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blica interveniva del pari negli atti tra i quali la opinione moderna pretende stabilire una differenza essenziale, qualificando gli uni di legislativi, gli altri di esecutivi. La sua sanzione era ugualmente necessaria pei progetti di legge, per le dichiarazioni di guerra, e pei trattati di pace e di alleanza.

Mi resta a fare, su queste grandi assemblee, vere rappresentanze delle popolazioni repubblicane d'Italia, una domanda, che sembrerà forse bizzarra, ma tuttavia naturale, ed alla quale non può esitarsi a rispondere.

In qual lingua si parlava e si discuteva in queste assemblee? in italiano o in latino? È certo che in tutto il corso del secolo XIII, tutti gli atti, tutte le provisioni (come si chiamavano dei consigli generali delle repubbliche italiane furono redatti in latino. Ma può inferirsene che furon del pari discusse in latino? Non è verisimile il supporlo. Tutto induce a presumere che quando si offrivano alla discussione ed alla sanzione di una moltitudine illetterata atti in lingua latina, le si offrivano tradotti in lingua volgare, e che in questa erano discussi. Però il fatto è notevole ed io vi ritornerò altrove.

Indipendentemente e fuori della società generale governata e rappresentata, come abbiam visto, ogni classe d' individui di una stessa condizione, di una stessa professione, di una stessa categoria qualunque, aveva la sua particolare organizzazione, i suoi magistrati, i suoi propri capi, e formava così nella grande società una società più piccola, una corporazione che le era subordinata. Da un altro lato, i capi, i magistrati di queste corporazioni formavano colla loro riunione un corpo particolare di magistratura che, sotto il nome di capitudini o di capitanerie di arti e mestieri, partecipava al governo.

Non vi è dubbio che queste corporazioni non fossero un

avanzo delle istituzioni municipali dei Romani; si rinvengono sotto la prima costituzione consolare, ma poco numerose e senza importanza politica. Nel corso del secolo XIII esse multiplicaronsi e presero una parte attiva alle rivoluzioni delle repubbliche.

Del resto, i capi, i magistrati particolari di queste corporazioni, serbarono generalmente nel secolo XIII il primiero nome, cioè quello di consoli.

I nobili, ma più particolarmente coloro che avean ricevuto l'ordine della cavalleria, furono obbligati da per tutto a formare una corporazione analoga a quella delle arti e mestieri, ed ebbero come questa i loro consoli.

Oltre i consoli dei nobili e dei cavalieri, oltre quelli dei mercanti e delle altre professioni, alcune città ne ebbero di speciali. Le città marittime, per esempio, ebbero consoli di mare, magistrati particolari degli stranieri attirati dal commercio. Altre città, come Siena, per una eccezione più singolare e più cavalleresca, crearono consoli degli orfani e delle donne; e perchè potessero meglio adempiere al loro ufficio e proteggere più efficacemente le donne e gli orfani, furono investiti di una giurisdizione particolare, i cui atti furono singolarmente rispettati..

Oltre ai diversi magistrati, di cui ho parlato finora, ve ne erano altri, il cui ufficio era più speciale; ma di questi vi son poche notizie. Trovavasi in Genova un consiglio di otto nobili, incaricati, sotto i titoli di clavieri o clavigeri della percezione e dell' amministrazione delle rendite della repubblica. In Siena ed in Firenze il medesimo ufficio era adempito da un sol personaggio col titolo di camerlingo. Eranvi pure in alcune città uffiziali incaricati della fabbrica della verifica della moneta. In altre eranvi`magistrati preposti alle provvigioni di grani della repubblica.

Si vede chiaramente quali erano in questa organizzazione

i magistrati incaricati di certe attribuzioni puramente municipali, che nell' antica organizzazione romana appartenevano ai membri della curia o decurioni, e che dovevano necessariamente aver posto nella nuova costituzione repubblicana. To dir voglio dell'intervento dell' autorità pubblica negli atti di emancipazione, di tutela e di curatela, ed in generale nelle diverse transazioni libere d'individuo ad individuo.

Si vede nondimeno, mercè una testimonianza che si riferisce alla costituzione di Pavia,che i magistrati governanti sotto l'antico nome di consoli occupavano queste cariche municipali: è questa una preziosa notizia che non esito a generalizzare, applicandola alle altre repubbliche. Così il governo generale e il regime municipale erano rimasti confusi nella costituzione di queste repubbliche. È questa, tra le molte altre; una ragione di più per credere che il governo generale di cui si tratta non era stato nei suoi primordi, se non una estensione, una conquista del regime municipale.

Da queste nozioni, sventuratamente un po' vaghe, sulla organizzazione generale delle repubbliche italiane, io passo ad un punto non meno importante e un poco meno oscuro, cioè a quello che riguarda la giustizia.

