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timento religioso, era certo nella sua descrizione del limbo. Vi ricorderete di questo limbo: è un vasto spazio situato all'ingresso dell' inferno e che propriamente non ne fa parte; è il luogo in cui discesero pria che fosse propagata la legge cristiana i pagani di ogni paese che aveano fedelmente seguito i precetti della legge naturale. L'idea di questo limbo è forse, fra le idee del mondo soprannaturale cristiano, la sola che abbia un certo rapporto con quella dei campi Elisi del paganesimo, e che, poeticamente parlando, potrebbe esservi paragonata. Per Dante, che cerca, per quanto osa o può, identificarsi con Virgilio, queste due idce sono ancora più vicine e più suscettibili di esser poste in armonia l'una coll'altra.

Il limbo della Divina Cammedia non è in sostanza che una versione dantesca dei campi Elisi di Virgilio. Non vi è almeno in tutto l'inferno italiano un tratto in cui Dante abbia, più che in questo, voluto prestarsi all' ispirazione del poeta latino e ritrarre in una pittura cristiana il virgiliano quadro delle dimore dei beati del paganesimo.

È vero che in più di un tratto di questo canto dell' Inferno che ho qui di mira, vi è qualche cosa della soavità di Virgilio, di quella nobile semplicità, che forma uno dei caratteri e delle attrattive dell' antica poesia. In alcuni luoghi di questo canto l'immaginazione di Dante si dispiega con vaghezza, in modo da manifestare con più grazia e libertà quella specie di culto che il poeta fiorentino professava per l'antichità. Queste osservazioni si applicano soprattutto al luogo in cui Dante descrive il suo incontro e la sua passeggiata con Omero e tre altri grandi poeti dei tempi antichi :

Vidi quattro grand' ombre a noi venire :
Sembianza avevan nè trista nè lieta

Lo buon maestro cominciommi a dire

Mira colui con quella spadu in mano,
Che vien dinanzi a' tre sì come sire,
Quegli è Omero poeta sovrano,
L'altro è Orazio satiro che viene,
Ovidio è il terzo, ́é l'ultimo è Lucano.
Perocchè ciascun meco si conviene

Nel nome che sonò la voce sola,
Fannomi onore, e di ciò fanno bene.
Così vidi adunar la bella scuola
Di quel signor dell' altissimo canto
Che sovra gli altri com' aquila vola.
Da ch' ebber ragionato insieme alquanto,
Volsersi a me con salutevol cenno;

E il mio maestro sorrise di tanto.

E più d'onore ancora assai mi fenno,
Ch'essi mi fecer della loro schiera,
Si ch' io fui sesto tra cotanto senno.

Così n' andammo infino alla lumiera,
Parlando cose, che il tacere è bello,
Si com' era il parlar colà dov' era.
Venimmo appiè di un nobile castello,
Sette volte cerchiato d' alte mura,
Difeso intorno da un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura :
Per sette porte intrai con questi savi :
Giugnemmo in prato di fresca verdura.

Genti v'eran con occhi tardi e gravi,
Di grande autorità ne' lor sembianti;
Parlavan rado, con voci soavi.

Traemmoci così dall' un dei canti
In luogo aperto, luminoso ed alto,
Si che veder-si potèn tutti quanti.
Colà diritto, sopra il verde smalto,

Mi fur mostrati gli spiriti magni,

Che di vederli in me stesso mi esalto.

Tuttavia in questo medesimo canto, e non ostante la sua buona volontà d'imitar Virgilio, Dante ha fatto, sebbene in minor grado, ciò che ha fatto altrove: ha prestato a Virgilio i suoi sentimenti, le sue idee e il suo sapere teologico. Ivi dunque, come dappertutto, è rimasto l' uomo della sua credenza e del suo tempo, cercando per poco di esser quello dell' antichità. Il più lieve paragone basterà per far comprendere quanto vo' dire.

