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Questo racconto, io credo, è il più circostanziato che vi sia nella Divina Commedia; contiene più di cento versi, ed è il più lungo racconto dell' Alighieri; e, quanto alla forma generale della composizione, è il più caratteristico fra i racconti del poeta fiorentino. Se Dante avesse avuto di mira, nella sua 'narrazione, la maniera espressa che ha seguito in tutte le altre, non l'avrebbe composta altrimenți di come ha fatto questo punto di cui mi sono intrattenuto più di una volta, qui diviene più chiaro.

La fine tragica di Ugolino fu preceduta o prodotta dagli antecedenti di cui ho fatto cenno. Dante non dice una parola di questi antecedenti o per dir meglio, non ne fa menzione che per annunziare di non volerne dir motto; ma questa volta almeno ha cercato ingegnosamente di giustificare questa sua renitenza.

I non so chi tu sie, nè per che modo
Venuto se' quaggiù ma Fiorentino
Mi sembri veramente quand' i' t' odo.

Or un Fiorentino, cioè un uomo sì vicino a Pisa, non poteva ignorare un'avventura che avea fatto tanto rumore siccome quella di cui si tratta. Ugolino potea dunque supporre, che la sua avventura fosse conosciuta a questo Fiorentino, e tacendola risparmiava un racconto superfluo.

Qual è dunque la parte dell' avventura che il conte Ugolino vuol raccontare e racconta infatti a Dante? Quella che nè Dante, nè alcuno sapeva nè poteva sapere; quella che era accaduta nelle tenebre dell' odiosą torre, e che non aveva avuto altro testimonio se non Dio. La sola circostanza della morte di Ugolino, di cui i Pisani avean potuto saper qualche cosa, e di cui Dante avrebbe potuto parlare, era quella della dimanda di un confessore, che lo sventurato prigioniero

avea ripetutamente richiesto. Ma Dante avea le sue ragioni per tacere questa particolarità: dando ad Ugolino rimorsi e pentimento non lo avrebbe forse potuto mettere nell'inferno, dove volea collocarlo.

Così dunque, per ritornare all' osservazione testè enunciata, tutto il racconto si aggira sulla parte dell'avventura di Ugolino, ignorata da Dante. Questa parte misteriosa ed ignota è quella creata interamente dal poeta, è quella colla quale vuol commuovere il lettore, e a quest' uopo ei dispiega tutta l'energia e tutta l'arditezza della sua immaginazione.

Or ciò che Dante ha fatto sì chiaramente in questa narrazione, lo fa in tutte le altre. In ogni avvenimento da lui raccontato, si contiene una parte istorica a tutti nota, e una parte poetica da lui inventata, mercè della quale egli lega i fatti della vita presente alla futura. Egli 'fa un breve cenno della parte nota degli avvenimenti, e mette in rilievo la ignota; e sembra che questi avvenimenti in lui non destino interesse, se non in quanto riguardano gli eterni destini dei personaggi che vi ebbero parte, se non in quanto servono di passaggio da questo mondo all' altro.

Dopo questa prima osservazione sul racconto dell'avventura di Ugolino, ne farò un'altra più particolare, che sebben sembri meno evidente, non lascia però di essere ugualmente vera.

Vi è un punto molto importante sul quale Dante si è discostato dalla verità istorica, e non può dubitarsi lo abbia fatto a bella posta.

Dei quattro individui che perirono con Ugolino, due soltanto erano suoi figlį, e non eran fanciulli ma uomini formati ed anche di età matura. I due altri erano i suoi nipoti, i quali non può supporsi avesser meno di dieci o dodici anni.

Dante non fa veruna distinzione tra i quattro; e lutti ugualmente gli suppone figli di Ugolino, e tutti di tenera età.

Mercè questa supposizione, egli potè in gran parte diffondere sul suo racconto vari e profondi tratti di patetico, che temperano felicemente l'orrore fondamentale del subbietto. La pietà di Ugolino doveva essere, ben si comprende, più viva e più pungente per figli di tenera età, innocenti ed incapaci di comprendere il loro tremendo destino, di quanto esser poteva per figli di età virile, che avevano cospirato con lui e che con lui soccombevano. Riesce allora più naturale che il padre e i figli si dimentichino, per così dire l'uno per l'altro, si commuovano, ed impieghino ogni loro vigore per dissimulare reciprocamente i sentimenti di dolore e di orrore da cui sono compresi. Da questo lato affettuoso e morale Dante ha sviluppato il suo subbietto, trattando di volo quello che dir si potrebbe il lato fisico e materiale, e in ciò soprattutto si è mostrato gran poeta.

VI.

SORDELLO.

(Purgatorio, Canto VI e seguenti)

Non per un motivo di mera curiosità biografica io consacro un'intera lezione alla vita di Sordello; oltre alla celebrità del personaggio e al misterioso interesse che Dante ha per sempre legato al di lui nome, ragioni più dirette m'inducono a parlar di lui, ed a ricercare da per tutto, ove rinvenir si possano, i tratti sparsi della sua vita. Io desidero aggiungere qualche cosa a quanto ho detto nelle precedenti lezioni sull'istoria e sulla influenza della poesia provenzale in Italia, e cercherò di conseguire il mio intento raccogliendo alquante notizie intorno a Sordello.

Dante descrive il purgatorio come un'alta montagna di forma conica, divisa in otto gradini o stazioni, nelle quali le anime umane espiano successivamente i peccati perdonabili, di cui non fecero in vita bastevole penitenza. Il primo o il più basso di questi gradini non fa parte, per così dire, del purgatorio; ma forma una specie di limbo, in cui tutti i peccatori debbono più o men lungamente dimorare, secondo che sono stati più o men lenti a convertirsi.

Questo gradino inferiore si divide in parecchi altri, in ragione dei diversi motivi pei quali i peccatori han differito la loro penitenza.

Dante e Virgilio avendo già traversato parecchie divisioni di questo gradino inferiore, giungono a quella destinata alle anime dei peccatori che, indugiato avendo la penitenza, furon percossi da morte violenta, e non si pentirono che al loro ultimo momento. Fra la moltitudine di queste anime Dante ne rinviene parecchie di personaggi da lui in vita conosciuti, colle quali s'intrattiene successivamente, ed elle lo scongiurano di raccomandarle alla memoria ed alle preghiere dei loro parenti. Rimasti soli alfine, Dante e Virgilio pro-seguono il loro viaggio; ma il giorno essendo vicino ad estinguersi, sono incerti sul loro cammino, e cercano alcuno che possa loro additarlo.

Allora scorgono a poca distanza un'ombra, che si dispongono ad interrogare. Virgilio, che primo la discerne, si rivolge a Dante, e qui comincia il celebre tratto, che citar deve chiunque parlar voglia di Sordello.

Ma vedi là un' anima, che a posta
Sola soletta verso noi riguarda :
Quella ne insegnerà la via più tosta.

Venimmo a lei: O anima lombarda

Come ti stavi altera e disdegnosa

E nel muover degli occhi onesta e tarda !
Ella non ci diceva alcuna cosa;

Ma lasciavane gir, solo guardando

A guisa di leon quando si posa.

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
Che ne mostrasse la miglior salita;
E quella non rispose al suo dimando.
Ma di nostro paese e della vita
C'inchiese. E il dolce Duca incominciava :
Mantova... E l'ombra, tutta in sè romita,
Surse ver lui dal luogo ove pria stava,
Dicendo o Mantovano, i' son Sordello

Della tua terra. E l'un l'altro abbracciava.

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