indovini, che non parlano, ma camminano lagrimando in modo che lo scoperto fondo appare al poeta bagnato di angoscioso pianto. Sarebbe superfluo osservare che i peccatori testimoniano la loro dannazione oltre che con le parole e con le ire e con le bestemmie, anche con la qualità della pena, sia li trascini la bufera o li ferisca la pioggia, o li abbruci il fuoco, o cagne li inseguano, o tra loro si accapiglino, o siano morti da serpi.

Alle parole provocatrici di Capaneo fa degno riscontro l'atto villano di Vanni Fucci, bestia cui Pistoia fu degna tana:

Al fine delle sue parole il ladro

le mani alzò con ambedue le fiche

gridando: Togli, Dio, che a te le squadro !

E in quale stato orribile o raccapricciante ci presenta il poeta gli scismatici e fa parlare Maometto:

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com'io vidi un, cosí non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla:
tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva, e il tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre Dante osserva, dolorosamente stupito, il dannato

. . . . con le man s'aperse il petto,
dicendo: Or vedi com' io mi dilacco;

vedi come storpiato è Maometto.

Dinanzi a me sen va piangendo Alí
fesso sul volto dal mento al ciuffetto.

Dopo tutto questo chi potrebbe negare il bando che della loro dannazione fanno i dannati sull'inferno dantesco?

Devesi adunque definitivamente abbandonare la interpretazione comune, e spiegare in questo modo più naturale, piú consentaneo alla religione e ai dogmi e dimostrato poi certissimo dalle parole del poeta stesso.

Ma non sempre avviene che le interpretazioni piú semplici e piú ovvie siano universalmente accettate: questa volta almeno mi sia lecito sperarlo.

DR. RICCARDO TRUFFI.

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