Le stesse ombre di cui Virgilio avea popolato il suo Eliso sono in generale quelle che Dante ha trasportato nel suo limbo, o che, per dir meglio, ha fatto trasportare dallo stesso Virgilio. Ma in due soggiorni sì diversi, queste ombre aver non potevano lo stesso destino. Virgilio pagano le ha reso beate per quanto ha potuto, nulla desiderando al di là di quanto possiedono. Nella credenza cristiana, la beatitudine è la vista di Dio, e la privazione di questa vista è necessariamente un immenso dolore morale. Or questo dolore, il Virgilio di Dante non lo risparmia nè agli eroi, nè a' saggi del limbo.

Citerò un tratto del quarto canto dell' Inferno, in cui la tinta tutta cristiana del personaggio di Virgilio, tale qual Dante ha voluto farlo e lo ha fatto, si mostra in modo notevole

Quivi (1), secondo che per ascoltare,
Non avea pianto ma che di sospiri,
Che l'aura eterna facevan tremare:

E ciò avvenia di duol senza martiri,
Ch' avean le turbe, ch' eran molte e grandi,
E d'infanti e di femmine e di viri.

(1) Cioè all' ingresso del limbo (Il Traduttore).

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Lo buon maestro a me: Tu non dimandi
Che spiriti son questi che tu vedi ?
Or vo' che sappi, innanzi che più andi,
Ch' ei non peccaro: e s'elli hanno mercedi,
Non basta, perch' ei non ebber battesmo
Che è porta della Fede che tu credi:
E se furon dinanzi al Cristianesmo,
Non adorar debitamente Dio:

E di questi cotai son io medesmo.

Per tai difetti, e non per altro rio,
Semo perduti, e sol di tanto offesi,
Che senza speme vivemo in desio.

Questo e gran numero di tratti di simil natura non han bisogno di commento.

Io son costretto a metter fine, sebben troppo presto, a queste osservazioni. Non mi resta che a dire una parola per riassumerle in una sola che sia il risultato e la conseguenza di tutte, che sia la espressione del fatto ch' io voleva indicare nella composizione della Divina Commedia e particolarmente in quella dell' Inferno.

Questo fatto si è, che l' uso che Dante fece nel suo poema di elementi mitologici e di una guida pagana, non reca nessun nocumento all' unità, almeno in quanto questa unità dipendeva dal convincimento religioso dell' autore; si è che Dante è quasi del pari, sebben diversamente, cristiano in tutte le parti del suo poema, in quelle anche in cui si può credere che fu trasportato da qualche idea pagana; si è che in generale l' Inferno è la espressione vera e profonda del medio evo italiano, e che le reminiscenze dell' antichità non vi producono più effetto o altro effetto di quello che produssero sullo stesso medio evo.

IV.

MOTIVO E SCOPO DELLA DIVINA COMMEDIA.

In qualunque modo si consideri, non puossi vedere in questo poema un' opera composta per unico motivo, per un solo scopo morale, un' opera da un capo all' altro ispirata da un medesimo sentimento. La lettura più superficiale di questo poema basta per dimostrare che Dante, componendolo, obbediva a più di un impulso, aveva più di un intento. Ei non voleva soltanto farne un monumento del suo genio poetico e della sua scienza; ma coglieva le occasioni per indicare l' iniquità di Firenze verso di lui, e di ferire col suo odio i suoi nemici. Egli vi lavorò per intervalli, nella dolce speranza che mercè del nome che si sarebbe acquistato, la fiorentina repubblica richiamato lo avesse ne' suoi focolari. In una parola, se vi è nellà Divina Commedia una varietà prodigiosa di obbietti e di quadri, d'idee e di dottrine, vi si rinviene del pari una gran varietà di personali motivi. Dante vi lasciò da per tutto l'impronta immortale di tutte le sue passioni, di tutto che provò nelle fasi diverse del suo severo destino.

Ma ciò ammesso, un' altra questione si presenta, una questione circoscritta e che si concilia agevolmente con tutto ciò che ho detto. Fra tanti motivi personali, fra tante intenzioni

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