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Vi è nel XXIV canto del Purgatorio un tratto interessante intorno a questo subbietto, e la sua brevità m'induce a citarlo. Nel cerchio del Purgatorio, dove si espia il peccato della gola, Dante incontra un Lucchese che aveva conosciuto vivente, Bonagiunta Urbicciani, uno de' più rinomati poeti del suo tempo. Scorgendo Dante e riconoscendolo, Bonagiunta l'interroga per assicurarsi della verità :

Ma di' s' io veggio qui colui che fuore
Trasse le nuove rime, cominciando :
Donne, che avete intelletto d'amore.
Ed io a lui: P mi son un che quando
Amore spira, noto, ed a quel modo
Che detta dentro, vo significando.

O frate, issa vegg' io, diss' egli, il nodo
Che il Notajo, (1) e Guittone, e me ritenne
Di qua dal dolce stil nuovo ch'i' odo.

Io veggio ben come le vostre penne
Diretro al dittator sen vanno strette,
Che delle nostre certo non avvenne.

E qual più a guardare oltre si mette,
Non vede più dall' uno all'altro stilo:
E quasi contentato si tacette.

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Dante, io lo ripeto, ha talvolta ne' suoi componimenti poetici fatto altrimenti che non dice in questo tratto; ma non mai in quelli che sono stati degni di lui. Obliando la sua filosofia, la sua teologia, ed anche le sue poetiche teorie, dipingendo gli uomini e le cose con un grado d' individualità e di realtà che non dà luogo ad interpretazione allegorica, egli fu gran poeta.

(1) Jacopo da Lentini. (Il Traduttore)

Queste varie teorie di Dante su i rapporti della poesia e della scienza eran proprie dell' epoca; e se non si possono metter da parte nel giudicare le opere di questo grande poeta, almeno non bisogna dar loro un valore che non hanno per chi riguardi le cose nella sostanza e non si fermi alla superficie. Il più gran male che han prodotto gli errori di Dante su questo riguardo si è quello di dare ai pedanti, che dovevan venire dopo di lui, l'esempio di travisare le sue più belle idee poetiche, riducendole a luoghi comuni di allegoria e di simbolo. La pretensione di ricondurre coloro che han seguito questo cattivo esempio a mire più naturali e più sane, sarebbe troppo ambizioso; ma vi ha una più modesta pretensione e i cui risultati posson del pari esser utili, ed è quella di provare che la poesia di Dante, compresavi la Divina Commedia, perde non solo tutta la vita e tutto lo interesse poetico, ma ogni certo e reale significato nell' esser presa in modo allegorico.

II.

IDEA DELLA DIVINA COMMEDIA.

Ho cercato nella scorsa lezione di dare un'idea delle diverse facoltà di cui si compone il genio di Dante, e di veder come e sino a qual punto lo esercizio di queste facoltà ritardò o secondò lo sviluppo della sua immaginazione poetica. Io doveva in quella stessa lezione favellare ancora delle sue liriche poesie; ma mi è mancato lo spazio, anche per favellarne rapidamente; nè posso in un'ultima lezione, destinata alla Divina Commedia, intrattenermi sulle produzioni secondarie di Dante. Dirò dunque poche parole de' suoi lirici componimenti, col solo intento di mostrare il nesso istorico pel quale si collegano alla Divina Commedia.

Le poesie liriche di Dante possono dividersi in tre classi, secondo il subbietto. Alcune riguardano avvenimenti della sua vita; in altre l'autore si propone di dimostrare qualche verità morale, allora riputata importante e nuova; la maggior parte sono poesie amorose, composte per diverse donne, di cui sarebbe interessante per la biografia del nostro poeta il saper qualche cosa di positivo.

Quelle della Vita nuova furono, siccome abbiam detto nella scorsa lezione, composte per Beatrice; le altre per diverse donne, cinque o sei delle quali sono indicate da' commentatori e da Dante stesso, ma in modo sì vago e senza dirne altro che il nome o il paese.

Alcuni componimenti lirici di Dante sono di una tale stranezza e di un tal cattivo gusto da recar meraviglia; ma la maggior parte, sebben contengano espressioni rozze ed oscure, tuttavia risaltano per bellezze nuove, spesso commoventi, più spesso forti ed ardite. Non posso intrattenermi peculiarmente nè dall' une nè dell'altre, onde mi limiterò ad una sola e generale osservazione, che credo emergerà da ogni profondo esame delle poesie liriche di Dante, ed è che se Dante avesse composto queste sole poesie sarebbe senza dubbio il primo poeta del suo tempo, ma non il primo del genere, conciossiachè questa gloria appartenga al Petrarca (1).

