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cato. L'autore certo non ammetteva il purgatorio, poichè non vi fa andare san Paolo; nè è questa la sola eresia di questa singolar finzione, che ribocca di bellissimi tratti.

Infine un altra visione dello stesso genere delle precedenti, la cui menzione torna a proposito della Divina Commedia, è quella di frate Alberico, monaco di Monte Cassino, che fu compilata parecchie volte e da diversi scrittori nella prima metà del XII secolo. Avendo avuto molte occasioni di parlar di questa visione, per lungo tempo ignorata, ma oggi conosciuta in Italia, mi credo dispensato di parlarne qui a lungo,

Mi contenterò di citare un tratto della prefazione di uno di questi scrittori. Ecco in quali termini egli cerca di conciliar la fede de' lettori alle cose meravigliose che deve rac contare :

• Ciò che nol raccontiamo, egli dice, non è nè incredibile nè nuovo: questa cosa che Dio ha voluto manifestare mira- | colosamente ai nostri giorni, è una cosa già nota per le frequenti relazioni e per gli esempi del santi Padri. »

Questo tratto sembra alludere a molte visioni simili a quelle di Alberico, ed è un indizio della gran popolarità che questa specie di visioni avevano nel medio evo. E poichè ho indicato tante prove di questa popolarità, non sarà male che ne indichi un' altra più singolare perchè si rifesisce al l'anno stesso della visione di Dante, e perchè si collega ad una bizzarra avventura che dovette far gran rumore in Italia.

Nel 1300, un monaco di Modena, chiamato Nicola Guldonis, perdè d'un tratto tutti i sentimenti, e non die' più segni di vita. Si fece tosto quanto era mestieri, e si custodi per qualche tempo, onde assicurarsi se veramente fosse morto, scorso il quale, si apprestarono a seppellirlo.

Quattro frati a gravi passi conducevanlo ne' suoi abiti di monaco, disteso e scoperto nella sua bara. Dopo di loro venivano altri frati che pregavano e cantavano. Il corteggio si

avvicinava alla fossa, quando fra Nicola si alza di un tratto e distende le braccia come uomo stupefatto ed impacciato che va brancolando per sapere dove si fosse. In quel movimento macchinale, una delle sue mani cade sulla testa di uno de' monaci che il conducevano e ne toglie il cappuccio che la ricopre. I povero monaco non si aspettava di essere scappucciato da un morto, ond' egli cadde alla sua volta freddo cadavere, nè potè più rinvenire.

Quanto a fra Nicola, egli ritornava dall' altro mondo, dove avea veduto grandi meraviglie, che raccontò, e la strana avventura della sua resurrezione era più meravigliosa dello stesso racconto.

Si rileva agevolmente da quanto ho detto, che Dante non dovea torturar gran fatto l'immaginazione per inventare il subbietto, la prima idea della Divina Commedia. Ma questa idea era nulla in se stessa, e stava in lui il farne ciò che volesse, il darle grandezza ed originalità, l'imprimervi il suggello del suo genio. E ciò egli fece con una potenza ed una libertà d'immaginazione, che si potrebbe piuttosto incolpar di eccesso che di difetto. Molti si sono occupati delle piccole somiglianze che possono esservi tra la Divina Commedia e le visioni che l'avevano preceduta. Queste sòmiglianze esistono forse; ma non val la pena il discoprirle, non riguardando mai o quasi mai la sostanza delle idee, de' sentimenti delle cose, ma quasi unicamente alcune maniere di dire, che Dante adottava, non per bisogno, ma in testimonianza d'ammirazione e di rispetto per coloro da cui le attingeva.

Ho detto testè qualche parola sulla conformità che vi era tra le idee poetiche di Dante e la forma di visione sotto la quale le ravvicinò e sviluppo. Questa conformità è si diretta e si intima, che io crederei volentieri che se Dante non avesse trovato la tradizione di viaggi immaginari nel

mondo invisibile della fede, si popolari a' suoi tempi, avrebbe, primo di tutti, dipinto l' inferno, il purgatorio e il paradiso, poichè la sua immaginazione era si ricca da popolare ciascuno di questi tre mondi, e possedeva, per ciascuno di questi tre mondi, memorie, impressioni ed idee. Il lato austero, selvaggio, bizzarro e fosco del suo ingegno, che trovava agevelmente la figura e i supplizi dell' inferno, e vi riponeva uomini a lui noti, è il più conosciuto o, per dir meglio, è il solo che ben si conosca.Ma non è forse nè il più rilevante nè il più caratteristico: quella medesima immaginazione, che sapeva si bene attingere il terribile, aveva la facoltà di cogliere e di pennelleggiare i tratti dolci, pacifici e leggiadri della natura; i sentimenti teneri, benevoli e schietti dell' anima. Questa facoltà signoreggia nelle più belle parti del Purgatorio.