La organizzazione e l'esercizio delle attribuzioni giudiziarie sono uno di que' punti su i quali regnarono le maggiori incertezze e si fecero i maggiori esperimenti nei diversi periodi delle costituzioni repubblicane d'Italia. Nei primi tempi e nelle prime forme di queste costituzioni non si era fatta alcuna distinzione tra il potere giudiziario e i poteri generali del governo; gli stessi magistrati governavano e giudicavano. Si conobbero ben tosto gli inconvenienti di questa confusione, e si fecero allora alcuni tentativi per isolare lo esercizio della giustizia dal governo propriamente detto. Nel 1126, epoca

nella quale i magistrati superiori delle repubbliche serbayano ancora il nome di consoli, si crearono in Genova consoli speciali dei piati della giustizia. Lo stesso avvenne in Milano, ma non può dirsi precisamente in qual epoca.

Nel 1165 crearonsi la prima volta consoli di giustizia in Piacenza, e questa creazione fu notata come memorabile. Nell'anno 1204, e certo anche prima, Firenze imitava questo esempio. In quell'anno rinvengonsi nove consoli della città. cioè nove magistrati governanti, e un console della giustizia.

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Non può dubitarsi che l'idea di questa riforma non fosse divenuta quasi generale nelle città libere d'Italia e che la maggior parte di queste città non avessero, secondo questa idea, modificato la loro costituzione.

S'ignora se l'ordine pubblico traesse vantaggio dalla riforma: ma i fatti provano che non rispose del tutto al bisogno di quelle giovani società repubblicane agitate e turbolenti, che confondevano in ogni istante colla libertà le dimostrazioni di forza e di audacia contro i loro nemici. Lo spirito di parte, che da per tutto esaltavasi sempre più, si mescolava a tutti i delitti e ne rendea da per tutto la punizione più incerta e difficile.

Ad evitare questa costante difficoltà, gli uomini politici di quel tempo dovettero naturalmente immaginare diversi modi di giustizia. Potè credersi agevolmente che un personaggio potente, dotto, e rinomato pel suo carattere e le sue virtù, chiamato come giudice in luoghi in cui fosse straniero, fra uomini coi quali non fosse legato nè di parentela, nè di affezione, nè d'interesse, unicamente assistito nel suo ufficio da subordinati, stranieri al par di lui alle popolazioni che gli avessero chiamati, potè credersi, io diceva, che questo personaggio ponesse ad effetto, per quanto era possibile, la finzione di un angelo caduto dal cielo sulla terra per rendervi la giustizia. Questa persuasione diè luogo al podestariato.

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Nel XII secolo, e molto innanzi alla pace di Costanza, si trovano nelle città libere d'Italia magistrati col nome di podestà. Ve n'era uno in Parma nel 1165, un altro in Padova nel 1174. Nel 1183, cioè nell'anno stesso della pace di Costanza, ve n' erano in parecchie altre città d'Italia, in Tréviso, in Lodi, in Bologna. Sin dal principio del secolo XIII ve n'erano da per tutto nei luoghi dove gli Italiani erano stati liberi di metterne. Si può soltanto dubitare se questa istituzione fu sin dalla crigine, quella stessa da noi osservata verso la metà del secolo XIII. È probabile che in quest'ultima epoca avesse ricevuto importanti perfezionamenti: a quest' epoca almeno si riferisce quanto se ne sa di più interessante e di più caratteristico.

Le condizioni che le città libere d' Italia esigevano da un uomo per farne un podestà ne rendevano grave e difficile la scelta. Egli non doveva soltanto essere straniero alla città che lo chiamava, era mestieri fosse nato ad una certa distanza da quella. Doveva essere d'illustre lignaggio, di qualcuna di quelle famiglie che serbavano ancora i titoli di duca, di conte, di marchese, sebbene il potere annesso a questi titoli fosse da secoli annichilito. Si esigeva rigorosamente da lui che appartenesse all' ordine della cavalleria; e se non avesse già ricevuto quest' ordine al momento della sua elezione, la città, che lo aveva eletto, doveva conferirglielo con tutta la solennità e le formalità richieste. Egli doveva aver l'età di trentacinque anni almeno, ed essere della opinione politica dominante nel paese che lo sceglieva.

Ogni personaggio eletto all' ufficio di podestà doveva condurre secolui la sua corte, o., come dicevasi, la sua famiglia, cioè tutte le persone di cui aveva bisogno per adempiere degnamente e convenevolmente a siffatto ufficio. In quanto al numero ed allo splendore, questa corte variava in ragione dell'importanza, della grandezza o della vanità

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