(1) Le poesie liriche di Dante contengono un so che di gentilo e di elevato, e fanno vedere i primi slanci di un genio, che dovea poi prendere si alto volo. A dir vero, le sue canzoni, quanto al concetto, han prestato al Petrarca non lieve argomento d'imitazione. In quanto all'idioma però, sebbene sia bello ed elegante in generale, non serba quella squisita dolcezza che si rinviene nel Petrarca, nè quella ricercatezza ed armonia, che riesce si cara alle orecchie moderne.

Beatrice Portinari ispirò al poeta i primi canti di amore. Ei fece di questa donna una bellezza ideale, che sempre ebbe di mira, che celebrò viva e morta, e da cui attinse perennemente il suo genio; una bellezza ideale di tal fatta, che la Laura del Petrarca, al dir del Gioberti, non sembra che una debole e più popolare imitazione; una bellezza ideale si sublime ad un tempo e sì delicata, e sparsa quasi di una luce misteriosa e divina, tal che il pennello di Tiziano e di Raffaello non la potrebbero sì efficacemente ritrarre. Beatrice è tutta ispirazione, incanto, fascino, ma che nulla sente di volgare e di basso, anzi, cosa insolita e nuova, quanto è più ardente l'amore ispirato da quel volto celeste, tanto più ne accresce la purità, l' innocenza e il candore. I suoi vezzi, ben lungi di esser quelli della ricercatezza e dell'arte, son quelli della natura culta ed educata all' ombra del cristianesimo.

Il cristianesimo ha aggiunto alle belle arti, e principalmente alla pittura, alla scultura ed alla poesia, un so che di divino, che non fu conosciuto dai migliori artisti di Grecia e di Roma; poichè lo scalpello di Fidia e di Prassitele poteva esprimere in Pallade ed in Giove il sublime o il maestoso, e il pennello di Zeusi e di Apelle poteva ritrarre in Venere il tipo della bellezza e della più dolce voluttà; ma il Cristianesimo solo po

E questo giudizio non lede in nessun modo la fama di Dante. La poesia italiana del secolo XIII, quella poesia tutta lirica, espressione ideale dell' amore e della galanteria cavalleresca, imitazione, dapprima timida e servile, dappoi sempre più libera, della poesia provenzale; quella poesia non bastava al genio di Dante. Un'immaginazione si vasta, sì forte, sì ardita, sì originale siccome la sua, doveva necessariamente trovarsi alle strette in un genere di poesia monotona e povera che, non dovendo dipingere se non l'amore, era stata ridotta, per variare alquanto, a rendersi manierata e a ricorrere ad ornamenti artificiali. Non era difficile per Dante dí allargar la sfera di questa poesia, d'introdurvi nuovi modi poetici, di adattarvi nuovi colori. Dante aveva impressioni, ispirazioni, idee che non potevan restringersi negli ang usti confini di un genere di poesia oramai volgare; bisognavano alla sua immaginazione e al suo pensiero, per dispiegarsi in tutta la estensione, spazi liberi, mondi novelli; bisognava una nuova poesia.

Il tema, di questa nuova poesia, di cui aveva bisogno e che doveva esser la sua, Dante lo cercò e lo rinvenne di buon'ora. Di buon'ora concepì, non certo la Divina Commedia, tale qual oggi rimane, ma quella che, mercè di lavoro e di tempo, e mercè di successive modificazioni, doveva essere un giorno la Divina Commedia.

Un cenno delle prime impressioni e dei primi saggi che produssero questa grand' opera poetica, riuscir dovrebbe interessante, e su questo cenno volgerà principalmente la mia

teva ispirare a Raffaello quelle care immagini che rapiscono l'anima in un'estasi sì soave, e la sforzano, anche suo malgrado, a vagheggiare il cielo, il cristianesimo solo poteva ispirare quella onnipotente espressione di Dio impressa da Michelangelo nella statua del suo Mosè e nel Giudizio Universale, il cristianesimo solo poteva ispirare a Dante l' immagine di Beatrice. (Il Traduttore)

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