Il gusto prediletto di Dante per le speculazioni astratte e sublimi, il suo sapere teologico, le mistiche tendenze del suo pensiero, trovaron luogo nella descrizione di un paradiso cristiano, dove si manifestarono in rappresentazioni ardite della beatitudine de' santi e della gloria di Dio.

ཎྞཾ*,

III.

UNITA' RELIGIOSA DELL' INFERNO.

Al tempo di Dante lo studio delle mitologie dei diversi popoli del mondo era uno studio poco coltivato, e il poeta fiorentino non ne sapeva più di quanto ne sapevano i suoi contemporanei. Egli altro non conosceva se non la mitologia del paganesimo classico, dir voglio quella de' Romani e de' Greci, ma in modo implicito ed indiretto, poichè non avea potuto studiarla se non nei scrittori romani, che l'avevano adottato ed introdotto.

Questa mitologia greco-romana era dunque la sola le cui reminiscenze potevano impedire o secondare le ispirazioni di Dante nel comporre il suo Inferno; e son le sole infatti di cui si rinvengon le tracce in questa composizione. Ma queste tracce sono frequenti, e formano uno de' suoi elementi poetici, onde bisogna saperle giudicare per non correre il rischio d'ingannarsi intorno al sentimento dell'autore ed al carattere dell' opera.

Appena vi è un sol canto dell' Inferno in cui Dante non fa qualche allusione più o meno espressa, più o meno sviluppata alle favole pagane de' Greci e de' Romani, nè sarà qui superfluo il ricordare alcune di queste allusioni, e il provare la prima impressione che ne risulta.

Cosi, per esempio, Dante c' introduce nell' inferno per una porta sulla quale si legge un'iscrizione terribile e su

E questo giudizio non lede in nessun modo la fama di Dante. La poesia italiana del secolo XIII, quella poesia tutta lirica, espressione ideale dell' amore e della galanteria cavalleresca, imitazione, dapprima timida e servile, dappoi sempre più libera, della poesia provenzale; quella poesia non bastava al genio di Dante. Un'immaginazione si vasta, sì forte, si ardita, si originale siccome la sua, doveva necessariamente trovarsi alle strette in un genere di poesia monotona e povera che, non dovendo dipingere se non l'amore, era stata ridotta, per variare alquanto, a rendersi manierata e a ricorrere ad ornamenti artificiali. Non era difficile per Dante di allargar la sfera di questa poesia, d'introdurvi nuovi modi poetici, di adattarvi nuovi colori. Dante aveva impressioni, ispirazioni, idee che non potevan restringersi negli ang usti confini di un genere di poesia oramai volgare; bisognavano alla sua immaginazione e al suo pensiero, per dispiegarsi in tutta la estensione, spazi liberi, mondi novelli; bisognava una nuova poesia,

Il tema, di questa nuova poesia, di cui aveva bisogno e che doveva esser la sua, Dante lo cercò e lo rinvenne di buon'ora. Di buon'ora concepì, non certo la Divina Commedia, tale qual oggi rimane, ma quella che, mercè di lavoro e di tempo, e mercè di successive modificazioni, doveva essere un giorno la Divina Commedia.

Un cenno delle prime impressioni e dei primi saggi che produssero questa grand' opera poetica, riuscir dovrebbe interessante, e su questo cenno volgerà principalmente la mia

teva ispirare a Raffaello quelle care immagini che rapiscono l'anima in un'estasi sì soave, e la sforzaño, anche suo malgrado, a vagheggiare il cielo, il cristianesimo solo poteva ispirare quella onnipotente espressione di Dio impressa da Michelangelo nella statua del suo Mosè e nel Giudizio Universale, il cristianesimo solo poteva ispirare a Dante l'immagine di Beatrice. (Il Traduttore)

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